Il massimalismo degli intellettuali

Pierluigi Battista sta scrivendo una serie di brevi puntate, sull’HuffPost, dedicata agli intellettuali italiani che aderirono – questo è il punto – spontaneamente ed entusiasticamente, al fascismo mussoliniano, da Carducci a Bocca, da Ranuccio Bianchi Bandinelli a Vitaliano Brancati, ma poi (e vado quasi a caso) Piovene, Bobbio, Foa, della Volpe, Fo, Argan, Vittorini e moltissimi altri.



Di molti sapevo, di altri no. Probabilmente è già stata scritta la storia degli intellettuali che poi aderirono (l’accento è sul “poi”, da intendere: a conclamata sconfitta del fascismo) al marxismo nella versione terribile che incominciò a filtrare in Italia negli anni ’40 e si cristallizzò nella vulgata stalinista, che durò ben oltre la vita di Stalin (morto nel ’53) e che (semplificando), abbraccia le pagine nere dell’invasione dell’Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968). Anche se sempre (sia nel primo caso del ventennio fascista che nel secondo del dopoguerra comunista) ci furono pagine significative di dissenso, la massa degli intellettuali italiani ha mostrato storicamente di essere perversamente attratta dal potere massimalista e dalle sue dottrine. Quando scrivo “la massa” intendo il termine come quantità, numerosità, e senza alcuna connotazione negativa o diminutiva della qualità intellettuale di costoro.

Perché la qualità intellettuale è innegabile. Grandi poeti, scrittori, accademici che si sono distinti nelle loro discipline, ma che non hanno saputo vedere l’orrore del fascismo prima, e l’insostenibilità dei soviet dopo (non è un caso che un discreto numero di intellettuali fascisti nel ventennio siano diventati fanatici comunisti dopo).

Poiché io stesso sono stato piccola parte del fenomeno (nel senso che in gioventù mi sono abbeverato alla fonte del marxismo e ho guardato con simpatia alla politica proveniente da quella parte), e l’ho osservato dall’interno, credo di potere proporre alcune considerazioni, che se volete sono in parte autobiografiche e in parte cercano di assumere, con incerto successo, una prospettiva sociologica, essendo questa la disciplina che mi ha plasmato.

1) Cambiare idea è lecito, anzi è segno di capacità critica. Quelli che a 16 anni erano già comunisti (o democristiani, o liberali, o fascisti) e sono morti ottuagenari comunisti (o democristiani, etc.) perché la loro idea era solida, granitica, priva di dubbi, sono forse per metà da ammirare, ma credo che sia l’evoluzione dell’esperienza individuale (quando si hanno 16 anni si ragiona in un modo, quando se ne hanno 40 in un altro e così via) sia quella del mondo attorno a noi, non possano non porre dubbi, suscitare domande, condurre il pensiero verso bivi drammatici. Essere stati fascisti nei primi anni ’20, se si era giovani e pieni di vitalismo dannunziano, era abbastanza facile, ma dopo Matteotti, dopo le leggi razziali, dopo l’entrata in guerra, come si è potuto? Essere stati comunisti dopo la Liberazione era abbastanza facile, sullo slancio quasi risorgimentale dell’epica partigiana e dell’Italia da ricostruire, con il modello sovietico (dal quale arrivava solo propaganda e non documenti) che sembrava brillare nella sua promessa egualitaria, ma dopo le invasioni ungherese e cecoslovacca, e con le notizie dei gulag e della miseria popolare, beh, come si poteva? Quindi non mi fa né caldo né freddo sapere che un tale, in gioventù, è stato qualcosa di diverso da quello che dice di essere adesso. Ci avrà pensato su, avrà avuto una sua crisi, ha riflettuto (ovviamente al netto degli opportunisti, che qui non ci interessano).

2) La competenza o la genialità intellettuale in un settore, non è una qualità mobile, traslabile in altri settori. Questo, direi, è fondamentale. Anche se scrivi poesie meravigliose, sei uno storico di enciclopedica cultura, un architetto geniale, uno scrittore capace di suscitare nel lettore i più nobili sentimenti, questi tuoi doni intellettivi sono confinati nel tuo specifico territorio elettivo di pratiche; forse riverberano qualche raggio di luce in territori limitrofi ma tutto il resto, tutti gli innumerevoli territori del sapere e dell’esperienza, rimangono desolatamente al buio. La genialità letteraria (o qualunque altra) non si traduce necessariamente in un pensiero politico maturo. Cosiccome essere un genio in qualunque campo non si traduce nell’essere una brava persona (questo sarebbe un altro punto cruciale, ma ne ho già trattato QUI e poi QUI).

