Le classifiche culturali e politiche fatte male valgono meno dell’oroscopo del divino Otelma

Presentazione1

Oltre a combattere contro le bufale in Rete, le bugie dei politici, l’incomprensione dell’economia e le telefonate truffaldine dobbiamo anche imparare a difenderci da serissimi spacciatori di presunte verità che servono (forse) a indirizzare l’orientamento politico e culturale delle persone ma che si rivelano prive di una serie base empirica e argomentativa. Il dolo (o semplicemente l’incuria, l’ingenuità, io ultimamente mi sento meno buono) viene rivestito di una presunta “scientificità” che frega il lettore, per esempio nel caso delle classifiche che piacciono moltissimo agli anglosassoni e al Sole 24 Ore. Per quanto riguarda il quotidiano economico e finanziario ho già avuto modo di criticare la loro annuale classifica delle province italiane rispetto alla qualità della vita. Peggiore di quella – perché ancora più banale nella selezione degli indicatori – la loro più recente classifica delle Università italiane sulla quale non mi intratterrò perché ho deciso di sparare a un bersaglio più grosso.

Il bersaglio grosso è nientepopodimeno che il Global Peace Index 2015 prodotto dall’Institute for Economics & Peace, uno di quei think tank tipici di altre sponde, coi soldi, agganci politici e istituzionali e tante buone intenzioni. Prima di procedere con le mie critiche vi devo però proporre un gioco. Fate finta di essere voi l’IEP e di dover decidere quali paesi del mondo siano da considerare più pacifici e quali più aggressivi. Per deciderlo dovete selezionare un certo numero di “indicatori”, ovvero di elementi che, opportunamente misurati, decidano della pacificità o dell’aggressività di ciascun paese. Per esempio un indicatore potrebbe riguardare lo stato di guerra: ogni paese attualmente in guerra avrà un valore negativo su quell’indicatore, ovviamente. Un altro indicatore potrebbe essere il riconoscimento diplomatico internazionale: un paese riconosciuto da poche altre nazioni è isolato e poco considerato, forse proprio perché ritenuto poco degno di entrare nella comunità internazionale. Insomma pensateci due minuti: in base a quali indicatori (da verificare empiricamente) andreste a vedere quali sono i paesi più pacifici?

Fatto? Bene, allora possiamo andare avanti.

I 23 indicatori usati dall’IEP per comporre il suo Global Peace Index sono i seguenti:

indicatori Schermata 2015-07-23 alle 13.02.57

Mi permetterò di discuterne solo alcuni per farvi capire perché la cosa non possa funzionare nel suo insieme (a proposito: in questi 23 ci sono quelli che avevate pensato voi?).

  • Numero di morti in conflitti esterni organizzati (ovvero contro un altro stato o aggressore, secondo la loro stessa definizione): ciò significa prescindere non solo dalle ragioni dei conflitti (combatti per difenderti, per rubare le risorse altrui, per abbattere un losco dittatore o per insediarti come dittatore losco…) ma anche dalle disparità tecnologiche fra paesi: se lo Stato A, molto arretrato, combatte da 10 anni contro il B tirandogli delle pietre, avrebbe comunque un indice più favorevole rispetto allo Stato X, molto tecnologico, che in una sola occasione particolare e semmai per difendersi rade al suolo una città nemica;
  • Relazioni coi paesi vicini, indicatore misterioso sia nella definizione sia nel metodo, perché viene stabilito dagli analisti IEP sulla base delle reciproche aggressioni negli ultimi anni. Aggressioni? Gli attacchi hacker contano? Gli omicidi politici? L’uso di forze terze (come in Ucraina)? Lo spionaggio? Le sanzioni (chiedere ai russi se non ritengono che siano una forma di aggressione della Nato);
  • Livello di criminalità percepito; come ‘percepito’? Fanno un sondaggio internazionale? Non si sa e non lo spiegano;
  • Percentuale di rifugiati sulla popolazione: perché sarebbe un indicatore di pace? Pensando all’Italia mi viene in mente che potrebbe essere indicatore di posizione geografica all’incrocio di vie di fuga dalle guerre altrui…
  • Spesa militare: questo sembra pertinente, ma è evidentemente un indicatore influenzato dalla grandezza del paese (dubito che San Marino possa avere un valore significativo in questo indicatore; dubito che la Russia ne possa avere uno modesto), dalle alleanze e trattati firmati (se sei nella Nato hai degli obblighi…), dai vicini (la Grecia ha un’enorme spesa militare, in rapporto al PIL, per un antico timore verso la Turchia…);
  • Volume delle esportazioni militari: perché? Fabbricare armi potrà anche essere brutto ma in che misura dovrebbe indicare la mia aggressività? Se fabbricassi ed esportassi trattori ciò indicherebbe la mia ruralità?

