Un articolo veramente bello di Fabio Martini sull’HuffPost mi fa tornare su un argomento più e più volte affrontato qui su HR, sin da quando scrissi I talk show ammorbano le coscienze, ed era il settembre 2014. Parlare di mass e social media è qui sempre stato un modo per segnalare il potente uso politico delle parola per fini manipolatori. Se interessati, con l’uso di opportune parole chiave troverete veramente molte decine di articoli.
Per risparmiare tempo, farò così: darò per scontato che abbiate letto l’articolo segnalato (fatelo, merita veramente) e, senza ulteriori chiose e citazioni, farò un ragionamento per punti (seguendo grosso modo Martini) che mostrerà un piccolo compendio su vari temi collegati: giornalismo, televisione, informazione, social media, manipolazione.
1. Informazione e democrazia
Che l’informazione debba essere democratica è un’ovvietà, se non fosse per il distorto concetto, solitamente partigiano, che si ha di ‘democrazia’. Se in una rete televisiva faccio partecipare un neonazista che nega la shoah, questa è democrazia, per il solo fatto che faccio parlare tutti, ovvero non censuro, non impedisco, non nego un “diritto” (?) altrui alla libera espressione? Non ci sarà bisogno di ritornare a Popper per asserire convintamente che no, non è questa la democrazia, anzi rischia di essere il suo contrario. Allora aggiungiamo una sorta di contraddittore: all’esponente neonazista che propone i suoi deliri, contrapponiamo una persona di parere contrario (chi vi pare, autorevole a piacere); questa è diventata democrazia? Ancora no, perché finisce per giocare un ruolo importante la presenza scenica (incluse le inquadrature fatte ad arte dalla regia), la capacità declaratoria e istrionica (più del raffinato ragionamento) e, in ogni caso, occorre capire per quale motivo, in base a che obiettivo informativo, quel neonazista è stato chiamato. Per farla proprio breve: non esiste un motivo al mondo, di tipo educativo o informativo, che giustifichi la presenza del neonazista in uno studio televisivo, a sputare veleno a beneficio di milioni di cittadini. Se c’è all’ordine del giorno la necessità di una riflessione sul nazismo, un servizio storico ben curato offre più informazioni e credibilità (ma probabilmente meno share!).
2. Informazione e obiettività
Trovo noioso ripeterlo, e annoierò anche i lettori. È arcinoto, facile da vedere e dimostrare, che non ci può essere l’informazione obiettiva, oggettiva, veritiera al 100%. Le ragioni ci farebbero perdere il filo del discorso, quindi: l’informazione deve cercare di separare i fatti presentati dalle opinioni del giornalista; deve essere suffragata da dati (se ci sono) e da testimonianze anche contrapposte (se possibile – NB: non ha a che fare col punto 1, qui parliamo di un’altra cosa), ed essere scevra da sottotesti emotivi, allusioni valoriali, digressioni partigiane. Lo spettatore (o il lettore) deve potersi fidare della completezza informativa, e deve potersi creare una sua propria opinione. Prendiamo il caso attuale: i fatti sono l’aggressione, la resistenza, i morti, l’invio di armi; le conseguenze di questi fatti sono il pericolo europeo, la crisi del grano, la perdita di reputazione russa. Se iniziamo a dire “Ma però la Russia…”, “Ma anche Zelensky…” incominciamo invece a introdurre surrettiziamente dei dubbi che sono frutto di partigianeria. È ovvio che un ometto che va al talk show a sponsorizzare Putin fa molti più ascolti di una mezz’ora di riepilogo delle ragioni macroeconomiche del prossime default russo, ma se questa vi sembra una regione sufficiente a giustificare il putridume dei talk show credo che fra noi ci sia un serio problema.
3. I talk show sono come il wrestling
Il wrestling americano non è uno sport ma uno spettacolo. Omaccioni con costumi infantili sembrano darsele di santa ragione, quando con la metà della metà di quei colpi, se solo fossero veri, stenderebbero un bue. I talk show sono analoghi: è tutta una finzione, il format, l’astuto conduttore, gli ospiti non casuali, le inquadrature della regia (la testa di un partecipante che fa “No no” mentre continua l’audio di un ospite non inquadrato; lo sguardo sprezzante; le mani che si torcono…). Che dire poi degli ignobili siparietti, delle finte (o vere, è lo stesso) litigate fra individui vergognosi che dovrebbero essere banditi a vita dalla TV, e invece – guarda un po’! – tornano sempre e sempre a riprodurre il loro spettacolino, strabuzzare occhi, sputare la bava… La comunicazione televisiva non è ciò che si dice, e che voi ricevete e interpretate come credete; ma è l’insieme di testo e immagini, pause e rumori, posture del conduttore e dettagli sparati in primo piano. Il vero testo, quello che arriva al vostro cervello, è l’insieme di tutte queste cose, sapientemente dosate per indurvi a pensare quello che il conduttore e il suo staff vogliono.
4. L’opinionismo furbetto
Uno stuolo di ignoranti è diventato protagonista dei talk show perché accreditato di meriti che nulla hanno a che fare col tema trattato: essere un cantante più o meno bravo, una soubrette più o meno nota, non ha alcun rilievo al fine di informare meglio e più lo spettatore. La mascalzonata consiste nel traslare la notorietà (per esempio nel canto) in competenza (per esempio sulla guerra in Ucraina). Se è legittimo che chiunque abbia l’opinione che crede, in quanto cittadino di uno stato democratico, non è affatto legittimo utilizzare il megafono televisivo per accreditare le follie di Montesano sulla dittatura sanitaria, per fare un esempio fra mille. Poiché questa operazione è voluta, è cosciente, è consapevole, chi la realizza è un mistificatore, un manipolatore.
5. Il populismo vittimistico
Come Martini sottolinea in maniera convincente facendo una digressione su Michele Santoro e il suo modello di televisione (rilevantissimo, ha fatto scuola), questi talk – con pochissime eccezioni – propongono una visione del mondo populista-vittimista: c’è spessissimo una visione manichea, quella dei cattivi (via via i padroni, la casta, i biologi ottusi, i guerrafondai che vogliono dare le armi agli ucraini) e quella dei buoni che si ritrova sotto le insegne del conduttore, nuovo paladino degli oppressi, generalmente amico di magistrati dall’ugola d’oro, di sindacalisti del tutto e subito, di parlamentari che si sono seduti sin da subito dalla parte del giusto, degli oppressi come da loro definiti. È ovvio che questa non è informazione, ma manipolazione, tentativo voluto e consapevole di orientare l’opinione pubblica.
6. Il potere, infine
Deve essere inebriante. Avere il potere. Essere in televisione, guardato da milioni di persone, ricamando pian piano la propria tela assertiva, egotica, narcisista: dire “la verità”, anzi: essere uno dei pochissimi che sa dire quella verità, ed ecco l’ospite che la conferma, il pubblico che applaude… A cosa ti serve fondare un partito quando hai un talk show?
Insomma, cari amici, ancora una volta, attenti, attenti, attenti: la parola è potente, la parola viene facilmente mistificata e usata contro di voi; i social media sono il male, non potete veramente credere di esserne immuni proprio voi (la seduzione dei cuoricini, l’obbligo dei like); la televisione – tutta, ma quella italiana in particolare – è un campo minato di disinformazione sistematica; le eccezioni ovviamente ci sono, ma non è sempre facile riconoscerle.
Insomma, mi vedo ancora una volta chiamato a ripetere un appello che da un po’ di tempo non proponevo su questo blog: NON OMOLOGATEVI!
