Incominciano i distinguo, con loro mai, con quelli no, con quell’altri per carità. Incomincia quindi la strada – fortunatamente breve, questa volta – per perdere le elezioni consegnando il paese alla destra post fascista, sovranista, illiberale, antieuropeista, filo putiniana.
Anche se qualche politico, rilevante e serio ma di seconda fila, prova a fare qualche discorso realista, si avvertono eco sprezzanti dalle prime donne che pensano che la necessaria visibilità pre-elettorale si guadagni facendo i capricci, i marameo. Così si perde. Se una lezione c’è stata, per chi vuole ascoltarla, dall’esperienza draghiana e dal suo epilogo, tale lezione è la seguente: lo spartiacque non è più fra una destra e una sinistra intesa in senso ideologico novecentesco (la sinistra degli operai e la destra dei padroni; la destra autoritaria e la sinistra egualitaria) ma – sovrapposta a quella dicotomia – fra populismo e antipopulismo (non mi piace l’anti; preferirei dire fra populismo e razionalismo). In questo blog ne abbiamo già parlato, proponendo questo schema:

Poiché, in realtà, il “razionalismo” non può essere di destra o di sinistra (perché per definizione è non ideologico, realista, pragmatico), la figura potrebbe essere così modificata (con qualche differenza rispetto a quella del post citato sopra):

Per ragioni più volte affrontate in questo blog, oggi pare che l’area populista (particolarmente sviluppata a destra) sia trionfante. Anche solo a livello elettorale, i sondaggi danno vincenti Meloni e Salvini, e per questo i gaglioffi brindano alla caduta di Draghi.
Ma i segnali di grandi cambiamenti sottotraccia ci sono: l’abbandono di Forza Italia da parte di importanti esponenti, malgrado il disprezzo dichiarato da Berlusconi, è estremamente significativo; nella Lega i segnali di disagio sono fortissimi ma al momento non si sono trovati altri coraggiosi… I Cinque Stelle, destinati all’evaporazione come movimento, ci hanno lasciato una ridotta compagine di persone che, da questa esperienza, hanno forse maturato un nuovo e più credibile senso di responsabilità (Di Maio). Nel PD, infine, laddove la ragione e l’evidenza e la storia e i linguaggi e tutto il resto, nulla hanno potuto contro la pochezza della leadership di quel partito, dopo avere constatato con mano il fallimento del campo largo si stanno svegliando dal torpore e forse – dico “forse” – imprimeranno una svolta radicale al piccolo cabotaggio politico iniziato da Zingaretti e proseguito da Letta.
La conclusione è che esiste un ventaglio di “razionalisti” mica male, di non poco conto, che va da Brunetta, Gelmini (e sperabilmente Carfagna) fino a Speranza, passando per Toti, Bonino, Calenda, Renzi e il PD.
Qualunque obiezione ideologica o pregiudiziale è da rigettare: “Mai con Brunetta che ha governato con Berlusconi”, “Mai con Renzi che è inaffidabile”, “Mai coi post comunisti ché noi siamo liberali” e via discorrendo, significano solo, semplicemente, “Viva Meloni premier, viva Salvini Ministro degli Interni!”.
Il patto dei razionalisti deve essere estremamente chiaro e semplice: evitare le derive ideologiche e identitarie; se i verdi – per dire – si sentono parte di questo schieramento anti populista, non possono puntare i piedi sul catalogo dello sciocchezzario ambientalista dei “No” a qualunque soluzione pratica per risolvere i problemi immediati (per esempio: non si può dire “No” al termovalorizzatore di Roma); se i liberali ex centrodestra – per fare un altro esempio – vogliono essere parte di questo schieramento, non possono dire “No” a provvedimenti per una più equa e umana regolazione dei flussi migratori (che non può essere uno strampalato Ius Scholae tirato fuori demagogicamente dal cilindro vuoto di idee di Letta); se infine – ultimo esempio – i razionalisti di sinistra, quelli con una formazione marxista, vogliono contribuire a questo schieramento, non possono impuntarsi sugli slogan novecenteschi anti meritocratici, statalisti e sospettosi verso l’impresa.
La base comune è la razionalità, è il pragmatismo, è l’analisi delle risorse e la valutazione delle politiche; l’esempio è Draghi e il suo metodo di lavoro: poche chiacchiere, idee pratiche, loro messa in atto.
Poi si dovrà consentire a ciascun galletto del pollaio di piantare una bandierina, va bene, ma senza guastare il disegno generale. E poiché in questo eventuale schieramento ci sono troppi leader, troppe prime donne tendenzialmente isteriche, troppi attriti pregressi e non sopiti, il presidente del Consiglio non potrà essere nessuno di loro, ma avere una terzietà acclarata. Faccio un nome a caso: Mario Draghi.
Così, incominciando subito, si può vincere. E per la destra becera la sconfitta sarebbe irreparabile e definitiva.