La fallacia della libertà individuale

Il livello alto, colto, del dibattito sui vaccini e il green pass, ha a che fare con la differenza fra libertà individuale e libertà collettiva (in realtà questo secondo termine, così espresso, mi pare abbia poco senso, ma ci siamo capiti). Chi resiste agli obblighi si appella a una irriducibile libertà individuale che, da un certo punto in poi, non è più negoziabile, mentre chi tali obblighi li vuole estendere ritiene che non ci sia libertà individuale che tenga di fronte al benessere collettivo (anche ‘benessere collettivo’ è ambiguo, ma ancora ci capiamo, penso). Ne parlo perché è appena stata pubblicata una lettera di Carlo Ottieri, professore di Filosofia del diritto all’Università di Verona, che sostiene la prima tesi, ovvero che a un certo punto c’è una riga sulla sabbia che non è oltrepassabile, che è quella del primato della libertà personale per la quale l’obbligo in sé, al di là delle buone intenzioni, è un odioso passo verso il dispotismo. La lettera si mostra come vaga difesa all’avere firmato il famoso appello dei 300 professori contro il green pass nelle università. Chi vuole approfondisca, a me pare una letteratura poco interessante e voglio discutere un altro argomento, quello dei conflitti inevitabili fra libertà individuale e interesse collettivo (ecco: ‘interesse collettivo’ mi pare vada già meglio). 

Io ritengo che questi due concetti siano almeno in parte inconciliabili. Non ci può essere una completa libertà personale senza intaccare l’interesse collettivo e, di converso, questo non può che limitare almeno in parte le libertà individuali.

Mi sembra abbastanza facile argomentare questa tesi: il concetto di ‘libertà individuale’ ha a che fare con bisogni, desideri, interessi (ma anche sogni, fantasie e nevrosi) per definizione illimitate, che si manifestano in un ambiente chiuso e per ciò stesso limitato nella possibilità di risposta. L’ambiente è chiuso nel senso fisico del termine (il pianeta ha risorse limitate) ma anche in quello sociale; abbiamo delle relazioni sociali per lo più imposteci: quei colleghi di lavoro, quella famiglia, quegli amici conosciuti ai tempi di scuola, con poche occasioni di ricambio per l’individuo medio (che se poi fate parte della jet society il discorso è diverso). Abbiamo quel figlio da portare a quella scuola, la spesa da fare più o meno a scelta fra i due supermarket vicino a casa, la solita zia che ci viene a trovare a Pasqua e così via. Ho un po’ banalizzato il discorso ma spero sia abbastanza chiaro: noi viviamo in dei ruoli sociali, in dei luoghi geografici, entro una cultura appresa e ci muoviamo in quell’intorno.

I nostri bisogni, desideri, interessi sono enormemente più vasti di quei luoghi, di quelle persone che conosciamo, delle cose che realmente possiamo fare. Non possiamo avere i soldi di Zuckerberg, il fascino di Paul Newman, la longevità di Rita Levi Montalcini (e forse neppure il suo cervello) e così via. Ma non per questo non desideriamo essere più ricchi, più amati e ammirati, più fortunati, più potenti (il potere, grande motore del desiderio!).

La maggior parte del malessere sociale nasce dal fatto che non siamo chi vorremmo, non abbiamo ciò che riteniamo ci spetterebbe, non siamo sufficientemente considerati (questo è il potere fittizio che sembrano darti i social media). E la maggior parte di questa anomia sociale si traduce in piccole e grandi prepotenze che facciamo sugli altri, in piccoli crimini, fino ai furti, concussioni, corruzioni, truffe. La lite mortale fra giovani perché uno aveva guardato una frazione di secondo troppo la ragazza dell’altro. Il parcheggio sullo stallo dei disabili e che si fottano, io c’ho fretta. L’abuso edilizio che dai, cosa sarà mai? Ecco: noi facciamo brutte cose perché vogliamo, desideriamo, anzi: abbiamo diritto! Abbiamo diritto alla felicità, porco d’un cane, perché gli altri sì, e io no?

