Nella mia vita, dopo pochi anni post laurea di precariato (che all’epoca consideravo occasioni d’oro ma per carità, il mondo è cambiato) ho iniziato a lavorare, dopo regolare concorso, in Enti pubblici di natura diversa; successivamente mi sono dimesso e ho intrapreso un’attività privata. C’è stato un periodo intermedio, in cui continuavo a lavorare nel pubblico part time, mentre avviavo il mio nuovo lavoro. In quel periodo – lo ricordo benissimo – mi apparve, pungente, la colossale distanza di culture fra i funzionari e dirigenti pubblici da una parte, e gli imprenditori, professionisti e artigiani che avevo iniziato a frequentare dall’altra parte.
Vi riassumo in maniera grossolana questa distanza: i primi (impiegati pubblici nei diversi ruoli e livelli) conoscevano il mondo attraverso le leggi, i regolamenti, le delibere; con la pressione dell’organizzazione amministrativa e politica; grazie alla mediazione del sentito, del detto, del percepito di innumerevoli riunioni col mondo dell’impresa. Ma non capivano i problemi degli imprenditori e professionisti con l’assillo e l’urgenza, e le priorità, e le logiche di questi. Viceversa, e specularmente, il mondo del lavoro conosceva il pubblico – così io percepii – attraverso norme oscure e farraginose, tempi incomprensibili, ostacoli ridicoli, senza comprendere appieno il ruolo di garanzia e democrazia ed equità che un’amministrazione pubblica (se efficiente, e al netto delle inaccettabili esagerazioni italiane) garantisce.
Così io capii, e ancora credo. Questi due mondi – per dirla adesso in sociologhese – vivono in province di significato differenti, utilizzano frame cognitivi diversi, praticano giochi linguistici inconciliabili. Si parlano, si incontrano, ma usano lingue diverse: il tipico funzionario pubblico è sospettoso verso l’imprenditore, il quale è esasperato dall’ottusità del primo.
Questa distanza fra mondi non è tipica solo del funzionario pubblico rispetto a chi vive del suo lavoro fuori dalla Pubblica Amministrazione, ma è comune anche a mondi limitrofi, per esempio quello dell’Accademia: nella mia vita ho frequentato molte decine di professori, alcuni per lunghi anni e con bei rapporti di amicizia e intimità, e vi assicuro che non pochi di costoro sanno tutto, ma proprio tutto tutto, sul loro campo specifico di sapere, ma essenzialmente in maniera cerebrale, libresca, con un livello di esperienza pratica sovente prossima allo zero, che finché discutono nell’ambito della loro disciplina va ovviamente bene così, ma quando diventano corsivisti del Corriere o influencer su Instagram va molto meno bene. Analogamente i sindacalisti e i politici, salvo – per questi ultimi – quelli approdati tardi alla politica dopo un giusto numero di anni di lavoro “vero” (intendo: il lavoro finto, presso strutture di partito, giornali di partito, fondazioni di partito, non conta; diversi politici registrati come “giornalisti”, per esempio, sono stati in realtà persone a cui veniva pagato uno stipendio con la scusa di una radio o di un giornale – vedi Salvini).
Per ragioni facilmente intuibili anche senza scomodare la psicologia, una sorta di imprinting istituzionale rende il funzionario pubblico sensibile ai regolamenti e alle prassi della sua comunità di pratiche, il docente sensibile alla citazione colta e al giudizio della sua comunità scientifica, il sindacalista e il politico sensibili alla protesta e alla rivendicazione di coloro che compongono la loro costituency. C’è un continuo autoriferimento.
Ovviamente questa differenza, questa sostanziale incomprensione, ha un peso rilevantissimo sulla conduzione delle nostre vite. Le regole del nostro vivere associato sono decise dai politici, l’accesso a determinate risorse è regolata da burocrati, l’orientamento dell’opinione pubblica è in parte condizionato da intellettuali. Certo, anche gli imprenditori, i professionisti, gli artigiani etc. hanno i loro “sindacati”, le loro lobby, i loro rappresentanti in Parlamento, e così la loro voce arriva a chi deve arrivare e, in una competizione politica normale, si varano leggi sufficientemente inclusive, programmi e politiche sufficientemente efficaci, con amministrazioni che gestiscono la salute, l’istruzione, lo sviluppo in maniera decentemente efficace; se – come nel momento presente – le forze populiste sovrastano quelle razionaliste, allora il meccanismo s’inceppa; ma non è di questo che voglio parlare.
