È uscita lunedì scorso la 25^ classifica sulla qualità della vita nelle province italiane che il Sole 24 Ore si ostina a propinarci ogni anno (QUI la mappa interattiva). Un esercizio ridicolo, metodologicamente discutibile e anche eticamente non privo di rischi. Poiché mi scaglio contro queste classifiche dal lontanissimo 1988 (quando recensii alcuni dei primi volumi con queste classifiche) e non ho mutato parere da allora, vi chiarisco i come e i perché tecnici di questo esercizio e del perché sia di norma una stupidaggine. Naturalmente, come feci anche trattando l’argomento dei sondaggi politici, per certi versi analogo, tratterò abbastanza divulgativamente il tema rinviando i lettori interessati agli indicatori sociali (di questo si tratta) alla pubblicistica specializzata.
Queste classifiche si basano su insiemi di indicatori sociali, vale a dire valori che misurano diverse variabili ritenute tutte in qualche modo descrittive di particolari aspetti del tema trattato; questo è il paragrafo veramente tecnico del mio ragionamento e purtroppo è quello fondamentale, vi prego quindi di seguirmi con pazienza. Se io volessi indagare l’argomento “passione calcistica” (per esempio in un’indagine di marketing) e trascurando per il momento la reale disponibilità dei dati necessari, io potrei immaginare che “abbonamento al canale di calcio Sky” sia un indicatore utile; anche l’abbonamento allo stadio, naturalmente; la frequenza di acquisto e lettura di quotidiani sportivi… Questi si chiamano “indicatori” e potrei immaginare che più valori positivi gli individui abbiano su questi indicatori (rilevati per esempio nel corso di interviste) e più siano tifosi; ovvero: andate allo stadio, vedete la Champions su Sky e compulsate la Gazzetta dello Sport, allora ne ricavo che siete veramente tifosi sfegatati. Andate qualche volta allo stadio, non avete l’abbonamento Sky e leggete con una certa frequenza la Gazzetta, allora siete tifosi ma non esagerati. Gli indicatori “misurano” (non è proprio vero, chiedo venia ai puristi) la dimensione di una certa variabile e, sommati assieme, possono diventare un indice sintetico (per stabilire, per esempio, il livello di tifoseria in una scala da 1 a 10, dove io sarei probabilmente a “1”).
Più seriamente le classifiche sulla qualità della vita (e altri esercizi analoghi), avendo a che fare con un concetto di massima complessità, strutturano molti più indicatori su molteplici dimensioni. Questa del Sole si occupa per esempio di queste (ciascuna declinata con mezza dozzina di indicatori):
- Tenore di vita;
- Servizi e ambiente;
- Affari e lavoro;
- Ordine pubblico;
- Popolazione;
- Tempo libero.
6 dimensioni × 6 indicatori = 36 indicatori; mica pochi! Apparentemente. Perché questa scomposizione del tema “qualità della vita” in sei dimensioni, ciascuna di sei indicatori (magnifica simmetria!) ci segnala il primo enorme problema di queste operazioni. Più il tema da analizzare è complesso (e qualità della vita è complessino…) e più la scomposizione in dimensioni e indicatori può assumere molteplici forme riflettendo competenze, conoscenze, sensibilità, necessità e opportunità dei ricercatori (ognuno di questi sostantivi – competenze, conoscenze… – non è casuale e ha un significato preciso). Per esempio: alla dimensione “Servizi e ambiente” troviamo asili, ambiente, cause civili e sanità (un bel potpourri, ve lo dicevo che non erano poi sufficienti 36 indicatori…); su sanità troviamo l’indicatore Percentuale emigrazione ospedaliera; giusto: le province con ospedali dove arrivano più pazienti da fuori sono probabilmente migliori. Avrei argomenti per dire che non è sempre e necessariamente vero, ma supponiamo che lo sia; questo sull’emigrazione ospedaliera è l’unico indicatore sulla sanità pubblica presente nella classifica del Sole per presidiare la tematica sanitaria. Vedete qui la prima stupidaggine, perché anche Sanità pubblica è un concetto grande, variegato e complesso, anche se non quanto Qualità della vita. Anche per la sanità pubblica di indicatori ne potrei pensare dozzine: mortalità post-intervento; numeri posti letto per 100.000 residenti; numero medici, infermieri, primari per 100.000 residenti; vaccinazioni; recidività per tipo di patologie… In realtà ciascuno di questi possibili indicatori spiega un pochino, ma non tutto, il tema della sanità pubblica (qualcuno ha più a che fare con l’efficienza, altri con l’efficacia, altri col reclutamento di personale qualificato…). Anche quello scelto dal Sole è così: spiega qualcosa sulla sanità (l’attrattività dei presidi ospedalieri locali) ma non tutta la sanità. Questo problema riguarda tutti e ciascuno gli indicatori adottati dall’indagine (e da qualunque indagine analoga). Per brevità mi fermo su questo punto, ma se voi andate alla mappa interattiva indicata sopra e cliccate su “Tutti gli indicatori”, potete divertirvi a fare analoghi ragionamento sia sulla scelta delle sei dimensioni (perché proprio quelle? Perché caratterizzate nel tale modo?) sia sui pochissimi e risicati indicatori proposti.