3) L’intellettuale conosce, bene o male, la qualità del suo sapere, o della sua arte. Certamente si sopravvaluta, si può capire, ma ha gli strumenti per riconoscere la qualità del sapere, della parola, del gesto nel suo campo disciplinare o artistico, e per ciò stesso comprende che il proprio sapere, parola o gesto sono di qualità. Quindi si sopravvaluta, quindi è presuntuoso, quindi pensa che ogni cosa che fa ha un certo grado di “verità”, o di purezza, o logica, o valore. Quindi ha la tendenza a ipostatizzare il proprio pensiero, ad assolutizzarlo. Poiché è bravo, è tagliente; tende a tracciare solchi fra la verità che lui conosce, e quelle altrui che gli sembrano minori, fallaci, grossolane. È qui che germina il pensiero massimalista. Poiché io intellettuale sono grande, ho bisogno di un contenitore ideologico grande; poiché ho una verità, ho bisogno di riverberarmi in una più grande verità. L’adesione al fascismo per certi versi ma – a mio avviso – quella al marxismo nella vulgata staliniana ieri, e in quella operaista-brigatista degli anni ’70, ha trovato la sua genesi in questo bisogno di assoluto, capace di contenere il grande Ego che qualunque intellettuale coltiva.

Naturalmente, come ho già detto, ci sono sempre state eccezioni. Pensatori liberi, dagli eretici bruciati sul rogo agli antifascisti mandati al confino fino agli anticomunisti “di sinistra” trattati come rinnegati, venduti, traditori, servi sciocchi di poteri reazionari che hanno interesse a dividere la classe operaia. Mio padre fu uno di questi; socialista figlio di socialisti, abbandonò il PSI nenniano dopo l’invasione dell’Ungheria e aderì al partito socialdemocratico di Saragat.

Il pensiero interstiziale appaga meno gli intellettuali qui descritti.

L’idea di una ricerca di verità che rifugga le semplificazioni (il pensiero fascista e quello comunista sono ricchissimi di semplificazioni) e i massimalismi (giusto/ingiusto), è enormemente faticoso, sempre sul punto di perdere l’equilibrio e, quel che più conta, poco appagante; ogni dubbio apre a nuovi dubbi; ogni conquista è vanificata dalla scoperta di nuovi, forse inarrivabili, orizzonti; il linguaggio si complica infinitamente (il linguaggio come costruttore di significati e sensi) e non si trovano più le parole, e quindi i concetti, e quindi le risposte. L’intellettuale del pensiero debole, nella società liquida, in un’epoca post ideologica, appare incerto e poco affidabile. 

Finquando è stato il minuzioso analista del pensiero marxista, e il cantore della bellezza della promessa del comunismo, l’intellettuale riceveva dal contesto ideologico una luce che rifletteva sul popolo, novello prete laico capace di promettere il sol dell’avvenire perché ne sapeva narrare la potenziale verità. Oggi quell’intellettuale s’è perso, non riverbera più alcuna luce, appare inascoltato. L’intellettuale pensa, e sa, e crede di sapere più di quel che sa, ma la scollatura fra lui e il popolo è palese.

Ci sono enormi conseguenze: si è persa quel poco di opinione pubblica che esisteva in Italia; i partiti sono in balìa di mediocri (i politici di professione sono un tipo di intellettuali; cioè: avrebbero dovuto esserlo); pochi sono in grado di parlare di programmazione e pianificazione e valutazione degli interventi pubblici, e si va avanti come nella nebbia con una lanterna in mano. Infine, molti intellettuali, orfani dei fasti assolutistici, perdono la bussola della ragione e si prestano a piccole porcherie massimaliste per rabbia, per distinzione, per marcare un territorio che invece non appartiene più a loro.

L’intellettuale “debole” non affascina. Quando ha smesso di proporre verità assolute, assolutamente spiegate al popolo con le parole che il popolo voleva sentire, l’intellettuale sembra avere perso la sua funzione sociale, che non è quella di indicare la meta, ma di illustrare il periglio della strada, qualunque strada si intenda percorrere. Non cattura la fantasia l’intellettuale dubbioso, non conforta quello disilluso. Chi anziché risposte propone nuove domande è fastidioso, anzi pericoloso. La verità è bella finché è illusione di certezza, non più quando diventa tormento di ricerca.

Sul tema degli intellettuali, oltre ai link già segnalati, segnaliamo:

(In copertina: Il Greenwich Village agli inizi del secolo scorso. Fonte.)