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Linguaggio
di Claudio Bezzi13/10/202206:3013/10/2022

Pensiero assertivo e pensiero argomentativo

Premessa

Come forse ricorderanno i lettori che ci seguono, sono da un po’ di tempo uscito da tutti i social (tranne un account a zero “amici” di Facebook per gestire un paio di gruppi), per ragioni che ho già raccontato. Il pochissimo che continuo a vedere mio malgrado, mi irrita ancora di più proprio perché, da “disintossicato”, mi sono disabituato alla logica delle ripicche, dell’ultimo commento lo devo fare io, ma di chi credi di essere tu, di un continuo misurare chi ce l’ha più lunga, la stupidità.

Al netto di tutto (l’analfabetismo di ritorno, l’individualismo imperante, i perversi e ben noti meccanismi mimetici e dissimulatori che i social consentono e così via), è assolutamente evidente e incontrovertibile che Facebook (per parlare del peggiore, come caso di studio) non consente lo sviluppo di discorsi complessi fondati sull’argomentazione logica, ma solo asserti volti ad affermare Ego.

Su Facebook (o Twitter, o altri) posso dire “No alla guerra!” (o qualunque altra cosa) senza il dovere di spiegarmi. Chi pensa, analogamente, No alla guerra, mi mette un like o un cuoricino, mentre i pochi bellicisti guerrafondai si gireranno dall’altra parte, oppure mi banneranno, oppure scriveranno “Bezzi merda”.

Un grande dibattito.

Questa contrapposizione di fermezze assertive la vediamo, pari pari, nei quotidiani più schierati (che non sono pochi), nel dibattito politico (che imita quello social e cerca di orientarlo), nei famosi bar di Umberto Eco, dove gli stupidi venivano perdonati, e invece ora sono maggioranza, sulle spiagge fra le signore che guardano distrattamente i pargoli, negli uffici e insomma, avete capito, sostanzialmente ovunque. Se fino a qualche decennio fa le sicumere assertive appartenevano al popolo incolto, e resisteva (anche fra il popolo) una élite informe che si fregiava dell’onere di un pensiero argomentato, il trapasso dal Novecento al Terzo Millennio ha dato una bella mano di vernice qualunquista a tutti, popolo, ma anche élite politiche e intellettuali.

Glossario necessario

Poiché sto usando concetti particolari e non usuali, chiedendo venia per le semplificazioni preciso così, un po’ all’ingrosso:

  1. proposizione: è una frase di senso compiuto, con soggetto e predicato. Una proposizione contiene degli asserti e dei concetti, che non vanno confusi fra loro o con la proposizione, che è un elemento grammaticale e per ciò semplicemente operativo;
  2. i concetti sono unità di pensiero (Marradi); “un elemento della realtà di cui siamo consapevoli, nel momento in cui lo pensiamo [e quindi] un’interpretazione secondo codici simbolici organizzati in schemi, strutture” (Bezzi, Glossario critico della ricerca sociale, Bonanno ed., 2022);
  3. l’asserto è un’affermazione sui referenti del concetto, con un’implicita affermazione di verità.

Confusi? Niente paura, adesso faccio degli esempi.

  1. La frase “La guerra è male” è una proposizione, sotto un profilo grammaticale: è completa, ha un senso. 
  2. Quella frase contiene diversi concetti: ‘guerra’ è un concetto; ‘male’ è un concetto, ma anche ‘la guerra è male’ è un concetto, più complesso (la frase “La guerra è il grande male del mondo che induce sofferenza e miseria” è un ulteriore concetto). Nota: i concetti andrebbero spiegati (attraverso altri concetti) perché, per esempio, il vostro concetto di ‘Male’ potrebbe essere assai diverso dal mio, e anche se sintatticamente usiamo le stesso quattro lettere (m-a-l-e), semanticamente potremmo scoprire differenze abissali, e quindi fraintenderci quando utilizziamo il concetto ‘Male’ senza spiegarci.
  3. Però “La guerra è male” è anche un asserto che stabilisce un valore preciso sui referenti implicati dal concetto. Stabilisce che un referente definito come ‘guerra’, implica il male (la malvagità, la sofferenza…); quindi è un giudizio, indica una scelta etica, dirige lo sguardo verso certi concetti antitetici (la pace come valore da perseguire…).

