Una delle parole con le quali ci riempiamo la bocca, nei nostri commenti e nelle nostre dispute politiche, è ‘democrazia’. Siamo in democrazia; anzi, scusate: in Democrazia. La parola è diventata un’etichetta sulla quale si riflette poco, una parola di cui si dà per scontato il significato e che non si mette in discussione, non si tematizza, non si argomenta.
Siamo in Democrazia. Siamo democratici, noi. Il voto esprime democraticamente la volontà del popolo. Ma la parola |Democrazia| ha determinati significati, fa riferimento a un concetto che possiamo stirare un po’ di qua e un po’ di là, ma solo fino a un certo punto, se vogliamo che le parole significhino. Ho ricordato recentemente come la Repubblica Popolare della Corea del Nord si dichiari, sin dalla denominazione ufficiale, “democratica”, senza che alcuno di noi possa avere dei dubbi sul fatto che proprio non lo sia. Occorre quindi andare oltre le parole, scavare nel concetto, comprenderlo e sottoporlo a verifica: c’è libera espressione dell’opinione da parte dei cittadini? Possono, i cittadini, senza restrizione alcuna, eleggere i loro rappresentanti? I governanti custodiscono le libertà fondamentali sancite costituzionalmente? Eccetera. Nello stesso post appena citato ricordavo alcuni limiti intrinseci alla democrazia nel nuovo millennio, segnalando che – per varie ragioni – il concetto novecentesco di ‘Democrazia’ era diventato varco di populismi e manipolazioni che mantengono la forma esteriore della democrazia minandone alla base la funzionalità, l’efficacia e il senso stesso di un’azione volta al benessere della collettività. In questo post aggiungerò qualcosa all’analisi mostrando come si siano innescati degli anticorpi, a quei problemi, che potrebbero essere non tanto migliori del morbo populista che si vuole curare.
Al di là di chi è legittimato a votare (tutto il popolo con eccezioni minime, nelle costituzioni occidentali) il nodo della questione è chi è legittimato a prendere decisioni sostanziali. L’idea novecentesca si basava (in Italia e nella maggior parte dell’Occidente) sulla rappresentanza politica dei vari ceti (e classi) sociali: gli operai erano rappresentati da partiti marxisti che intendevano promuovere giustizia sociale e uguaglianza in un determinato modo; i “signori” (ricordo che erano chiamati così, quand’ero giovane) erano rappresentati da partiti liberali che intendevano promuovere l’intrapresa e il merito (e difendersi dal collettivismo comunista) e via discorrendo. Chi era di più (prendeva più voti) vinceva, semmai con alleanze tramite partiti affini, e perseguiva il proprio programma. Chi perdeva controllava, stimolava, denunciava abusi se del caso e si attrezzava per vincere alle successive elezioni. Non è mai stato veramente così, sia chiaro, ma questo quadro approssima molto quello che si intendeva con Democrazia diversi decenni fa. Ma oggi? È ancora così?
Crollata la linearità della rappresentanza con la comparsa di nuovi e diversi ceti sociali (ne abbiamo parlato, con dati, QUI), crollate le ideologie e approdati nel millennio 2.0 le cose si mostrano piuttosto diverse. Non solo il popolo vota alla luce di condizionamenti e pressioni inediti (ne abbiamo parlato nel post citato all’inizio), ma i rappresentanti decidono solo in parte e alla luce di una serie di vincoli piuttosto stringenti, come i trattati internazionali fra i quali, e prioritariamente, quelli dell’Unione Europea che hanno il potere di sottrarre materie decisionali alla giurisdizione dei nostri deputati e senatori. Oppure come la stessa Costituzione che – nella versione pre-riforma – sottraeva varie competenze allo Stato per lasciarle alla cacofonia regionale (la riforma prevede il superamento di questo disastro ma occorre vedere se il referendum confermativo ripristinerà quelle norme, chiamate “concorrenti”, o se le abolirà definitivamente).
Ma al di là dei trattati e della materia concorrente fra Stato e Regione c’è un ulteriore problema da considerare che potrebbe essere piuttosto grave: il potere dei gruppi di pressione, delle lobby, che finiscono col configurare le democrazie contemporanee come forme temperate di oligarchia. Occorre preliminarmente accennare che qui il termine |oligarchia| viene usato nel senso neutrale e descrittivo moderno, come governo di pochi. E occorre constatare che, di fatto, è proprio così, nel senso che il popolo vota ma governano pochi professionisti della politica, coadiuvati da gruppi di burocrati specializzati e di difficile rimozione. I gruppi di pressione (specialmente economici) sono delle élite dedicate all’influenza della decisione pubblica, e costituiscono quindi dei gruppi di potere reale, oligarchico, molto influenti. Uno studio americano recente cerca di dimostrare empiricamente questa affermazione:
The central point that emerges from our research is that economic elites and organized groups representing business interests have substantial independent impacts on U.S. government policy, while mass-based interest groups and average citizens have little or no independent influence (fonte; una breve discussione critica su bbc.com).
