L’unica privacy protetta sarà quella sugli accordi tra governi

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Un recente articolo di Repubblica ci informa delle trattative in corso tra i governi dei principali paesi per la stipula del TISA, il Trade In Service Agreement. Confesso che non ne sapevo nulla; se non ne sapete nulla neanche voi, cercherò di riassumervi quello che sono riuscito a capire: si tratta di un accordo di “liberalizzazione dei servizi” che potrebbe, ancora una volta, cambiare molto della nostra vita.

Cominciamo dalle informazioni ufficiali: il TISA dovrebbe costituire un altro dei trattati multilaterali a favore della liberalizzazione dei commerci e degli scambi tra paesi appartenenti ad aree geografiche diverse; in particolare, il suo ambito di applicazione dovrebbero essere appunto i servizi. Fin qui sembra tutto normale, no? Di trattati di questo tipo ne esistono già diversi, ma possono nascondere delle insidie non piccole, come abbiamo visto parlando del TTIP, il controverso accordo di partenariato che UE e USA dovrebbero stipulare e che presenta forti (e allarmanti) analogie con il TISA.

Quest’ultimo, però, ha un’importanza economica anche superiore: il trattato finirebbe per coprire il 70% del mercato mondiale dei servizi, inclusi quelli finanziari, e i servizi ormai nelle economie avanzate costituiscono la maggioranza delle attività economiche: nell’UE, secondo la Reuters, i servizi rappresentano circa il 75% dell’economia, e soprattutto, sottolineerei, dei posti di lavoro. Un accordo di “libero mercato” su questi temi si traduce principalmente nel rendere impossibile una legislazione nazionale (o europea) che regoli i servizi; in sostanza è una limitazione di sovranità, che dovrebbe condurre a una maggiore uniformità del mercato mondiale e quindi a benefici per le imprese multinazionali che operano in diverse aree del globo.

Stabilito quindi che si sta sostanzialmente parlando del lavoro e della vita di tutti noi, che usiamo decine di servizi ogni giorno, vediamo meglio di cosa si tratta, nei limiti in cui è possibile; infatti le trattative, che pure vanno avanti da febbraio 2012, sono in gran parte segrete, e i documenti ufficiali disponibili sono pochissimi. Tanto per fare un esempio, l’Unione Europea, che pure sostiene di voler adottare un metodo “il più trasparente possibile”, ha pubblicato (e solo dopo alcune indiscrezioni di cui parliamo più avanti) un piccolo numero di documenti che di fatto rappresentano la posizione di partenza dell’UE nel negoziato, e che non consentono al lettore “della strada” di comprendere di cosa si stia discutendo e qual siano le potenziali conseguenze per i cittadini delle scelte che la Commissione Europea farebbe per conto di tutti i paesi dell’UE e senza un pubblico dibattito. In realtà, insomma, di trasparente c’è ben poco, e per gli europei l’opacità della trattativa è accentuata dal fatto che a condurla è un organismo sovranazionale, che informa i governi ma che non riporta in nessun modo ai cittadini. Intendiamoci: il fatto che a rappresentarci sia l’UE non è, in sé, un problema, anzi teoricamente garantisce un potere contrattuale superiore a quello di un singolo paese; il punto è che gli strumenti che i cittadini hanno per essere informati e influire sulle scelte dei loro rappresentanti sono praticamente inesistenti.

In questo scenario, a partire dalla primavera scorsa, associazioni come la Associated Whistleblowing Press e Wikileaks, ossia soggetti che operano per diffondere, anche violando la legge, documenti riservati che esse ritengono sia diritto del pubblico conoscere, hanno cominciato a far trapelare i documenti che costituiscono le bozze di lavoro della delegazione USA, ovviamente la più attiva a favore degli interessi delle grandi multinazionali nel settore dei servizi. Sono quindi stati pubblicati:

  1. Un allegato, focalizzato in particolare sui servizi finanziari;
  2. Un ulteriore allegato, che contiene alcune norme che sarebbero applicabili a “tutti i servizi” e un’appendice dedicata specificamente ai “servizi professionali”. Questo documento è particolarmente rilevante per il trattamento elettronico dei dati.

Sarebbe troppo lungo commentare qui tutti gli aspetti significativi dei testi trapelati; potete trovare in Rete diversi commenti dettagliati, uno dei quali proprio sul sito dell’AWP, a firma di Jane Kelsey, una professoressa di legge dell’Università di Auckland in Nuova Zelanda.

