Cittadini di Internet: cosa vuol dire?

Qualche post fa, abbiamo parlato di Network Neutrality, osservando che la “neutralità” della Rete che fino a oggi è bene o male stata garantita, appare ora in pericolo almeno negli USA, dopo una controversa sentenza della Corte di Appello di Washington DC. Molti osservatori hanno manifestato serie preoccupazioni, in nome della “libertà della Rete” e del diritto dei suoi utenti ad accedere con pari facilità a qualsiasi sito e qualsiasi contenuto. Ma esiste un simile diritto? Allo stesso modo, qualche mese fa le rivelazioni sulle intrusioni delle agenzie di intelligence statunitensi nelle comunicazioni telefoniche e telematiche dei cittadini avevano provocato forti reazioni, incluso un appello di oltre 500 scrittori e artisti che chiedeva con forza “alle Nazioni Unite di riconoscere l’importanza centrale di proteggere i diritti civili nell’era digitale, e di creare una Carta  Internazionale dei Diritti Digitali”.

Esiste insomma un diffuso orientamento che considera gli utilizzatori di Internet portatori di diritti specifici, in analogia a quelli che competono ai cittadini di uno Stato moderno, e ne richiede la protezione e la tutela. Dall’altra parte, diverse iniziative dei Governi e di alcuni importanti centri di influenza tendono ad accentuare la regolamentazione e la vigilanza sulle attività in Rete, almeno nominalmente per combattere fenomeni come la pirateria, il furto di identità, la diffamazione, il trolling, l’apologia di comportamenti razzisti o sessisti (ai fini del nostro ragionamento poco importa se le proposte di legge che in genere vengono elaborate in questo senso risultano spesso contestabilissime e dimostrano una profonda incomprensione della materia di cui vorrebbero occuparsi; gli esempi in merito sono anche recentissimi). Usare Internet definisce quindi una nuova cittadinanza? Tra chi vorrebbe che i cosiddetti Netizens, gli Internet Citizens, coloro che hanno una presenza, un’identità, delle attività e dei “beni” nel Cyberspace, fossero protetti da una Carta dei Diritti ad hoc, e chi, come vediamo spesso in Italia, vorrebbe sottoporli a una maggiore “vigilanza” magari piuttosto occhiuta, esiste in fondo un punto di contatto: il riconoscimento di un nuovo ambito e di nuovi soggetti, che possono richiedere una normativa specifica, fatta di diritti e di doveri. Peraltro, in molti Paesi, questi “nuovi” diritti hanno già ricevuto qualche forma di riconoscimento istituzionale. Rinviando a Wikipedia per un elenco più ampio, o a un articolo sul sito della Treccani per una rassegna più “legalese”, ricordiamo solo che in Finlandia esiste una legge che riconosce l’accesso broadband a Internet come un diritto legale, che in Francia il Conseil Constitutional nel 2009 ha stabilito che l’accesso a Internet è un diritto fondamentale del cittadino, e che nel 2011 la Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha emesso un rapporto nel quale tra l’altro si afferma che “Internet è diventato un mezzo chiave grazie al quale le persone esercitano il loro diritto alla libertà di opinione e di espressione”, concludendo in sostanza che è illecito per i governi privare un cittadino dell’accesso a Internet: “impedire a un utente l’accesso a Internet, indipendentemente dalla giustificazione fornita, è una misura sproporzionata e quindi viola l’art. 19 par. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici”. [Le traduzioni dal testo in inglese sono mie].