Come si distinguono le cose? Si distinguono dall’uso. A parte quello grammaticale, che riguarda il rispetto di regole linguistiche atte a comprendersi reciprocamente, ci sono contesti linguistici, modi dell’interazione, finalità del discorso, che ci fanno distinguere i differenti usi, una cosa – come spero di mostrarvi – estremamente importante.

Se io voglio spiegare, cercare una verità (ovviamente qui non ci dilunghiamo sul concetto di ‘verità’, comunque da intendere in un significato pratico e immanente) e arrivare a una comprensione condivisa di significati, devo dipanare i concetti che uso e utilizzare delle connessioni logiche (non solo linguistiche) fra essi. Questo lo chiameremo dialogo argomentativo. Se invece io voglio affermare la superiorità del mio discorso (e quindi la mia identità), in quanto vera in sé senza ulteriori spiegazioni, non mi sento tenuto ad alcuna spiegazione (se non tautologica e ricorsiva), e questo lo chiameremo dialogo assertivo. Quindi:

  • il pensiero argomentato si sforza (non sempre col dovuto successo) di spiegare i) il senso dei concetti utilizzati; ii) la loro necessità, o utilità e pertinenza, col tema in discussione; iii) la logica che collega la successione dei concetti, dalle premesse alla conclusione;
  • il pensiero assertivo non si pone questi problemi e in particolare: i) non si interessa alla validità e pertinenza dei concetti proposti, né al costrutto logico e di senso che li dovrebbe collegare l’uno all’altro; ii) non si perita di considerare se le conclusioni cui perviene abbiano un senso in relazione alla premesse poste.

Questa distinzione apre a numerosissime conseguenze. Per esempio, nel pensiero assertivo i singoli concetti, essendo per lo più malamente collegati l’uno all’altro, aprirebbero a diverse nuove necessità di argomentazioni (ciascuno dovrebbe essere argomentato e così via), creando nuovi filoni di discussione, in un lavoro defatigante che finisce col perdere di vista il tema principale che tale discussione ha alimentato. Ancora: poiché il pensiero assertivo non si sostiene per una logica (come precisato sopra) qual è il meccanismo che lo regge? La risposta è duplice: da un lato chi asserisce non si pone problemi di logica, innanzitutto perché non ha gli strumenti culturali per capire il problema; secondariamente – e in parte conseguentemente – in uno scontro dialogico gioca un ruolo fondamentale Ego; chi discute vuole avere ragione, perché avere torto, in qualche modo, lo diminuisce. Se i contendenti usano le armi logiche dell’argomentazione, questo problema è ridotto al minimo, perché chi vince e chi perde è l’argomento in sé, il reciproco avvicinarsi a una “verità” pattuita e concordata (questo è tipico nel dibattito scientifico, che è sempre a somma positiva). Ma nel discorrere assertivo, dove i concetti sono scollegati, le logiche friabili, il senso evanescente, i contendenti non possono che insistere sui loro asserti, eventualmente aggiungendone dei nuovi altrettanto definitivi; poiché non sanno, non possono e non vogliono cogliere “una verità”, l’insistenza sulle proprie posizioni assertive è insistenza sulla loro identità personale, e il tentativo di confutazione è attacco alla loro identità (queste sono discussioni sterili a somma zero; ognuno rimane della sua idea, solo un po’ scocciato dall’avere perso tempo con una persona insulsa).

Pace e guerra e altre esemplificazioni analoghe

Degli infiniti esempi che il chiacchiericcio quotidiano ci propone, scegliamo quello attualissimo di pace contro guerra. Potevo scegliere il vecchio “salute collettiva contro scelta individuale”, di gran moda ai tempi cruenti del Covid. Potevo scegliere il più che secolare dibattito fra destra e sinistra, che sotto il profilo ideologico è sempre assertivo ma che potrebbe essere riletto in chiave argomentativa. Ma “Pace contro Guerra” è attuale e con questo esemplificherò.

Perché vogliamo la pace (inteso: in Ucraina)?

Ognuno darà la sua risposta ma mi permetterete di indicare le due che mi sembra vadano per la maggiore:

  1. Perché la guerra è crudele, genera sofferenza e morte, e chi è compassionevole e ama il prossimo desidera l’opposto, ovvero la pace.
  2. Perché la guerra non ci riguarda e, vuoi con gli aiuti all’Ucraina vuoi con le sanzioni alla Russia, gli italiani ci rimettono soldi e stile di vita.

