Il tema degli intellettuali (e del ruolo che devono o dovrebbero ricoprire nella società) è stato oggetto di numerosi articoli, qui su HR, ultimo dei quali questo. Vorrei dare il mio piccolo contributo alla discussione citando e commentando un articolo abbastanza celebre tra i seguaci del pensiero libertario: quello del filosofo Robert Nozick, intitolato Perché gli intellettuali si oppongono al capitalismo (per chi mastica l’inglese, il testo originale si può leggere qui). Credo valga la pena soffermarcisi perché, benché l’autore facesse palesemente riferimento al mondo anglosassone, il fenomeno che ipotizza sembra adattarsi particolarmente bene agli intellettuali italiani, per ragioni che spiegherò nell’ultima parte di questo post.
A quali “intellettuali” si riferisce Nozick: gli wordsmith
Occorre innanzitutto precisare di chi si sta parlando. Per Nozick può definirsi “intellettuale” chiunque lavori con la mente, e dunque la categoria include non solo filosofi, scrittori, poeti et similia, ma anche matematici, ingegneri, scienziati. Solo che, nota l’autore, non tutte queste sotto-categorie mostrano un’eguale avversità all’economia di mercato: essa esiste solo tra gli “wordsmith”, termine che si potrebbe tradurre come “professionisti della parola”, ossia “poeti, romanzieri, critici letterari, giornalisti e molti professori”. Tutte figure professionali che – non a caso – sono solitamente occupate in pochi e specifici settori: università, media, pubblica amministrazione.
È dunque solo a questa specifica categoria di intellettuali che Nozick si riferisce.
Traumi scolastici
La tesi dell’autore è relativamente semplice, e si basa sulla psicologia. Gli intellettuali sono ex primi della classe, ed è nel passaggio dalla scuola al mondo extrascolastico che nascerebbe la loro avversione per l’economia di mercato e la predilezione per il centralismo e il dirigismo statale (in realtà Nozick si riferisce espressamente al socialismo: io qui sto ampliando l’orizzonte).
A scuola, infatti, per eccellere servono capacità specifiche: memorizzare, ripetere ciò che ha detto l’insegnante (meglio se con le stesse identiche parole, almeno per certi professori). Per andar bene a scuola occorre guadagnarsi l’apprezzamento di un’autorità centrale – l’insegnante – che provvede a distribuire ricompense – i voti – a ciascuno secondo il merito (intellettuale). Ora, poiché è umano idealizzare circostanze, istituzioni e situazioni in cui ci si è trovati bene, è facile capire perché i primi della classe generalmente abbiano un buon ricordo della scuola.
Il problema, spiega Nozick, è che il mondo reale funziona in modo molto diverso. In un’economia di mercato, ad aver successo non è chi gratifica un’autorità centrale, ma chi riesce a soddisfare meglio i bisogni della massa. E la massa può volere cose ben diverse dalla cultura. Può volere anche la spazzatura, non in senso letterale ma nelle sue varie declinazioni: la tv-spazzatura, il cibo-spazzatura etc.
Questo fatto, tuttavia, l’intellettuale non riesce a mandarlo giù. La sua aspettativa, alla fine della scuola, era non solo di ottenere nel mondo esterno lo stesso riconoscimento del suo primato, ma anche apprezzamento da parte della società. Invece si ritrova in un mondo in cui qualsiasi cinepanettone incassa al botteghino più de La vita è bella di Benigni, e vende più libri Er Faina di un accademico della Crusca.
Peggio ancora, questa società malata premia (in termini di notorietà che si traduce ben presto in ricchezza) gli ignoranti, gli spacconi, gli esibizionisti. Passi per gli sportivi e i cantanti, che almeno qualcosa sanno fare: ma che dire degli influencer, delle porno star, della tizia che parla in corsivo?
Tutto ciò è frustrante, per l’intellettuale wordsmith. Grazie alla grande mole di letture accumulate in anni di studio matto e disperatissimo, egli solitamente giunge alla conclusione che a ridurci così, signora mia, sono stati la globalizzazione, il consumismo sfrenato, la perdita dei valori. In una parola: il capitalismo.
Tuttavia questo mondaccio alla deriva si può rimettere in carreggiata, a patto però che si cambi radicalmente il modello socio-economico. Occorre creare una società nuova, in cui lo Stato diriga, indirizzi, instradi i cittadini alla Virtù e al Bene. Va da sé che, per fare tutto ciò, il suddetto Stato dovrà affidare alle menti più eccelse (cioè le nostre, gli intellettuali wordsmith) incarichi di primissimo livello.
Gli intellettuali in Italia
La domanda successiva che mi sorge spontanea è: questa teoria può essere applicata anche agli intellettuali italiani? Personalmente credo di sì, per varie ragioni.
La prima è che, assumendo che questo “modellino teorico” sia valido, si può ben spiegare non solo l’entusiastico sostegno degli intellettuali italiani al fascismo, ma anche il loro supposto pentimento post bellico con annesso salto sul carro del marxismo. E, per giungere ai giorni nostri, la massiccia presenza di intellettuali sul carro del populismo rosso-bruno.
