La correttezza politica, una strategia oscurantista per uniformare le coscienze

Sono mesi e mesi (ormai anni) che leggiamo di incredibili “correzioni” di testi letterari classici o contemporanei, ad opera di editori vili che ritengono che certe parole, certi aggettivi, che avevano un senso nell’epoca in cui sono stati usati, siano offensivi oggi; come ci ricorda Giuseppe Culicchia, in un articolo terrorizzante, quest’opera postuma di revisione censoria riguarda Roald Dahl, Agatha Christie (forse ne avrete letto sui giornali) ma anche Omero, Dante, Shakespeare, Dostoevskij, Nabokov, Céline, Hamsun, Hemingway, Lee, Bukowski, Ellis, Houellebecq, Rowling, Sade, vari altri e, uscendo dall’ambito letterario, riguarda anche le arti figurative, vista l’incredibile recente censura che ha ricevuto il David di Michelangelo (con tanto di preside licenziata). Oggetto dell’epurazione sono specialmente i temi razziali e quelli sessuali, specialmente negli Stati Uniti ma sempre di più anche in Europa.

Per carità: dire “negro” a un uomo con origini africane è considerato dispregiativo e inaccettabile (anche dirgli “nero”, per la verità), ma se cinquant’anni fa autori assai difficilmente considerabili razzisti usavano quel termine, perché la sensibilità dell’epoca era differente, censurare, cambiare i testi (e quindi necessariamente il loro senso) è una bestialità. Un esempio clamoroso: il celeberrimo Buio oltre la siepe (titolo originale: To Kill a Mockingbird) di Harper Lee, un inno all’integrazione razziale che valse il Pulitzer all’autrice (1961), per decenni lettura quasi obbligatoria nelle scuole primarie americane proprio per il messaggio positivo che contiene, è stato oggetto di censura per la parola nigger, che all’epoca, ma anche nell’epoca e nei luoghi dove si sviluppa la vicenda, era utilizzata come parola neutra. Per inciso: “negro” è effettivamente una parola neutra, significando, semplicemente, ‘persona di pelle scura’; è ovviamente l’uso, in un contesto discriminatorio, che l’ha trasformata in parola usata per offendere (ma non in tutti gli ambienti, e sarebbe troppo lungo divagare); in questo senso è offensivo gridare, a un ragazzo alto, “spilungone”, se fatto per offenderlo, così come dire, a un meridionale, “ma certo, tanto sei solo un meridionale”, o dire a una donna “guidi come una donna”, o dire a un anziano “sei rimbambito come un vecchio”. Insomma: è l’uso che rende le parole neutre oppure offensive.

Di paranoia lessicale in paranoia lessicale, Culicchia ci informa anche della medesima sorte per la parola “nativi”, obbligatoria da anni per non offendere gli “indiani” o “pellerossa”; no, non va più bene neppure nativi, perché ha una connotazione dispregiativa, e sarebbe stata sostituita dal ridicolo “del luogo”. Non parliamo dell’abisso orrido delle paturnie di genere, perché ormai per scrivere una email politicamente corretta non basta neppur più dire “Cari amici e care amiche”, perché così saremmo criminalmente binari e non rispetteremmo quelli che non si riconosco né nei maschi né nelle femmine, e quindi giù di asterischi, di schwa o di strani caratteri mai visti fino a qualche anno fa, che anche la sigla LGBTQ non basta più e bisogna aggiungere un “+” (LGBTQ+) per dire che per carità, siamo aperti a tutti, accogliamo proprio tutti.

Culicchia, nel suo pezzo, fa un riferimento a 1984 di Orwell, che sarà pure scontato ma spaventosamente attuale, e riporta un brano che non ricordavo, relativamente alla neolingua, ovvero quella revisione linguistica che il regime al potere cerca di imporre per meglio controllare il popolo. Riporto dalla versione di Culicchia solo un pezzetto in cui Syme, uno degli incaricati della revisione, spiega a Winston, il protagonista, la grandiosa bellezza di tale trasformazione:

Stiamo dando alla lingua la sua forma finale, quella che avrà quando sarà l’unica a essere usata. Quando avremo finito, la gente come te dovrà impararla da capo. Tu credi, immagino, che il nostro compito consista nell’inventare nuove parole. Neanche per idea! Noi le parole le distruggiamo, a dozzine, a centinaia. Giorno per giorno, stiamo riducendo il linguaggio all’osso. […] Non capisci che lo scopo principale a cui tende la Neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero? Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere.

