1) L’individuo umano è inconoscibile (in modo finito) – Parte II

Questo testo fa parte di una serie; la presentazione del lavoro e l’introduzione generale la trovate QUI.

La prima parte di questo capitolo la trovate QUI.

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1.4) Noi siamo tanti

Noi siamo tanti. Ciascuno di noi è tanti. Siamo il marito (o la moglie) più o meno devoto, il figlio più o meno affettuoso, siamo quello che alla caffetteria prende sempre l’insalatone “perché mi voglio rimettere in forma”, quello che guarda lubricamente la cameriera, quello esperto in quel tale progetto che oggi presenterà ai colleghi, quello in crisi esistenziale che il progetto non l’ha neppure fatto bene perché è così stanco di tutto, voi siete tanti. Avete un atteggiamento religioso, uno politico, una certa idea sulla pena di morte, un’altra sul fatto che le maestre non si capisce perché facciano sciopero, leggete certi giornali e certi altri certamente no, tifate una squadra di calcio e, in ciascuno di questi segmenti di vita, siete più o meno cordiali, più o meno felici, più o meno riflessivi. Questa miriade di voi è in larga parte coerente, ma ci sono parti che non lo sono per niente; siete affettuosissimo coi bambini ma allo stadio siete delle bestie; razionali sul lavoro ma credete al complotto lunare; siete favorevole ai migranti, vi ritenere di sinistra, ma in certi casi ammettete la pena di morte; andate in chiesa la domenica ma tradite vostra moglie. Tutte queste che definiamo contraddizioni, non lo sono. Sono i vostri molteplici Ego, ciascuno dei quali ha un suo profilo; non solo: ogni Ego cambia in continuazione, oggi è così e domani chissà.

Ora vi è stato chiesto di partecipare a un focus group, su un tema professionale che conoscete bene: al focus non partecipate voi, ma il gruppo di Ego che hanno a che fare col tema: c’è l’Ego professionale in gran spolvero, quello che deve far lustro delle sue competenze; in secondo piano l’Ego sociale, quello che sa tenere banco nelle comitive, poi l’Ego corporativo, quello che rappresenta la cultura dell’azienda, gruppo, istituzione in rappresentanza della quale siete stato chiamato, e probabilmente mezza dozzina di altri Ego meno importanti. Quello principale sa cosa deve dire, ma quello sociale vuole brillare e far bella figura per impressionare alcuni altri partecipanti coi quali si sente in competizione, e ciò lo farà parlare un po’ troppo; l’Ego corporativo non è molto contento, perché non tutto andrebbe detto, almeno non con quell’enfasi, e la sintesi che verrà fuori a “voi” sarà una mediazione fra tutto questo, una mediazione che non richiede mezz’ora di dibattito nel vostro foro interiore, e che semplicemente emerge, solitamente senza consapevolezza o con una consapevolezza vaga. 

Che valore ha ciò che alla fine avrete detto? Se l’Ego sociale si vedeva attorniato da altre figure meno interessanti, meno competitive, forse non premeva per emergere; se quello corporativo non aveva un mandato preciso, lasciava perdere; se eravate stati mandati alla riunione controvoglia, l’Ego ribelle si sarebbe imposto e avreste profferito pochissime parole. Che valore ha quello che alla fine avrete detto?

1.5) Il fluire storico

Il fluire storico ha un’importanza cruciale nel complessificare un quadro già di per sé piuttosto imperscrutabile. Non solo – come già accennato – oggi siamo diversi da ieri in virtù delle molteplici relazioni, dei diversi fatti, accidenti, questioni che hanno reso l’oggi diverso dallo ieri. Poiché i nostri Ego imparano dall’esperienza, e questa plasma e continuamente modifica gli schemi mentali tramite i quali interpretiamo la realtà, viene da sé che accumulare esperienze, letture, viaggi, relazioni, trasforma, solitamente col tempo e raramente in maniera repentina, gli schemi. Quando un ateo ha un’epifania religiosa, e diventa cattolico praticante, possiamo immaginare che sia accaduto questo: una serie di esperienze – in senso lato – che si sono accumulate mutando gli schemi mentali e quindi facendogli vedere il mondo in maniera differente; quella che noi vediamo come repentina conversione non è che la “catastrofe” (nel senso della teoria topologica dei sistemi dinamici ideata da René Thom) che noi, che non abitiamo nel suo foro interiore, percepiamo come cambiamento subitaneo, ma affonda le radici in una serie correlabile di eventi e fattori precedenti. Analogamente, e meno drammaticamente, il noto quietarsi dello spirito ribelle giovanile man mano che l’età procede; l’adattarsi ai cibi di un popolo diverso in caso di migrazione; il venir meno della considerazione verso una terza persona, o il trasformarsi di un’amicizia in rapporto amoroso.

