Coalizioni distributive
Ho pubblicato di recente due post su Hic Rhodus, dedicati a chiarire significato e conseguenze delle azioni collettive del luglio 2015, a Pompei e Roma (QUI e QUI). Ho allargato poi la prospettiva ad altri eventi e ripreso, per spiegarli, la teoria dell’economista Mancur Olson sulle azioni collettive. Riassumo in breve la mia argomentazione.
I piccoli gruppi che rappresentano interessi particolari – che possiamo chiamare ‘corporazioni’ o ‘coalizioni distributive’ – godono di un vantaggio decisivo rispetto a quelli, a base ampia, che rappresentano interessi più generali. I suoi membri sono più motivati ad alimentare e sostenere l’azione collettiva, anche bloccando od ostacolando servizi pubblici vitali per il funzionamento di parti di un sistema economico complesso. Per acquisire una quota di risorse maggiore di quella che producono, essi si comportano sovente come un elefante in un negozio di cristalli. I danni prodotti dal diffondersi di questi conflitti possono provocare il degrado o il declino di aziende, settori economici, nazioni. In conclusione, facendo di nuovo riferimento alle azioni collettive di piccoli sindacati, ho raccomandato l’attuazione dell’art. 39 della Costituzione della Repubblica Italiana del 1948. Ciò potrebbe contribuire – insieme alla liberalizzazione di mercati chiusi di prodotti, servizi e del lavoro — a migliorare le prospettive della crescita economica e sociale del nostro paese.
Un’obiezione importante
Questi articoli hanno provocato critiche e richieste di chiarimenti. Ad alcune di queste ho risposto in calce ai due post. Rimane un’obiezione, cui non ho risposto, espressa da Stefano Sappino. Il problema sollevato è importante e merita quindi un’attenzione specifica:
Non sono convinto che sia automatico che un sindacato a larga rappresentanza lavori per favorire il “bene comune”, perché questo sarebbe vero nella teoria dei giochi, ma non in una realtà magari poco civile. Anche perché in Italia non è quello che è avvenuto.
Vo sono qui due problemi connessi, ma distinti. Li esprimo sotto forma di domande:
- i sindacati confederali si sono comportati in Italia, almeno negli ultimi decenni, come coalizioni distributive, poco interessate allo sviluppo economico e sociale del nostro paese, ma solo a quello dei propri rappresentanti – a detrimento degli altri?
- Se ciò corrispondesse a quanto è successo, la teoria di Olson dovrebbe essere considerata falsa, incapace di spiegare i conflitti distributivi di questo tipo?
Risponderò in modo positivo alla prima domanda, negativo alla seconda.
Molte risorse attribuite alle pensioni, sottratte ad altre politiche sociali
L’esempio più rilevante delle azioni distributive svolte dai sindacati confederali è fornito dalla storia del nostro sistema pensionistico, dagli anni ’60 ad oggi (Castellino 1976, Baldissera 1995 e 2008). Scopo di queste azioni (ma non solo: si pensi agli interventi sulla gestione di Ferrovie dello Stato, delle Poste Italiane e di numerosi enti pubblici – specie negli anni ’70 e ‘80) è stato “distribuire una maggior quantità del reddito della società a proprio favore, anziché cercare di produrre qualcosa” (Olson 1994).
Negli anni ’70-’80 dello scorso secolo i sindacati confederali italiani hanno scoperto che ottenere vantaggi rilevanti dal Parlamento, mediante azioni di lobbying sull’attività di legislazione, piuttosto che attraverso negoziazioni con le controparti padronali, era più semplice e assai meno costoso. Il “patto previdenziale”, ovvero l’insieme di leggi che furono approvate dal parlamento italiano nel periodo che va dal 1968 al 1975, è un frutto esemplare di una serie di queste pratiche collusive (Regonini 1985). Anche nella legislazione dei decenni successivi gli esempi del genere abbondano, almeno sino al 2007.
Con maggior precisione. Le numerose norme, spesso minuziose, che regolano in Italia il sistema pensionistico sono delle leggi. Esse possono essere modificate solo da un voto del Parlamento. Gli assegni pensionistici sono prevalentemente forniti da istituzioni pubbliche, sulla base di schemi obbligatori. Anche gli enti pensionistici sono sottoposti a vincoli di legge.
Questa iper-regolazione legislativa del sistema pensionistico non è casuale. Essa consente in Parlamento l’intervento contemporaneo o successivo di una pluralità di attori interessati alla torta pensionistica, nonché l’esercizio di una gamma molto ampia di manovre e di decisioni: dalla collusione più o meno esplicita, al rinvio, alla non-decisione, al veto, all’uso discrezionale delle incertezze e delle ambiguità normative.