Un paio di passaggi molto chiari (e decisivi) della bozza al punto 2 dicono (traduzione mia) che “nessuna Parte [cioè un paese sottoscrittore dell’accordo] può richiedere a un fornitore di servizi appartenente a un’altra Parte [paese sottoscrittore, come prima], come condizione per poter erogare servizi nel proprio territorio, di stabilire o mantenere una presenza commerciale, o di essere residente nel territorio della Parte” e che nessun paese può considerare come titolo preferenziale per un servizio il fatto che sia erogato usando “risorse elaborative collocate nel suo territorio o servizi di archiviazione dati erogati dall’interno del suo territorio”. Infine, nessun paese può “impedire a un fornitore di servizi di un’altra Parte di trasferire, accedere, elaborare o archiviare dati, inclusi dati personali, all’interno o all’esterno del territorio della Parte”.

Questo testo esaudirebbe in modo pieno e indiscutibile le richieste che l’associazione DigitalEurope, costituita dalle principali aziende mondiali del settore ICT tra cui Apple, Cisco, Google, HP, IBM, Microsoft, Oracle, Samsung e così via, ha rivolto al Commissario Europeo al Commercio in una recente comunicazione: di eliminare cioè le “politiche di localizzazione forzosa” che vigono in Europa a proposito dell’elaborazione e archiviazione dei dati. Ma come mai in Europa esistono queste politiche, e perché danno tanto fastidio alle multinazionali dell’ICT? In fondo, ormai, Google, Oracle, Amazon, IBM, Microsoft e altri hanno dei centri di elaborazione dati in Europa (e ne stanno aprendo di nuovi) appunto per poter essere conformi alle norme europee, e non avrebbero un enorme beneficio dal fornire i loro servizi da centri localizzati in USA. Il punto è un altro: l’UE impone che i Data Center siano sul suo territorio perché così sono soggetti alla legislazione europea. Se i dati si trovassero fuori della giurisdizione dell’UE, quest’ultima di fatto non potrebbe imporre le proprie normative, ad esempio sul trattamento e la privacy dei dati personali dei suoi cittadini. E, come abbiamo visto in un precedente post, la vera “miniera d’oro” oggi sono i dati relativi agli utenti dei servizi online (personali, sul comportamento, sulle reti sociali, ecc.); con un accordo come questo, nulla vieterebbe alle multinazionali di trasferire i dati di tutti i loro clienti (e dei clienti dei clienti) nel paese la cui normativa è più permissiva, e poi farne l’uso per loro più redditizio.

Se la bozza su cui i negoziatori USA stanno lavorando dovesse essere approvata (e leggendola è evidente che si tratta della base su cui si sta discutendo, perché include le proposte di modifica avanzate dai singoli paesi), tutti i firmatari, e specificamente l’UE e i singoli paesi che la compongono, perderebbero il diritto di fissare regole su numerosi argomenti, e in particolare le norme europee sulla privacy dei dati diventerebbero carta straccia. Inoltre, le liberalizzazioni sarebbero irreversibili: il trattato impedirebbe agli stati firmatari di introdurre vincoli che non siano già presenti nelle normative.

In conclusione, la mia opinione è che, sebbene io non sia tra coloro che considerano le multinazionali il Male Assoluto (ad esempio non condivido alcune delle imposizioni che in Europa si stanno facendo nei confronti di Google), in questo caso auspico che trattati come il TISA (e il TTIP di cui abbiamo già parlato) non vengano firmati in nessuna forma dai rappresentanti europei. Ritengo che non esista modo per rendere il TISA non lesivo della sovranità e dei diritti dei cittadini europei, e che le attuali modalità di negoziazione non offrano alcuna garanzia in merito. Il segreto imposto sui contenuti in discussione è inaccettabile, e si spiega solo con la considerazione che se i cittadini fossero davvero al corrente eserciterebbero una forte pressione sui governi per ritirarsi dalle trattative. Viceversa, i gruppi di pressione industriali sono perfettamente informati, e svolgono una pesante azione di lobbying a favore della deregolamentazione dei servizi. Noi europei, dato che la nostra normativa è più restrittiva, siamo quelli che rischiano più di tutti di vedere il proprio (residuo) diritto alla privacy vanificato da accordi che, ironicamente, rimarrebbero segreti anche dopo essere state firmati. Su questo governi e multinazionali sembrano ben lieti di mantenere la privacy.

Alcune risorse utili:

  • Tra i fautori del TISA, segnalo il sito dell’ESF (http://www.esf.be/new/), l’European Services Forum; quello del citato DigitalEurope (http://www.digitaleurope.org/); quello del Team TISA (http://teamtisa.org/), un’associazione USA di sostenitori della proposta di trattato. In realtà se si va a vedere quali sono i componenti di questi organismi, spesso si ritrovano i nomi delle stesse aziende.
  • Tra i commenti e gli approfondimenti, oltre quelli citati nel testo, segnalo il sito del PSI, Public Services International, un’associazione internazionale di sindacati, e in particolare una pubblicazione appunto sul TISA: http://www.world-psi.org/sites/default/files/documents/research/report_tisa_eng_lr.pdf