Poiché noi impariamo dalla vita (non necessariamente il verbo ha sempre connotazioni positive), mutiamo schemi interpretativi, “vediamo le cose” in altro modo. Chiedere oggi, a un individuo, cosa pensava su un certo argomento vent’anni fa, è sempre una domanda che ha a che fare, di regola, con l’interpretazione attuale che costui fornisce dei fatti di allora. Non è il ricordo che è sbiadito (anche, forse, ma questo potrebbe non essere un problema) ma la sua interpretazione e quindi la sua rappresentazione. Poiché ogni evento è un insieme ricchissimo di simboli, dei quali identifichiamo e trattiamo solo la parte utile e pertinente col momento che viviamo, del ricordo di vent’anni fa noi percepiamo solo i simboli che sono per noi significativi ora, adesso, e semplicemente non vediamo quelli che oggi, sulla base dei nostri attuali schemi, non sono percepiti dall’attuale semantica.

Ovviamente questa scotomizzazione non può valere per fatti storici eclatanti; se vent’anni fa sono stato partecipe di un fatto tragico, ovviamente ricordo il fatto in sé (la sua sintassi) ma l’interpreto diversamente (nella semantica), piccole questioni che contrastano con l’immagine che ho di me oggi sarebbero minimizzate, modificate, avvolte da un significato differente, mentre altre questioni che si attagliano all’immagine attuale sarebbero sottolineate ed esaltate. In questo processo può indubbiamente incorrere il dolo, la menzogna (che è un altro problema capitale della relazione) ma qui sto dicendo che – al netto del tentativo di manipolare il ricordo – la forma degli schemi mentali che Ego possiede oggi gli fa riconoscere e non riconoscere specifici tratti di Sé vent’anni fa, con buona pace di tutte le analisi longitudinali.

1.6) Che lingua parliamo?

Tutto quanto precede ha poi da fare i conti col linguaggio. Chi si è occupato di problemi transculturali (per esempio di migranti) conosce bene la sostanziale impossibilità di porgere domande che siano comprese, dall’informatore straniero, nel medesimo modo che intendeva l’intervistatore, salvo ovviamente una straordinaria competenza linguistica di entrambi. In italiano noi usiamo cliché linguistici, frasi retoriche, figure allegoriche di cui neppure siamo sempre consapevoli, che non vengono minimamente compresi dall’informatore straniero con una competenza solo strumentale della nostra lingua. Finché il colloquio ha una forte impronta operativa (e quindi essenzialmente sintattica), tutto va abbastanza bene: quanti anni hai, da quanto tempo sei in Italia e cose simili. Se incominciamo a chiedere opinioni (“Cosa ne pensi di…?”) cominciano i guai, e qualora volessimo chiedere spiegazioni (“Perché hai detto…?”) potremmo infilarci in un ginepraio inestricabile di sintassi mal comprese e semantiche non sovrapponibili.

Se il caso è eclatante interrogando individui di culture lontane (semmai giovani e con limitata scolarizzazione), diventa man mano più sfumato, ma mai assente, fra parlanti italiani di regioni diverse. E infine – come è stato facilmente dimostrato – da parlanti della stessa area geografica e più o meno simili come livello culturale.