Poiché la seconda ragione mi sembra faccia vomitare, mi limito alla prima, che appare nobile.

Livello 1

Io potrei rispondere:

– vero, sono d’accordo (fin qui rispondo assertivamente alla tua proposizione assertiva; la chiudiamo lì. Siamo entrambi contro la guerra e buona notte al secchio. Indubbiamente siamo anche per l’ambiente pulito, il rispetto delle donne, la gentilezza verso i disabili, tutte cose bellissime; somma zero, come scritto sopra);

– vero, sono d’accordo, ma come facciamo a raggiungere un accordo di pace? (qui ti sto invitando ad argomentare in vista di una soluzione pacifica del conflitto. Non sto parlando d’altro, non cambio argomento, non insinuo che tu abbia torto, cerco di alimentare il dialogo portandolo dal generico asserto a un minimo di potenziale argomentazione).

Livello 2

Alla mia richiesta di proseguire, tu potresti dire, per esempio: “Congelare le attuali posizioni territoriali”; oppure: “I russi si ritirano alle posizioni pre-conflitto 2022 (quindi si tengono la Crimea) o pre-occupazione del 2014 (quindi mollano pure la Crimea)”.

Qui io potrei ribattere:

– Zelensky e gli ucraini non potrebbero mai accettare di rinunciare a un pezzo di loro territorio, tanto più che stanno vincendo. Oppure: Putin non accetterebbe mai, coi costi sopportati, i morti causati e il dissenso che sta montando in Russia.

– Sì, va bene, ma ammesso che le parti accettino, gli incalcolabili danni causati dai russi, chi li pagherebbe?

– Oppure potrei aggiungere elementi al discorso, per esempio: Sì, va bene, ma quindi l’Ucraina sarà libera di aderite al Patto Atlantico, anche se Putin fosse contrario?

– O altre considerazioni sulle sanzioni, il ruolo degli Stati Uniti o altro.

A questo punto la discussione si è ampliata, per la semplice ragione che la realtà non è lineare, non c’è una singola azione che causa un singolo effetto che a sua volta ne genera un terzo, ma è complessa, che significa che una quantità di elementi, solo in parte noti, genera un’altra e più ampia quantità di effetti che a sua volta ne genera altre ancora più ampie. Parlare di guerra o pace in Ucraina significa parlare di libertà e democrazia, identità nazionale e alleanze strategiche, economia e territorio, rispetto identitario (pensiamo all’esasperato panslavismo putiniano) e multiculturalismo (nelle aree miste di confine, dove convivono ucraini e russi), retaggio storico e ambizioni di modernità, e tutto questo in un gioco multiattore, dove anche l’Europa, l’America e altri “giocatori” strategici hanno legittimamente da dire la loro, anche se il conflitto si svolge lontano da loro.

Da qui nasce un terzo livello dialogico.

Livello 3

Poiché non possiamo parlare di tutto, in questa conferenza, in questo incontro al bar, in questa chiacchierata su Tik Tok, propongo di ritenere primario l’ambito giuridico (il diritto internazionale violato), oppure quello militare (quand’è che un esercito, che sta vincendo oppure perdendo, ha interesse sincero a mettersi al tavolo negoziale), oppure quello economico (l’area contesa produce da solo il 20% del PIL ucraino, per quale ragione Zelensky dovrebbe privarsene per regalarlo a un terrorista internazionale?), oppure quello etico (la ragione ultima fra aggredito e aggressore), o infine – ma solo perché mi sono stancato – quello relativo all’informazione e disinformazione in un teatro di guerra.

La nostra mente sarà eccezionale, come ci insegnano i biologi, ma non sa lavorare multitasking come un Mac, quindi dobbiamo mettere in fila i vari temi collegati, distinguere i concetti che li presidiano, e discutere argomentativamente su quelli. Solo in questo modo io posso apprendere dalle informazioni che tu mi dai, e capire il senso di ciò che dici, e valutarne la logica, in modo da potere a mia volta controargomentare, presentarti le mie (eventualmente) diverse informazioni, il mio senso, la mia logica.