Questo risultato, credo, è piuttosto condivisibile anche senza ricorrere a complessi studi americani.
L’America sarebbe quindi un’oligarchia? Sì, secondo diversi autori, ma anche no se ci si attiene in forma più ristretta al concetto di ‘oligarchia’. La Cina è indubbiamente un’oligarchia: i dirigenti del Partito Comunista dirigono e decidono tutto; si diventa membri di tale gruppo per cooptazione. Il Popolo non decide nulla che riguardi la sfera politica. La Russia è un’altra forma di oligarchia: una rete di politici, industriali (appunto definiti ‘oligarchi‘) che nella transizione dall’Unione Sovietica alla Russia post-muro si sono arricchiti ma, specialmente, sono stati in grado di detenere il potere. In Russia il popolo vota, indubbiamente, ma una serie di condizioni storiche, tradizioni politiche e vincoli contestuali sembrano condurre il popolo russo, con abbastanza consapevolezza pare, a preferire un regime sostanzialmente oligarchico (interessante fonte per approfondire); una formula strana che Predrag Matvejevic ha definito “democratura” (crasi fra democrazia e dittatura). Ancora più spinto sul fronte democratico il caso americano visto sopra e, assieme, quello tipico delle democrazie occidentali.
E l’Italia? Non vedo, onestamente, una grande differenza dalla situazione americana. Che lobby potenti siano all’opera da anni, che ottengano risultati concreti indirizzando le decisioni dei governi, che siano influenti e non facilmente ignorabili è questione arcinota e più volta trattata in questo blog (e non pensate solo a potentati economici à la Bilderberg, perché anche il sindacato è stato, per lungo tempo, un giocatore politico non irrilevante, assieme ad altri). Semmai le lobby italiane sono spesso abbastanza casarecce, piuttosto familiste, non di rado sgangheratelle, ma si interviene sulle banche su fortissima pressione di banchieri e finanzieri come si interviene sul terzo settore su forte pressione del terzo settore e così via. E, onestamente, come potrebbe essere diversamente? Di cosa si dovrebbero occupare governo e parlamento se non delle questioni urgenti per i diversi gruppi di cittadini che rappresentano settori economici rilevanti (come, appunto, banche, terzo settore…), o settori socialmente anche marginali ma capaci di attrarre consenso e indirizzare il dibattito (le leggi sul cosiddetto “dopo di noi” come quella sulle unioni civili sono nate così)? Ovviamente ci sono differenze rilevanti, in questi pochi esempi. E naturalmente un conto è il potere (che direi più che legittimo) di presentare istanze e fare pressione, e altro conto e il potere di indirizzare la decisione in maniera non trasparente, eventualmente danneggiando altre categorie di cittadini.
Il punto quindi diventa sottilmente complesso e forse un pochino pericoloso. La pressione di gruppi e lobby non solo è legittimo ma anche utile; è una risposta alla complessità decisionale, una forma di partecipazione politica. Ma solo se è trasparente. Se invece si concretizza in poteri sotterranei, non controllabili, capaci di esercitare pressioni fuori dalle leggi o addirittura illegali (compravendita di voti, corruzione…) allora non solo diventa un problema, ma snatura completamente il senso residuo che nel terzo millennio ancora deve avere il concetto di Democrazia e ci consegna a un sistema semi-oligarchico più simile al modello russo che a quello americano. Dobbiamo ricordare come il problema sia ben noto in Italia e oggetto di ripetuti tentativi di legiferazione (58 proposte in 40 anni, sostiene Il Fatto Quotidiano). Al momento abbiamo qualche regolamento (alla Camera, al Ministero delle politiche agricole, in qualche regione; si veda QUI la documentazione), e un disegno di legge arenato al Senato. Facile capire le difficoltà nel Paese maestro dei sotterfugi, degli amici degli amici, dei due forni, delle corporazioni, dei diritti acquisiti e via discorrendo. Più di tante altre riforme, alcune indubbiamente meritorie, questa in particolare può caratterizzare una vera volontà di discontinuità e dare la cifra di un’epoca nuova.
Risorse:
- Eugenio Scalfari, Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto, “La Repubblica”, 2 Ottobre 2016;
- Eugenio Scalfari, Perché difendo l’oligarchia, “La repubblica”, 13 Ottobre 2016.
(In copertina: Ostrakon di Thémistocle)