Tuttavia, queste posizioni piuttosto convergenti rispondono solo a una parte della questione che abbiamo posto: chiariscono che tutti i cittadini dei Paesi che sono tecnicamente in grado di offrire accesso a Internet hanno diritto di ottenerlo. In altre parole, tutti abbiamo diritto a essere Netizens, cittadini del Cyberspazio. Ma cosa significa essere Netizens? Internet è solo uno dei mezzi con cui si esercitano i nostri ordinari diritti civili, o c’è una specificità nel nostro “essere in Rete” che non è riducibile all’ordinaria nozione di cittadinanza? Torniamo quindi all’ipotetica Carta dei Diritti Digitali auspicata dall’appello che abbiamo citato all’inizio. C’è chi ne ha già scritta una, magari con il concorso di comunità di utenti di Internet, come Mashable, con un decalogo che rivendica diritti importanti e non tutti ovvii, come quelli alla privacy, alla proprietà intellettuale (vero Facebook e Google?), alla sicurezza dei dati, all’anonimato. Come si vede, non tutti sono semplici applicazioni a Internet di diritti di cui disponiamo già come cittadini del “Mondo Reale”. In ambito istituzionale, anche il Consiglio d’Europa ha scritto una bozza di Guida ai Diritti Umani per gli utenti di Internet, che, precisando (al contrario di Mashable e di altri) che essa “non stabilisce nuovi diritti e libertà fondamentali”, riconosce come diritti l’accesso a Internet, la privacy, la libertà di espressione e partecipazione, la protezione dei minori, ecc. Eppure, ci vuole di più per parlare di cittadinanza della Rete.

Essere cittadini è qualcosa che va oltre questi diritti “fondamentali” (e peraltro: chi dovrebbe garantire questi diritti? Gli Stati nazionali? È chiaro che nella Rete le tradizionali frontiere geografiche sono innaturali) e investe in fondo tutte le dimensioni della nostra vita; allo stesso modo, essere Netizen dovrebbe significare vivere come parte di una comunità che ha un suo linguaggio, una sua economia, una sua moneta, suoi spazi di politica, sue forme di rappresentanza, una sua sovranità. Possiamo affermare che la Rete abbia tutto questo? Possiamo affermare che non l’abbia? Questa è forse la riflessione che dovremmo intraprendere, anche in prossimi post, se sapremo farlo e vi interesserà.

Chiuderei per ora proponendo solo un primo accenno alla questione dell’Economia della Rete. Sappiamo tutti che i modelli economici prevalenti su Internet sono molto diversi da quelli tradizionali, anche se ovviamente i due mondi si influenzano a vicenda. Questo blog, ad esempio, propone dei contenuti la cui lettura è totalmente gratuita, e, per scelta, non presenta pubblicità (in fondo non ne abbiamo bisogno, i costi vivi che sosteniamo sono irrisori). D’altro canto, noi non abbiamo obblighi di pubblicazione, la qualità di quello che leggete è “non garantita”, e in fondo il tempo che i lettori spendono a leggerci e consigliarci è il vero “costo” di seguirci, se ne vale la pena.

La grandissima parte di quello che si legge in Rete si colloca in uno spettro che va dalla totale gratuità, come in questo caso, a forme di “finanziamento” che comunque impongono ai lettori costi diretti quasi sempre molto bassi. Eppure, la mia esperienza è che, anche gratis, io trovo in Rete informazioni e approfondimenti di qualità non inferiore a quella che trovo ad esempio sui quotidiani o sui periodici “generalisti”. Lo stesso vale, a saper e a voler cercare e senza bisogno di ricorrere a violazioni dei diritti d’autore, per software, video, musica, giochi, racconti, fotografie, enciclopedie, corsi di studio online, visite virtuali a celebri musei, eccetera. Nonostante questo (o meglio, anche grazie a questo), molte aziende che offrono servizi su Internet sono tra le più ricche del mondo; profitto e gratuità convivono nella Rete, e ciò che è gratuito in denaro può comportare “costi” e “profitti” di altra natura. È l’Economia della Rete, dove spesso chi guadagna non è (almeno apparentemente) chi produce valore, ma dove innegabilmente qualsiasi utente ha accesso a possibilità enormi.

Essere cittadino di Internet mi offre questa possibilità: far parte di un’Economia basata sulla condivisione non esclusiva che propone un’ampia offerta di “beni” di valore a costi in denaro bassissimi o nulli. I Netizens possono entrare gratis in un museo come il Cultural Institute di Google, che raccoglie opere i cui corrispondenti fisici si trovano sparsi in tutto il mondo, o seguire corsi di livello anche universitario gratis o a costi irrisori. Ecco: dal punto di vista dell’Economia, questo è un modo concreto di riconoscere che esiste, almeno in qualche misura, una cittadinanza su Internet; con i suoi diritti, i suoi benefici, e, forse anche, i suoi costi e i suoi rischi, meno evidenti.