Andrò a votare “Sì” a tutti i referendum sulla giustizia, domenica 12 giugno, e vi spiego il perché.
Chi si accinge a leggere questa noterella abbia pazienza, perché mi serve di prenderla larga.
1) Sono arciconvinto che la natura dei referendum abrogativi sia diventata equivoca; come ho scritto non poche altre volte, qui su HR, si chiede ai cittadini di andare a votare su questioni tecniche di cui non sa nulla, e non sto parlando di questi cinque ma in generale: ogni quesito referendario degli ultimi vent’anni ha avuto complessità tecniche, giuridiche, politiche che non si possono spesso risolvere con un Sì/No neppure se si è esperti della materia, figurarsi il cittadino comune che finisce col votare non nel merito, ma per ragioni terze, come ha imparato a sue spese Matteo Renzi con i suoi referendum costituzionali, bocciati perché stava antipatico lui come persona, e non per il senso dei quesiti che pochissimi – ma davvero pochi – conoscevano veramente; finisce il tutto per diventare sfogo, resa dei conti, partigianeria populista (ne scrissi un sacco di anni fa, ben prima di Renzi e di questi sulla giustizia);
2) i cinque di domenica, poi, non risolverebbero – se approvati – i complessi problemi della giustizia, per una serie di questioni tecniche che Chiara Plazzi ci ha ampiamente descritto pochi giorni fa sul nostro blog; quindi qualunque sforzo ciclopico per portare masse di cittadini a votare non risolverebbero magicamente i nostri problemi, e anzi – visto come sono stati scritti i quesiti – forse forse in qualche caso lascerebbero dei vuoti;
3) infine sappiamo già tutti che i referendum non raggiungeranno il quorum necessario. Soldi sprecati, tempo sprecato… Se i promotori (radicali in testa) non si sono sbattuti da settimane battendo il territorio per convincere gli elettori, a che pro insistere? Per non parlare di Salvini, la cui compagnia – fra chi intende votare – è indubbiamente causa di imbarazzo.
Ciò detto, io comunque andrò a votare “Sì” ai cinque referendum. La ragione non è certamente tecnico-giuridica, ma politica. Non esistono questioni puramente tecniche, rispetto alle quali la politica debba e possa dire “Io non c’entro nulla”. La situazione disastrosa della giustizia italiana è prima di tutto un disastro politico, di una politica incapace di compiere una complessiva, reale, radicale, riforma di un pilastro del convivere associato che non solo permette quotidiane e plateali ingiustizie, che non solo ci trascina in basso nelle classifiche internazionali, ma che sostanzialmente è lasciata nelle mani di una corporazione dove gli elementi più burbanti, protervi, narcisi, impreparati, soffocano il buono fatto dai colleghi più operosi e seri. Dalle carceri piene di innocenti ai processi-farsa, dalle persecuzioni personali ai teoremi complottisti, dalle fughe di notizie per il linciaggio pubblico di persone che risulteranno poi innocenti all’egotismo narcisista di magistrati perennemente in odore di politica, dalle sentenze antiscientifiche ai comportamenti bassamente lobbisti. Non ha importanza, ora, capire i come e i perché, o addirittura i quanto (se i magistrati discutibili siano l’1 o il 10 o il 50%); è assolutamente evidente che concorrono problemi e questioni diverse, da leggi obsolete a formazioni scadenti, a scarso controllo da parte dell’organo preposto dalla magistratura ad altro ancora.
Il punto è semplicemente uno, e uno solo, ed è un punto politico, non tecnico: non esiste una classe politica capace di riformare la giustizia; non esiste una classe politica in grado di concepire un nuovo disegno del sistema giudiziario, e metterlo in esecuzione.
In un Paese dove la corporazione degli insegnanti vieta ogni riforma scolastica, quella dei concessionari balneari tiene in scacco il governo, quella dei taxisti blocca da decenni la liberalizzazione del settore, quella dell’ATAC impedisce il corretto funzionamento dei bus a Roma, e via discorrendo, vi sembra forse strano che la corporazione dei magistrati sia così forte e minacciosa? Che sappia di fatto impedire, alla nostra scarsissima politica, il solo pensiero di una riforma che mini il loro potere?
Allora io, come cittadino, assisto impotente; essendo un argomento per me molto importante (come – credo – dovrebbe esserlo per ogni democratico), leggo con continuo dolore, angoscia, rabbia, i continui abusi della magistratura; la vergogna delle carceri; i processi inutili fatti a innocenti dopo la meticolosa loro distruzione sociale grazie alla connivenza di quotidiani che godono di “fughe di notizie”. Se c’è un luogo deputato a misurare il nostro grado di civiltà è la giustizia, e la nostra misurazione ci restituisce un punteggio basso, bassissimo, infimo.
Ecco perché andare a votare è una scelta politica, un ultimo tentativo di segnalare (probabilmente inutilmente) che io, cittadino italiano, sono deluso e amareggiato, desideroso di una riforma vera per una giustizia vera.
Di questo ho scritto, con Stefano Machera, anche nel nostro Pensare la democrazia nel terzo millennio, da poco edito dall’editore Bonanno. Lasciatemi riprodurre uno stralcio di quel libro:
Dopo l’azione legislativa viene logicamente quella giudiziaria. Un potere costituzionalmente indipendente che per molte ragioni indica molto nitidamente il grado di civiltà di una nazione, e la capacità di quella vita associata su cui stiamo ragionando. Comunque – nella sua indipendenza – il potere giudiziario è secondo al potere politico e servitore dell’armonia della vita associata. Un potere giurisdizionale che si sostituisca a quello politico, e che cerchi di manipolare i cittadini, è un pericoloso mostro da abbattere. La storia di questi ultimi 30 anni ha mostrato, in Italia, proprio questa pericolosa supplenza ed episodi, non rari, di deriva populista nella magistratura e nella concezione dell’idea di giustizia nel nostro Paese. Un problema reale e, paradossalmente, speculare al populismo giudiziario, è l’alto tasso di inefficacia della giustizia. Non solo processi lunghissimi, ma anche la reale non perseguibilità di un’ampia serie di reati, specie minori, che rendono sovente sterile l’azione di contrasto delle forze dell’ordine in diverse fattispecie criminose
(microcriminalità in genere, spaccio, prostituzione…) che altro non fanno che aumentare l’allarme sociale, creando un clima favorevole al giustizialismo e bloccando il coraggio (eventuale) della politica di mettere mano a una seria e radicale riforma.
Il 12 giugno, spero che anche qualche lettore verrà, con me, a votare “Sì”.