Ecco, di questo si tratta. Le parole sono un veicolo del pensiero. Cose note e stranote. Chi possiede poche parole possiede un pensiero limitato, mentre una persona che padroneggi bene più lingue ha la possibilità di sviluppare un pensiero più articolato. Se io censuro le parole, impongo le parole che si possono usare vietandone altre, impongo conseguentemente un pensiero, induco le persone a pensare in maniera omologata. Non è per caso che in una delle sue Lezioni, Roland Barthes scriveva che “il fascismo è imporre un linguaggio”, non vietare di parlare. Si può parlare, ma in un modo prescritto, giudicato corretto, perché in quel modo, con quelle parole, si veicola un significato ritenuto accettabile, conforme, quindi stereotipato, massificato, senza risvolti critici, perché un corollario del linguaggio “corretto” è la riduzione delle parole, come aveva capito Orwell. 

Dalle parole alle arti figurative, come già scritto, e al cinema, il teatro, gli insegnamenti universitari (in molte università americane è vietato l’evoluzionismo e obbligatorio il creazionismo), ovviamente i quotidiani e i notiziari televisivi. Banalizzare, semplificare, schematizzare, non criticare.

Revisionare il passato, riscriverlo. Alcuni giorni fa Pierluigi Battista – un giornalista attivamente impegnato contro questa deriva oscurantista – ha scritto che che non bisogna confondere il linguaggio politicamente corretto con la cosiddetta “cancel culture”; sostiene, Battista, che il primo sarebbe il tentativo di esprimersi con educazione, mentre la seconda sì, sarebbe una intimidazione inaccettabile. Battista, secondo me, sbaglia; la correttezza politica è la cancel culture contemporanea; la cancel culture è l’azione retroattiva della correttezza politica. C’è una unitarietà di intenti e di modi: negare, uniformare, cancellare, imporre. Il senso è il medesimo: riplasmare storia, linguaggio, sentimenti in una maniera che, con la pretesa di essere inclusiva e accogliente, confina concetti e valori nei lager del proibito, e consegna alla persone “perbene” un manuale di galateo linguistico e comportamentale (il linguaggio del ventennio fascista è lì pronto a fornire tutti gli esempi che volete).

Allora, io prendo una decisione definitiva. A partire da oggi eviterò, con tutte le mie forze, nel mio piccolo, di cadere preda di queste preoccupazioni: dirò e scriverò “Cari amici”, come corretto in italiano, a meno che non mi rivolga a un uditorio interamente femminile; dirò “nero”, assieme e in alternativa ad “africano”, per indicare persone provenenti dall’Africa subsahariana (non “negro”, perché la lingua cambia ed effettivamente – indipendentemente dal significato originario – è diventato dispregiativo); userò “zingari”, parola italiana, nel significato 1.a della Treccani; dirò maschi e femmine, riferendomi ai due generi naturali, biologici, quando dovrò parlare del fatto che ci sono persone col pene e gameti maschili, e persone con vagina e ovaie, uniche in grado di gestire un feto e partorire, infischiandomene di come “si sentano”, di come pratichino la loro affettività e via discorrendo. Se invece mi occuperò di sessualità, affettività, diritti familiari etc. certamente menzionerò gli omosessuali, scriverò (obtorto collo) LGBTQ+, ma non rompetemi il cazzo con i pansessuali, gli asessuali e così via; BTW: sì, scriverò “cazzo”; sì, dirò che il dilagare degli omosessuali nelle serie TV mi sembra sgradevolmente eccessiva; così come la ridicola necessità, che gli sceneggiatori di Hollywood sentono in modo imperativo, di includere sempre un ispanico, un disabile, una donna che – di regola – stende l’uomo sul letto e “sta sopra”, e così via; che sono stufo marcio delle pubblicità che sentono l’obbligo di mettere il nero, semmai sfumato e sullo sfondo, nelle loro pubblicità, senza rendersi conto che proprio quello è razzista, che sentono il bisogno di far vedere, semmai fugacemente, che ci sono due lesbiche dietro quella merendina, senza rendersi conto che proprio quello è il contrario dell’inclusività. Anzi: quella roba non la compero! Se la comperino gli afro-italiani e le persone LGBTQ+, quelle corrette, inclusive, democratiche, e fondamentalmente stupide. 

Il fascismo era, sostanzialmente, il trionfo della stupidità.

(La foto di copertina è un fotogramma del film Il buio oltre la siepe)