Viva i dati ma… è tutto misurabile? Una seconda critica fondamentale riguarda la disponibilità dei dati. È evidente che per realizzare classifiche di questo genere occorrono numeri, che si possano aggregare, sommare, trasformare in indici e poi punteggi finali della nostra classifica. Purtroppo, come afferma la celebre frase attribuita a Einstein, Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato. Queste classifiche quindi non possono includere indicatori non esprimibili con punteggi (operazione facile in caso di denaro, giornate, quantità, numerosità…) e, specialmente, non disponibili in banche dati accessibili. La logica conseguenza è che gli indicatori non sono quasi mai quelli concettualmente ritenuti necessari dai ricercatori, bensì quelli ritenuti migliori fra i disponibili. Se volessimo includere, per la voce “Sanità”, la qualità della relazione terapeutica, non sapremmo bene come “misurarla” (salvo indirettamente tramite ricerche sociologiche limitate) e non disporremmo del dato. Di queste mancanze, di queste omissioni forzate è piena ogni classifica sulla qualità della vita inclusa – vistosamente – questa del Sole.
A questo punto abbiamo pochissimi e discutibili indicatori, non necessariamente (non certamente) i più opportuni che, aggregati, “colpiscono” il tema (qualità della vita) in pochi e rarefatti elementi, come una foto a grana molto (ma molto) grossa, come se con 36 pixel (i 36 indicatori) dovessimo disegnare la Gioconda (la qualità della vita con tutto ciò che include). È evidentemente un esercizio senza speranza anche solo per un’informazione giornalistica veloce; intendo sottolineare che non si tratta di minimizzare perché “tanto questo è giornalismo e non scienza”, non è neppure giornalismo. Date un’occhiata all’intera tabella: un numero non piccolo di Province si è mosso (in alto o in basso) di 10 o più posizioni dalla precedente rilevazione del 2013: sono 32 su 107 (il 30%!), e ben 14 si sono mosse di 15 o più (13%). Mamma mia! Una rivoluzione incredibile. Per esempio cosa diavolo è successo alla mia Perugia che ha rimontato VENTITRÈ posizioni in 12 mesi (quasi un quarto dell’intera classifica)? Non mi sono accorto di nulla, né sul piano ambientale, né su quello dei servizi, né su altro… E non siamo neppure i migliori, visto che Olbia ha rimontato trentacinque posizioni. E i poveri cittadini di Oristano che sono precipitati di ben ventitré posizioni? Cosa diavolo hanno combinato, in solo un anno? Possibile che non si colgano queste rilevantissime variazioni come indizi che qualcosa, in questa classifica e nel suo metodo, non funziona?
Ma, come avevo anticipato, c’è anche una considerazione etica da fare. Premesso (e tale premessa è parte integrante di questa mia perorazione) che questi esercizi sono insostenibili sotto il profilo del metodo, resta il problema degli effetti comunicativi che suscitano. Le tradizionali province del Nord, solitamente fra le prime in classifica, si possono grogiolare sulla loro condizione privilegiata di bravi cittadini, con brave amministrazioni, con splendido clima, con buona redditività, con felicità che sprizza da tutti i pori più o meno da sempre, mentre quelli in fondo alla classifica sono, più o meno anno dopo anno con variazioni minime, condannate a vivere nel fondo depressivo di una condizione che rinvigorisce la disperazione e gli stereotipi ma non aiuta certo a superarli. Si potrebbe pensare che – bene o male che sia fatta l’indagine – essere più o meno sempre in fondo abbia a che fare con un’oggettiva cattiva amministrazione, povertà, malfunzionamento dei servizi eccetera. E noi possiamo sostenere questa convinzione, in cuor nostro, con dei pre-saperi che ci fanno semmai pensare “Eh, sì, si sa che al Nord le cose funzionano”, oppure “Eh già, si sa che al Sud è tutto un bordello!”. Ma qui usciamo dai numeri per abbracciare stereotipi, non credete? Il fatto è che prendendo altri indicatori e senza dolo alcuno potrei facilmente costruire un indice di qualità della vita dove Agrigento potrebbe risultare prima in classifica (giornate di sole, mitezza del clima, relazioni sociali ricche di significato, consumerismo etc.).