Non è detto che finiremo coll’essere d’accordo, ma il piano argomentativo consente l’arricchimento di entrambi gli attori dialoganti: l’accordo è possibile, semmai parzialmente; ma anche se non ci fosse accordo il gioco dialogico è a somma positiva, entrambi saremo più informati, più ricchi di senso e comprensione.

Quand’è che questo meraviglioso meccanismo di ermeneutica pratica non funziona? Quando ci si ferma al livello 1. I più avveduti, semmai, provano a invitare l’altro verso il livello 2, e chiedono dei “perché?”, oppure segnalano delle criticità, informano su certi accadimenti, obiettano su fallacie inaccettabili, dove la logica si interrompe e non consente la controargomentazione. Nove volte su dieci (mia statistica personale) l’interlocutore non comprende l’invito e resta al livello 1. Insiste, ripete, propone giri di parole che riconducono sempre all’asserto, non spiegano, non mostrano fonti, navigano fra le fallacie, e infine, se si insiste, ti mandano a quel paese per la semplice ragione che trovano urtante questa insistenza, questa richiesta di spiegazioni… Ma è così facile, Maremma maiala, “Viva la pace e abbasso la guerra, e smettila di cacare il cazzo”.

Mi permetto di dire che il cliché assertivo domina il pensiero contemporaneo; non quello da bar, dove va anche bene, ma quello politico o supposto tale. No all’alta velocità nella mia valle (altrove non mi frega niente); no al rigassificatore nel mio porto (altrove fate pure); no alla guerra se finisce coll’incidere sulla mia bolletta; eccetera. Fin qui è la famosa sindrome NIMBY (Non In My Back Yard = Non nel mio cortile) che è di regola assertiva. Poi c’è l’assertività ideologica, presente un po’ in tutti gli schieramenti, specie nelle ali estreme, ma certamente prepotente a sinistra, per la semplice ragione che c’è una storia, che c’è stato un infinito dibattito (oddio, “dibattito”… espulsioni, radiazioni, scomuniche e qualche ammazzatina di chi non pensava nel modo ritenuto conforme dall’élite al potere); includo in questa categoria ideologica anche le religioni, che essendo portatrici di verità rivelate sono programmaticamente oppositrici di ogni argomentazione e procedono solo per asserti (che si chiamano dogmi, dottrina…). C’è poi la nota questione della “reazione all’oggetto”, che in realtà discende dalle precedenti. Per esempio, se Giorgia Meloni dovesse fare bene qualcosa, scommetto il mio ultimo Euro che, scrivendone qui su HR, qualcuno storcerebbe il naso perché, anziché ragionare sul perché, come e cosa avrebbe fatto bene, una potente luce intermittente nel cervello gli urlerebbe solo “Meloni = fascista = Il Male, Meloni = fascista = Il Male…”.

Conclusioni brevi

Quindi, per riassumere: oltre che su questioni religiose, si può discutere assertivamente discutendo di calcio e di pochissime altre cose. Oppure si può tentare di essere assertivi se dovete vendere qualcosa, semmai voi stessi in un colloquio di lavoro. Allora si suggerisce al tapino di “essere assertivo” volendo dire di non fare il timido, di non essere moscio (sapete quelle americanate… “Pensa positivo”, “Io sono OK, tu sei OK”, “Andrà tutto bene”…). I maschi sono assertivi quando parlano di donne, delle donne non so e non dico se e quanto siano assertive… È assertivo il maschio Alpha (pure la femmina Alpha…), l’adulto verso il bambino o, secondo la psicologia transazionale di Eric Berne, chi assume un ruolo genitoriale, semmai improprio, verso altri adulti. Insomma: il mondo è pieno di luoghi in cui non abbiamo né voglia né tempo di essere argomentativi, che poi potrebbe essere semplicemente inutile, inadatto.

L’argomentazione, invece, è il luogo della scienza (ovviamente!) e anche della politica nel suo significato proprio, alto, di pensiero volto alla ricerca di soluzioni per il bene comune. Da troppo tempo la politica vive di slogan e di effigi, che sono la quintessenza dell’asserzione che impedisce il discorso, impedisce la replica, impedisce la costruzione di senso.

Noi non siamo politici di professione (noi di Hic Rhodus e voi lettori) ma siamo esseri politici in quanto cittadini. Se parliamo di pace e guerra in Ucraina, se parliamo di transizione ecologica e rigassificatori, se parliamo di diritti e doveri, di lavoro e sviluppo, e qualunque altro argomento che non riguardi la religione e il gioco della pelota, allora o ne parliamo argomentativamente, oppure è meglio tacere.