Ci sono molte altre cose discutibili nel metodo (quale per esempio l’attribuzione di “pesi” che differenziano l’importanza degli indicatori) ma questo non è un blog specialistico e mi fermo per compendiare in pochi punti i principali elementi che mi fanno affermare quanto queste classifiche siano approssimative e dubbie:

  1. si basano sempre un numero ridicolo di indicatori; certo, se devo individuare dei criteri per giudicare buono un ristorante, cinque o sei possono bastare (pulizia, qualità degli ingredienti, presentazione…) ma per temi di complessità elevate (come la pace, l’amore, la giustizia…) servirebbero centinaia di indicatori (rendendo però complicatissimo il sistema). Pochi indicatori vuole necessariamente dire opinabili; perché proprio quello? Per esempio, voi quali indicatori avevate pensato?
  2. in particolari su temi complessi, i pochi indicatori sono raramente “misurabili”; non a caso fra quelli appena visti ve ne sono molti etichettati impropriamente come “qualitativi”, dove invece andrebbe messa l’etichetta “nasometrici”, a partire dalla loro complessa concettualizzazione (= significato profondo e condiviso di ciò che si intende realmente misurare);
  3. il combinato disposto di questi elementi (e di altre carenze di metodo) rende il quadro complessivo disorganico e fumoso, incapace di dare una “spiegazione” dei risultati prodotti.

Quest’ultimo punto è molto importante; se date un’occhiata alla mappa complessiva il risultato appare deludente:

Mappa Pace

I paesi più grandi e industrializzati appaiono più aggressivi (da gialli a rossi) per ragioni piuttosto semplici da comprendere: per esempio più territorio e più confini e quindi maggiori forze di polizia ed esercito e quindi più spesa militare; i paesi più isolati appaiono più pacifici (verde) per ragioni altrettanto ovvie: contro chi dovrebbe combattere la Nuova Zelanda? In realtà il Rapporto fa una confusione pazzesca fra indicatori militari e indicatori di sicurezza sociale, che sono cose estremamente differenti (in termini tecnici si dice che quegli indicatori indicano concetti differenti); in Cina potete passeggiare a notte fonda per le strade della città e difficilmente sarete importunati, ma il suo colore (arancione) tradisce la potenza militare di quella nazione che però non è in guerra con nessuno (anche se alza abbastanza la voce coi vicini); il verdolino dell’Italia ci fa apparire abbastanza paciosi, ma io dopo una certa ora non vado in certi quartieri della mia cittadina di provincia perché pericolosi.

Concludo riflettendo sul perché si facciano codeste classifiche: a cosa dovrebbero servire? Oltre a far fare stanchi articoletti sui quotidiani a caccia di notiziole per catturare momentanee attenzioni dei lettori (come La Stampa che titola La Siria è il Paese più pericoloso al mondo; ma va’?). Pensate che servano ai politici e ai diplomatici per gestire le relazioni internazionali? Pensate che le agenzie di intelligence le usino per le loro segrete strategie? Io credo che questi esercizi servano per autoalimentare le agenzie e le istituzioni che le producono; danno un senso ai soldi spesi dai privati e dai governi che le sovvenzionano (semmai per ragioni politiche, o extra-politiche se preferite…); fanno produrre qualche prestigiosa pubblicazione a qualche accademico; forniscono pretesti strumentali per litigare in qualche stanco talk show. Tutto il resto, come si dice a Roma, è fuffa.

Spot pubblicitario:

Claudio Bezzi, Leonardo Cannavò e Mauro Palumbo (a cura), Costruire e usare indicatori nella ricerca sociale e nella valutazione, Franco Angeli, Milano 2010 (ristampa 2013).

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