Pensare la Democrazia nel Terzo Millennio. 14 – La ricerca scientifica

Una serie di punti chiave, chiari, ineludibili, per ripensare la politica, da tempo scomparsa in Italia e – probabilmente – in stato comatoso in tutto l’Occidente. Una serie di punti che riteniamo fondamentali, in ordine logico, che proporremo in diverse puntate ravvicinate. In questa quattordicesima e ultima puntata: la ricerca scientifica.

Invitiamo tutti i lettori a dibattere questi temi scrivendo suggerimenti e critiche nei commenti.

14. Promuovere la ricerca scientifica e l’innovazione. Si tratta di due obiettivi collegati ma distinti, che, insieme, fanno la gran parte della differenza tra i paesi in ascesa e quelli in declino. Se la ricerca scientifica in Italia è da sempre sottofinanziata, a dispetto dei casi di eccellenza che quasi mai hanno una ricaduta strutturale, uno dei motivi è certamente l’inesistente cultura scientifica del nostro popolo e, drammaticamente, dei nostri politici. La politica italiana non capisce la ricerca, non ne riconosce il valore, non è in grado di creare le condizioni, economiche ma non solo, perché possa prosperare. Quando i nostri politici si accorgono degli istituti di ricerca italiani è per occuparne le posizioni direttive con persone di certa osservanza, e meno male che di solito hanno da pensare a poltrone più “pesanti” in termini di soldi e consensi. Ma se la ricerca soffre la fame, l’innovazione è, in Italia, un eterno Godot, il cui nome compare in ogni documento programmatico ma i cui connotati sono sconosciuti anche alle persone che dovrebbero facilitarne l’avvento.

14.1 Quello che la politica può e deve fare per la ricerca scientifica sono essenzialmente due cose, una facile e una difficile. 

14.1.1 La prima, e più ovvia, è investire in essa una quota dignitosa del nostro PIL. L’Italia, da anni, è in coda a tutte le classifiche relative alla spesa per la ricerca, e gli effetti si vedono. I nostri politici, per deficienze culturali pressoché insanabili, non “vedono” la ricerca e non comprendono che gli investimenti nella ricerca sono quelli a maggior ritorno anche economico, oltre che di conoscenza (uno studio dell’associazione europea Science|Business stima un ROI medio del 20%); se appare un’impresa impossibile “iniettare” cultura scientifica nella nostra classe politica, spendere il doppio di quanto si spenda ora nella ricerca è possibile e necessario, punto e basta, senza discussioni. Ci penseranno poi gli scienziati a far fruttare quei fondi.

14.1.2 La seconda cosa, molto più difficile, è alleggerire la ricerca italiana dal peso di baronie e “cordate”, semplificando e accelerando l’accesso alla ricerca da parte dei giovani. L’anagrafe, nella ricerca scientifica, è spietata: i ricercatori, specie nelle discipline a forte contenuto matematico, danno il meglio di sé da giovani, anche se ovviamente col tempo finiscono per occupare posizioni più manageriali che da “punta di diamante”. Rallentare la carriera e l’accesso ai fondi per i progetti dei giovani ricercatori, e subordinarli a un’interminabile sudditanza verso i baroni universitari, significa ridurre l’efficacia degli investimenti; per dare maggiore spazio ai giovani, però, occorrono scelte coraggiose e oculate, appunto nella gestione dei fondi di ricerca, che non sono affatto facili e che richiedono una collaborazione proficua tra politica e grandi istituti di ricerca.

14.2 Quanto all’innovazione, la triste verità è che non si capisce come possa promuoverla uno Stato incapace di innovare innanzitutto se stesso. Se lo Stato italiano fosse in grado di digitalizzare seriamente la Pubblica Amministrazione, come si dice da tempo immemorabile e come gli altri paesi hanno fatto, i privati cittadini e soprattutto le imprese ne trarrebbero benefici enormi, e al contempo l’incentivo a modernizzarsi, come è accaduto ad esempio con la fatturazione elettronica, che pure rispetto alla digitalizzazione complessiva dei processi amministrativi dello Stato è una goccia nel mare. La digitalizzazione della P. A. è il terreno di innovazione su cui la nostra politica deve impegnarsi senza compromessi.

14.2.1 La digitalizzazione della P. A. però non significa creare un sito web per ogni comune e per ogni ufficio, o realizzare app magari anche ben fatte ma “dietro” le quali rimangano le consuete frammentazioni e inefficienze. Digitalizzare la P. A. significa innanzitutto razionalizzarne i processi e i servizi, ridisegnandoli completamente ed eliminando duplicazioni e ridondanze che oggi sono la regola.

14.2.2 In questo senso, la digitalizzazione deve necessariamente accompagnarsi alla centralizzazione. Se in generale la polverizzazione delle competenze e delle responsabilità è disastrosa, quando si digitalizza e automatizza un processo o un servizio è semplicemente insostenibile. La piattaforma digitale per gestire un servizio che è lo stesso in tutta Italia deve essere una; e all’unificazione della piattaforma digitale deve corrispondere l’unificazione dell’organizzazione del servizio anche nel back-end, altrimenti si verificano disastri come quello di Immuni, in cui si è discusso fino allo sfinimento di un’app che in sostanza era fatta bene, mentre il processo di tracing e testing, affidato a ciascuna Regione senza un centro unificato di gestione, è stato semplicemente una vergogna.

14.2.3 La politica, nel promuovere l’innovazione nella P. A., deve quindi necessariamente sottrarre alle autonomie locali, se non la titolarità delle competenze sui servizi, la loro gestione operativa, lasciando alle amministrazioni locali solo l’attività effettivamente territoriale. Si tratta di un’operazione che non può svolgersi senza conflitti e difficoltà, ma nondimeno indispensabile.