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Claudio Bezzi

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Mandrakista. Detesto gli ideologismi, i populismi, i discorsi politicamente corretti. Ho anche un blog di racconti, fotografie e cocktail: www.Alamagoozlum.blog.

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3Comments

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  1. 1
    Gaspero on 13/10/2022 at 14:02
    Rispondi

    Molti pensano che “si dovrebbe dare più spazio alla scuola”, ma la scuola “normale” non aiuta in questo, anzi: secondo me educa alla non argomentazione. Con mio sommo stupore mi sono accorto che moltissimi ragazzi riportano addirittura le dimostrazioni di matematica come una sequenza ordinata di proposizioni, ma senza capirne il senso (e quindi senza capire nulla della dimostrazione). Ho sempre detto che o una dimostrazione “ti dimostra” (cioè convince te, e può essere anche solo un “ovvio”, magari detto con il tono giusto), oppure semplicemente non è una “dimostrazione”.
    E il motivo per cui la scuola non educa alle argomentazioni, “secondo me”, è che gli insegnanti sono persone del nostro tempo, e quindi generalmente non sono in grado di argomentare (a parte riportare e pretendere delle sequenze ordinate di proposizioni).

    Claudio ha scritto: «L’argomentazione, invece, è il luogo della scienza (ovviamente!)», ma, se includiamo in “scienza” anche la matematica (chiamata anche “la regina delle scienze”), la mia esperienza non concorda. E non parlo solo di insegnanti delle superiori, ma anche di figure di spicco fra i matematici italiani (esperienza solo con 3 persone, su un unico argomento). Anni fa mi sono scandalizzato di questo, finché non ho capito che il problema era che io mi immaginavo che i matematici fossero persone più logiche, capaci, coerenti, morali, …, delle persone “normali”. E questo mi ha aiutato a capire che questo è un preconcetto sbagliato e pericoloso.

    Al solito anche un commento su «… e qualunque altro argomento che non riguardi la religione …»:
    non si tratta degli argomenti, ma delle persone, perché io, se parlo di religione, argomento; e mi trovo malissimo a parlare seriamente con “bigotti” o simili.
    Sicuramente la tua esperienza ti ha fatto incontrare poche persone che argomentano parlando di religione, ma se tu provassi a fare una statistica per avere un’idea di quante sanno argomentare (leggermente diverso da “argomentano”, perché la società spesso non solo te lo richiede, ma spesso non vuole che tu lo faccia) parlando di religione, e quante sanno argomentare parlando di «pace e guerra in Ucraina, … di transizione ecologica e rigassificatori, … di diritti e doveri, di lavoro e sviluppo» (“argomentare”, non “ripetere sequenze di proposizioni, spesso disordinate), mi immagino che troveresti valori simili.

    • 2
      Claudio Bezzi on 13/10/2022 at 14:28
      Rispondi

      Grazie del tuo commento. Poche cose (non come repliche, giusto come appunti): 1) la matematica non è una scienza ma un linguaggio; 2) gli insegnanti di matematica (o di fisica, o di letteratura…) non sono esattamente scienziati matematici, o fisici, o letterati, ma insegnanti; 3) ho conosciuto molte persone religiose, alcune anche molto colte, laureate in teologia etc.; nessuno ha saputo rispondere alle mie domande. Un caro saluto.

  2. 3
    Gaspero on 13/10/2022 at 15:05
    Rispondi

    «gli insegnanti di matematica (o di fisica, o di letteratura…) non sono esattamente scienziati matematici»
    Concordo pienamente, come si evince dalla prima parte del mio commento.
    Ma dove parlo della scienza ho scritto «… non parlo solo di insegnanti delle superiori, ma anche di figure di spicco fra i matematici italiani», non intendendo “insegnanti” (delle superiori), ma “matematici”. E per me i matematici sono “scienziati”, perché i matematici non usano semplicemente un linguaggio, ma nel produrre “matematica” fanno ricerca, verifiche, ecc., cose che credo li facciano rientrare fra gli scienziati (io mi considero un matematico).
    Per l’ultima parte della tua risposa, SE VUOI, puoi contattarmi privatamente.

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