Poiché queste ultime riflessioni non avranno convinto molti di voi, per convincervi vi propongo altre classifiche, questa volta internazionali. Il Where to be born Index è un’indagine sulla qualità della vita realizzata per The Economist nel 2013 che mette in classifica 80 Paesi. La presuntuosa Italia è solo al 21° posto; uno sotto Israele e uno sopra il Kuwait. Nel 1988 (precedente ricerca, ma su 50 Paesi) eravamo quarti; sì, sono passati venticinque anni, ma come vedete dalla figura il ribaltamento (non solo per l’Italia) è piuttosto imbarazzante.
Quanti indicatori hanno usato? DIECI!
E poiché non ci sto a finire dietro a Norvegia, Svezia, Finlandia e altri luoghi gelidi (probabilmente ricchi; certamente ordinati; sicuramente con ottimi servizi, ma gelidi… vedete che la scelta degli indicatori è decisiva?) concludo con un’ultima classifica pubblicata da Newsweek nel 2010 relativa a 100 Paesi perché un lettore fece una considerazione dirimente che vi lascio come sorpresina finale.
Tralascio i vistosi errori metodologi (assai peggiori di quelli del Sole) di questa indagine Newsweek che – se siete patiti – potete trovare in un altro mio testo e arrivo diritto al punto. Partiamo dal risultato finale basandoci, per semplicità, sulla classifica generale di sintesi. Chi ha vinto? I Paesi Nordici (Finlandia – la vincitrice assoluta! –, Svezia e Norvegia), la Svizzera (seconda), Danimarca, Lussemburgo (Lussemburgo??), Olanda, Australia, Giappone e Canada; gli Stati Uniti sono undicesimi. Fra le posizioni di rispetto noto anche la Corea del Sud (15^), Singapore (20^) etc. (richiama molto la precedente classifica di The Economist, non trovate?); un bel po’ più giù troviamo l’Italia: 34^. C’è qualcosa che non va.
Ma non voglio dire io perché, lo lascio dire a Courtenay Anderson di Espoo, Finlandia (il Paese vincitore) che sul numero di “Newsweek” del 6 Settembre 2010 nella rubrica “Letters” scrive, criticando la classifica:
Finland is a country of long distances, dark winters, and often quite depressed people. Your research has failed to capture the country’s high levels of domestic violence, divorce, and alcoholism. Workplace bullying is rampant, the school system is unresponsive to students’ needs, and government figures severely underestimate the true unemployment rate. I hope these comments will help you and you readers put some perspective into your finding of Finland as the “best country” in the world.
Secondo Courtenay Anderson, testimone qualificato della vita finlandese, se si fossero utilizzati altri indicatori (depressione, alcolismo e le altre che cita) la classifica sarebbe stata molto diversa, e questo è il punto principale: concetti multi-multi-multi-dimensionali come l’omnibus “Qualità della vita” hanno milioni di possibili indicatori, e utilizzarne (senza peraltro esplicita argomentazione) una piccola manciata conduce a dei meri non-sensi.
Ma notate anche un’altra cosa: Anderson cita al secondo posto, nella sua lettera, i dark winters, segno che per questa persona si tratta di un fattore (negativo) di notevole importanza; come si operativizza la tristezza e la malinconia dei lunghi e freddi inverni finlandesi?
A questo punto concludo davvero spiegando perché ho speso tempo e fatica per scrivere questa lunga nota. L’ho speso perché, come tante volte abbiamo scritto qui su HR, le parole hanno un potere e quando sono confezionate con numeri, indici, statistiche e altre alchimie appaiono come certe, dirimenti. Questa classifica non offre un grammo di conoscenza in più della situazione italiana, delle sue cause e dei possibili rimedi, ma offre con abbondanza pretesti a stereotipi, luoghi comuni e omologazioni del pensiero che non sono quello che ci serve. Questo contributo a stereotipie, politicamente utilizzabili, viene offerto attraverso un procedimento pseudo-scientifico e quindi con un inganno, certamente non consapevole negli estensori del testo, al quale occorre contrapporre il coraggio di una riflessione più razionale, anche se più faticosa.