Indubbiamente, passando da informatori “altri da noi” al nostro vicino di casa queste differenze mutano di intensità; col vicino di casa la sintassi è certo largamente condivisa, come buona parte della semantica riferibile a referenti pratici, quotidiani, ampiamente esperiti da qualunque rappresentante medio di quella cultura (la casa, la scuola, la manutenzione della strada, il cibo, la nuova pizzeria dietro l’angolo…). Ma indagando opportunamente scopriremmo facilmente che anche in queste conversazioni banali si cela un velo di indefinitezza, di vaghezza, di incertezza semantica, che non si disvela (almeno, non al punto di rendere difficoltosa la conversazione) per molteplici ragioni; la prima è la componente indicale di ogni discorso, per cui fra parlanti che condividono la sintassi si capisce che si sta discutendo proprio di quel tale referente e non di qualcosa di simile; poi, in casi particolari, c’è la riduzione dell’incomprensione al livello sintattico: se io parlo di scuola dei nostri figli intendendo riferirmi a elementi pedagogici non compresi dal mio interlocutore, che riteneva di discutere in generale della buona qualità complessiva del livello didattico, costui scende di qualche livello nella scala di generalità e risponde in base al livello compreso e condiviso; il più delle volte funziona. Qualora non funzionasse, io uso una frase di questo genere: “No, guarda, io intendevo questo e quello”, e aiuto l’interlocutore a riconsiderare il piano semantico, risalire la scala di generalità, ed eventualmente cambiare risposta (che può anche essere “Ah, beh, su questo non saprei cosa dirti…”).

Gli aggiustamenti reciproci della semantica, per proseguire lungo un discorso complesso, indicano un problema comunicativo che è ammissibile solo fra amici e sodali, o in conversazioni banali che non mettono in gioco particolari valori simbolici; fra persone estranee questi valori simbolici sono sempre presenti; io ti intervisto e tu non vuoi fare la figura dello stupido, tutto qui. Quindi tu mi darai una risposta, semmai vaga, ma raramente dirai “Non so… Non capisco… Non ci ho mai pensato…”. E la risposta che tu mi dai, il più delle volte io intervistatore me la faccio andare bene, perché reagire con “No, guardi, lei non ha capito la domanda…” ha un valore simbolico negativo imbarazzante. Quindi, nelle situazioni di indagine sociale, ci accontentiamo di livelli linguistici intermedi, principalmente sintattici, e solo in particolari casi di ricerca riusciamo a fare di meglio.

1.7) In conclusione, che individuo conosciamo?

Tutti gli elementi sopra riepilogati ci mostrano un individuo molteplice, complesso, in  continua evoluzione, con specificità mutevoli. È come se vedessimo un mondo perennemente “mosso”, in senso fotografico (motion blur). Tutto è tremulo, davanti a noi.

Vediamo una sagoma, e sappiamo attribuirla a un individuo, ma non ne vediamo lineamenti e contorni netti e discontinui. Vediamo che parla, che ride, che gesticola, e capiamo il senso, in che direzione va, che categoria di sentimenti esprime, e tutto ciò basta e avanza per una relazione sociale funzionale, almeno nella grande maggioranza delle volte. Va bene nel comportamento ordinario. Lo scienziato sociale non può farselo bastare, e ha bisogno di comprendere su un piano più dettagliato, cercando ragioni, correlazioni, generalizzazioni. Il suo bisogno si incontra però con individui “mossi”, in cui l’interlocuzione è incerta e vaga, sostanzialmente segnata dal momento; adesso, in questo universo del tempo “Ora”, è (più o meno, in forma incerta), così; dopo, l’universo è mutato e le cose potrebbero essere in un altro modo.

Questa riflessione si scontra con certe illusioni metodologiche ingenue ma non certo col sentire comune. Nella vita quotidiana sappiamo che ogni momento è specifico, sappiamo che ciascuno di noi è molti; “Cosa ti è preso oggi?”; “Sei sceso dal letto col piede sbagliato?”; “Guarda che ieri mi hai detto che questa cosa ti andava bene…”; “Non ti riconosco più!”; “Non sei l’uomo che ho sposato”; “Datti una calmata!”.

Perché allora le scienze sociali, nella loro opera di costruzione di dati sociali, agiscono esattamente al contrario, con formule standard, strumenti rigidi, elaborazioni erga omnes e generalizzazioni ardite?

(Continua…)

(Foto di Claudio Bezzi)