Ciò che accomuna tutti costoro è appunto la costante ricerca di un modello sociale alternativo all’economia di mercato, con forte presenza dello Stato tanto nell’economia quanto nella sfera privata (ne avevo parlato anche in questo articolo). Il fascismo è stato l’apoteosi di tutto ciò, e il comunismo della prima repubblica ambiva ad esserlo. Oggi quei modelli non sono più invocabili in modo esplicito, e dunque ci si aggrappa a nuovi temi e argomenti per giustificare questa volontà di stravolgere l’ordine esistente e sostituirlo con qualcosa di più giusto; sotto questo punto di vista è significativo che qualche partito a sinistra abbia sposato la metafora del cocomero (verde fuori, rosso dentro).
L’altra ragione è che in nessun Paese, più che in Italia, nella scuola si da così importanza alle discipline umanistiche, a scapito di quelle scientifiche. Ciò è particolarmente vero nel Liceo Classico, donde proviene una parte considerevole non solo degli intellettuali, ma della classe dirigente italiana in senso lato.
Ora, il problema del classico non è tanto la quantità di ore settimanali dedicate allo studio del latino e del greco, quanto la convinzione che quel sapere (sostanzialmente la produzione letteraria greca e latina) conferisca a chi lo assorbe una sorta di “saggezza universale”, in grado di mettere l’alunno nella condizione di discettare su tutto lo scibile umano, senza doversi preoccupare di acquisire alcuna competenza tecnica specifica. Detto in termini più semplici: il classicista “convinto” si sentirà autorizzato a pontificare su pressoché ogni argomento (ma in particolare su economia e società) perché ha letto Platone, Cicerone, Seneca; egli è profondamente convinto che questi autori abbiano scritto delle verità atemporali, valide oggi quanto lo erano nell’Atene del IV secolo a.C. o nella Roma tardo-repubblicana.
Non solo: è convinto che la cultura greco-romana sia intrinsecamente superiore a quella anglo-sassone (che ha partorito il capitalismo). Emblematica in tal senso una celebre intervista ad Umberto Galimberti, in cui il filosofo affermava, tra le altre cose, che gli anglosassoni non sono capaci di astrazione, che l’inglese è una lingua povera e molto altro.
Un caso da manuale: Umberto Galimberti
Galimberti, peraltro, è a mio avviso una sorta di prototipo dell’intellettuale wordsmith italiano. Confesso di aver letto solo un paio di suoi libri, ma, ai fini del ragionamento che sto sviluppando, qui ne basterebbe invero uno solo: La parola ai giovani, una raccolta di lettere aperte (e relative risposte dell’autore) inviategli da giovani lettori, ai tempi in cui il filosofo curava una rubrica su una rivista. In molte delle sue risposte, Galimberti sottolinea come la causa prima del malessere (psicologico e sociale) dei giovani – quello che li conduce al nichilismo attivo – è il fatto di vivere in una società liberista/capitalista, che condanna il giovane al precariato a vita, il che a sua volta porta alla depressione e al cercare rifugio in un edonismo sfrenato…eccetera eccetera.
Ora, io credo che l’assunto secondo cui l’Italia sarebbe un Paese liberista sia nient’affatto una questione di opinioni: esistono dei precisi parametri – sia micro che macro economici – che possono farci stabilire se lo sia o meno. Tali parametri sono (in ordine sparso): una bassa spesa pubblica, basse tasse, basso debito pubblico, poca burocrazia, alta libertà economica, apertura alla concorrenza. Ora, oggettivamente l’Italia non ha nessuna di queste caratteristiche. L’unico elemento che si può segnalare è una certa flessibilità in entrata nel mercato del lavoro, effettivamente aumentata negli ultimi vent’anni in seguito ad una serie di riforme; solo che la flessibilità, da sola, non basta a far funzionare l’economia, se non si raggiungono le altre condizioni summenzionate. Se dunque si vuol capire da cosa dipenda – ad esempio – l’alto numero di NEET o la disoccupazione giovanile, o lo scarso potere d’acquisto dei giovani in confronto con gli anziani, andrebbero cercati altri colpevoli: le politiche pensionistiche degli ultimi cinquant’anni, l’abbandono scolastico (causato da una gestione pessima della scuola), il cuneo fiscale. Si tratta, con tutta evidenza, di argomenti che afferiscono assai poco alle discipline umanistiche e parecchio a quelle scientfiche: serve dimestichezza con le statistiche, la contabilità nazionale, l’economia.
E tuttavia l’umanista wordsmith italico medio non si preoccupa affatto di studiare queste discipline: e, quand’anche lo facesse, probabilmente la sua opinione rimarrebbe immutata, perché non concepisce l’idea che i fatti possano mutare le sue opinioni pregresse. Queste ultime, infatti, derivano da quella sorta di “saggezza antica” (e quasi mistica) contenuta negli scritti di Aristotele e di Orazio.