In un ambiente chiuso – con risorse e relazioni limitate ma vincolanti – i nostri desideri sono compressi, e ciascuno di noi, di fatto, si costituisce come ostacolo al desiderio di potenza altrui. 

La libertà personale è ridotta per definizione nel costituirsi della socialità umana: si va a caccia assieme secondo certe regole agli ordini del capo caccia. L’accesso alle donne è regolato rigidamente e secondo rituali molto circostanziati. Si pregano gli dei in un modo prescritto. Eccetera. Ogni regola limita un pezzo di libertà individuale, e se l’evoluzione della specie ci ha liberato da molteplici vecchi e oscuri obblighi, innumerevoli altri ha introdotto col crescere della complessità sociale.

I desideri e i bisogni personali hanno forza centrifuga disgregante: se fossero (stati) lasciati liberi di agire non avremmo società, la nostra specie non si sarebbe evoluta. La somma dei desideri e bisogni porta all’annientamento reciproco. Ovviamente i divieti e gli obblighi, volti a impedire quel disastro, hanno un equilibrio fragile e possono ipoteticamente condurre alla repressione totalitaria; direi che dal green pass al totalitarismo il passo è molto lungo e ogni paragone azzardato ma, in linea di principio (quello invocato da molti dei 300 firmatari e altri intellettuali) la sostanza è quella.

Non si tratta di un’aporia irrisolvibile; non si tratta di scegliere fra barbarie dell’illimitata libertà a fare il male e totalitarismo oscuro di chi mette un freno. Ridotto a questo, il problema diventa macchiettistico.

Ci sono due elementi da considerare: il primo è quello che per brevità chiamerò “responsabilità individuale”, che potrei descrivere come una sintesi civica che l’individuo consapevole sa dare della sua contemporaneità, facendogli tenere a freno i desideri di potenza a favore di principi di realtà condivisi e solidali; insomma: l’epoca della caccia alla tigre dai denti a sciabola per avere il diritto di accoppiarsi con le donne della tribù è passato da un pezzo e non invano; si è evoluta la cultura, abbiamo raggiunto alcuni traguardi, siamo più consapevoli (non tutti, no). 

Il secondo elemento è la capacità di governo della complessità (limitatissimo) che porta a considerare, al di là delle molteplici volontà di potenza espresse, quale sia il minimo comun denominatore di utilità, e imporlo. Per esempio: obblighiamo tutti a guidare a destra e a fermarsi col rosso, perché se ognuno guida come gli pare, e si ferma al colore che preferisce, scoppia un putiferio inimmaginabile. Uguale con la pandemia: facciamo vaccinare tutti perché la gente smette di morire, può andare in sicurezza a scuola e al lavoro, l’economia riprende e stiamo tutti più tranquilli. Naturalmente il minimo comun denominatore di cui parlo non è un prodotto numerico che soggiace a regole immutabili, ma una considerazione logica (e quindi di per sé potenzialmente fallace) della quale un ceto politico si assume la responsabilità. Ho già scritto che è implicito un pericolo democratico, ma semplicemente non ci sono altre soluzioni perché siamo umani, esseri sociali e fallaci che ancora brancolano nel buio della ragione.

La conclusione è questa: chi forza fino alle logiche conseguenze il diritto alle libertà personali, confligge inevitabilmente con gli interessi collettivi. Non può fingere che non sia così. Ma – e questa è la mia conclusione personale – proprio la crescente complessità non può dare spazio alle conseguenze delle libertà narcisistiche (io ritengo che di questo si tratti) senza minare quelle basi sociali che sono, paradossalmente, la base essenziale per potere esprimere ogni desiderio di libertà. Senza un minimo comun denominatore di sicurezza, uguaglianza, salute, benessere, nessuna libertà individuale potrebbe affermarsi, neppure quelle stravaganti dei no vax.