Voglio insistere sul fatto che siamo condotti da qualche parte, ovunque sia, da personale politico, intellettuale, amministrativo, che nella grande maggioranza dei casi ha un’idea indiretta, di seconda mano, di quali conseguenze pratiche si inneschino con le loro decisioni.
Mi torna questa preoccupazione dopo avere letto l’intervento di Cofferati (e Sateriale) di cui tratterà nel merito Filippo Ottonieri, prossimamente, qui su HR (sostanzialmente Cofferati suggerisce di risolvere il problema del lavoro con un piano pubblico di assunzione di badanti). I due scrivono sciocchezze così straordinariamente stupide che, così credo, brillano per sciocchezzeria ancor più proprio per l’alto profilo dei due autori.
Sateriale, indubbiamente uomo di cultura e di meriti, è nato e cresciuto in CGIL. Ha fatto anche il sindaco, e va a suo merito, ma è essenzialmente un uomo CGIL, dove ha fatto pure una bella carriera. Cofferati, analogamente, è stato sindaco e anche europarlamentare, ma lui non è semplicemente stato in CGIL, lui è stato la CGIL e attualmente, come area politica di riferimento, fa riferimento a Sinistra Italiana e Liberi e Uguali. In particolare è Cofferati che ha colpito la mia fantasia, in questo senso: se Sateriale è noto principalmente a chi si interessa di politiche sindacali, Cofferati è assurto al livello simbolico alto, quello che spetta a chi tanto si è impegnato, tanto ha fatto (o almeno…), tanto ha detto: Pertini, per intenderci; Montalcini; Berlinguer; per altri versi Ferragni. Capitemi: da persone, coi loro meriti e i loro torti, tutti umani, a icone; ritagliati dalla vita e diventati modelli, e quindi cliché, fuori dalla storia, usati come figurine. Bene, Cofferati era un po’ su quella strada, come Bertinotti, per una certa sinistra, per una visione egualitarista del mondo.
Perché un uomo come Cofferati si è spericolato per infilare una serie di cazzate sesquipedali di quella fatta? Perché per avvalorarle le ha firmate con Sateriale (per dire: non una boutade da vecchio pensionato ex intellettuale, ma qualcosa di vivo e valido oggi, adesso, per il sindacato a guida Landini)? Poiché le cose non si fanno per caso, mi chiedo allora il significato di questa mossa politica.
Anzi no, non me lo chiedo più. Ormai la delusione verso intellettuali e maestri del pensare è irreparabile, e anche questa notina di Cofferati passerà in cavalleria. Il messaggio sarà arrivato a chi doveva arrivare, grazie al cielo gli autori non muovono correnti del PD (credo, spero), non agitano ministeri; sono già passati alcuni giorni, nessuno addetto ai lavori – da quel che so – ha ritenuto di “rispondere” a Cofferati quindi, alla fin fine, chi se ne frega?
Ecco, ve lo spiego: Cofferati è uno; poi ci sono Bertinotti, Civati, Murgia, Cacciari, e andate avanti voi con un elenco che, se non state attenti, diventa veramente lungo. Un elenco di persone che ha un idea del mondo nata sui libri, nata in una scatola ideologica, nata in un’organizzazione che performa, informa, induce, obbliga a un pensiero specifico, nata dentro quattro mura, un’idea che si confronta con altri pensieri analoghi, nati analogamente sui libri, entro gabbie ideologiche, fra quattro mura. Tutto questo pensare, discettare, argomentare, è in gran parte fazioso e autoreferenziale. Si può facilmente spiegare tale povertà. Ma non serve a niente. Chi ha letto tanti libri vi citerà Hegel, o Keynes; chi sta nell’amministrazione pubblica ha sempre la possibilità di brandire un regolamento; chi sta nel sindacato blatererà (a vanvera) di diritti, che poi c’è sempre una statistica, o un articolo sul New Yorker, o un illuminato parere a sostenere qualunque loro argomentazione.
E così costoro dirigono la nostra vita, da loro conosciuta tenendosene a debita distanza. E noi scemi che perdiamo tempo a leggerli, confutarli, avvertire, urlare nel deserto della ragione.