L’esempio più significativo, tra i tanti, sono le leggi che riguardavano le pensioni di anzianità. Esse hanno permesso a milioni di lavoratori di ottenere pensioni più sostanziose rispetto a un calcolo attuariale, ovvero ai contributi versati. Il pensionamento anticipato incontrava anche il favore dei datori di lavoro, che si potevano così liberare dei lavoratori più costosi, e sovente meno produttivi (Baldissera 2013; si veda anche il post pubblicato su Hic Rhodus)
Questi accordi tra sindacati, partiti politici, organizzazioni padronali si sono concretizzati in provvedimenti che hanno garantito trasferimenti di risorse, più o meno ingenti, tra generazioni, tra categorie occupazionali, e alla fine tra contribuenti e specifici gruppi sociali. Questi provvedimenti hanno una caratteristica peculiare: hanno soddisfatto gli interessi di una serie più o meno ampia di categorie e di gruppi sociali, senza tuttavia suscitare resistenze o proteste immediate da parte di chi è o sarà chiamato a pagarne i costi. I nodi, ovvero i costi, sono venuti al pettine solo in tempi successivi, quando il mancato rispetto dei vincoli ha prodotto una lunga serie di disavanzi più o meno ingenti e, alla fine, economicamente insostenibili. L’insostenibilità del sistema pensionistico italiano — nota per decenni ai soli specialisti, grazie anche alla sua voluta opacità — fu sovente negata dai sindacati. La loro resistenza a una riforma efficace e definitiva durò almeno un ventennio, dal 1992 (legge Amato) al 2011 (legge Fornero). Questa ultima è da essi criticata e il sistema contributivo (assegni pensionistici commisurati ai contributi versati e all’età di pensionamento) messo in discussione.
Le coalizioni distributive non hanno uno spirito filantropico
Un’ultima osservazione. I trasferimenti di risorse prodotti dalla manipolazione delle regole del sistema pensionistico non sono in genere ispirati da qualche criterio di giustizia distributiva – sia esso il bisogno, le esigenze civiche o i diritti di cittadinanza. I loro beneficati non sono in genere persone in stato di necessità o prive di adeguati mezzi di sussistenza. Quei trasferimenti riguardano sia le somme destinate all’assistenza (ad es. quelle destinate ai cosiddetti “pensionati sociali”), sia quelle destinate alla previdenza. I provvedimenti presi nel corso di oltre quarant’anni in Italia a favore dei pensionati sono stati talmente efficaci che la spesa pensionistica italiana è percentualmente superiore – sia rispetto al PIL sia rispetto alla spesa sociale – a quella destinata allo stesso scopo da altri paesi europei. Dirottati al pagamento delle pensioni sono stati anche fondi destinati agli assegni familiari. Questi fatti corroborano la tesi di Olson a proposito della mancanza di spirito filantropico delle coalizioni distributive: “la maggior parte della distribuzione del reddito determinata da lobbies non è ridistribuiva nei confronti dei poveri” (Olson 1994).
In conclusione: i sindacati confederali per decenni hanno assecondato la domanda dei loro iscritti verso trattamenti pensionistici anticipati e/o più generosi, trascurando così il loro ruolo moderatore, in teoria anzitutto interessato alla crescita economica e allo sviluppo sociale del paese. Perché hanno deciso in questo senso? Perché la situazione italiana è diversa o molto diversa da quella di altri paesi europei e no? I sindacati italiani hanno trovato una porta istituzionale spalancata. e ne hanno approfittato. La Costituzione italiana del 1948 ha infatti alcune peculiarità decisive: un bicameralismo paritario, che favorisce incursioni delle lobbies nel processo legislativo; un governo debole, incapace di imporre la sua direzione al processo legislativo; la mancanza di una regolazione legislativa delle lobbies; la mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione.
Un ulteriore conferma è fornita da un evento recente: il rinvio al settembre 2015 dell’approvazione del cosiddetto “DL concorrenza”. Il testo presentato dal governo, che aveva già subito tagli rilevanti, è stato spolpato ed evirato dal Parlamento nel corso di cinque mesi di audizioni, pareri, interventi di varie coalizioni distributive; per un commento si veda QUI. Analoga sorte subirà probabilmente, in questo parlamento, il tentativo di dare attuazione all’art. 39 della Costituzione, malgrado la recente dichiarazione in questo senso del Presidente del Consiglio dei Ministri e la disponibilità di un leader sindacale come Maurizio Landini.
Altri esempi: recenti e passati
Il signor Fausto Scandola, dirigente della Cisl ha segnalato recentemente nomi, cognomi, stipendi e pensioni di un certo numero di dirigenti dello stesso sindacato. Per questa ragione è stato subito espulso dalla Cisl.
Nella tabella che segue ho raccolto le informazioni pubblicate dai quotidiani.
NOME | Funzioni | Compensi, euro/anno, lordi | Note |
Antonino Sorgi | Presidente Nazionale Inas Cisl | 256.000 | Tre incarichi cumulati |
Valeriano Canepari | Ex Presidente CAf Cisl | 289.241 | Pensione + Usr Cisl Emilia Romagna |
Ermenegildo Bonsanti | Segretario generale nazionale Fnp | 225,000 | (di cui 143.000 di pensione) |
Pierangelo Ranieri | Capo della Fisascat Cisl | 237.000 | Anche gettoni di presenza in Enasarco Moglie e figlio sono assunti in enti connessi a CISL |
Raffaele Bonanni | Quando era segretario generale della CISL | 336.000 | Somma aumentata vertiginosamente negli ultimi anni di lavoro (pensione retributiva) |
A differenza dai commenti diffusi in rete, non sono sorpreso dalla notizia. L’assenza di una legge che attui l’art. 39 della Costituzione (la CISL ne è uno dei più feroci critici) consente ai sindacati di pubblicare i loro bilanci, di non render conto delle loro attività ― né agli iscritti né ai cittadini. Trovo assai più preoccupante l’opacità della gestione dell’Inps. Questo è il maggior ente economico italiano (amministra oltre il 10% del Pil) ed è un ente pubblico. Solo grazie all’opera del suo neo presidente, l’economista Tito Boeri, sta lentamente diventando più trasparente.
Un’opera meritoria sarebbe rendere pubblica la gestione della legge 252/1974, detta legge Mosca dal cognome del suo proponente ― un parlamentare socialista, ex funzionario della CGIL. Poiché essa è stata finanziata con soldi pubblici, i cittadini italiani hanno qualche legittimo diritto a conoscere quanto è costata al loro portafoglio. Dodici miliardi di euro, stimano alcuni blog in rete. Non sono noccioline, come si dice in questi casi. Se ce ne fosse bisogno, questo è un buon esempio delle attività delle coalizioni distributive. Vantaggi limitati a pochi, garantiti dalla forza di una legge, costi addossati a tutti i contribuenti in modo opaco. Il M5S ha chiesto l’abrogazione di questa legge. Se volesse aumentare il suo consenso elettorale, il Presidente del Consiglio e leader del PD dovrebbe aderire alla proposta. A meno che questi costi non siano compresi nella voce “rottamazione”, di cui è stato ed è un paladino.
Una questione di metodo, per concludere
Rispondo in conclusione alla seconda domanda: questi fatti falsificano la teoria di Olson? Direi di no, per alcune buone ragioni. Anzitutto la teoria trova conforto da evidenze empiriche raccolte in diversi paesi, presentate in un bel libro dello stesso Olson e in molte altre occasioni. In secondo luogo, una teoria economica o sociologica non è una fotografia della realtà, quanto una sua stilizzazione e semplificazione, che tiene conto solo di alcuni aspetti, ritenuti rilevanti; non di tutti, e neppure della maggior parte. Una teoria è basata su concetti tipico-ideali: essi non forniscono descrizioni della realtà, ma servono piuttosto per comparare gli eventi reali con la situazione, per così dire, pura.
Infine: le spiegazioni (e talvolta le previsioni) che si possono ricavare da una teoria sociale sono probabilistiche. Se avvengono eventi contrari, che secondo la teoria non sarebbero dovuti accadere, occorre cercare le cause delle deviazioni dalla situazione ipotizzata. E’ quanto ho cercato di fare in precedenza. Si tratta di fattori causali tipici della situazione italiana. Non è un caso se il dibattito politico ha per oggetto da anni la riforma della Costituzione del 1948 e, più modestamente, l’attuazione dell’art. 39 della Costituzione: Non è un caso se mancano tuttora leggi che limitino l’influenza e il potere delle lobbies sul processo legislativo. Molti tentativi sono stati fatti in passato, nessuno è andato a buon fine.
La malattia è più grave di quanto generalmente si crede.
Riferimenti bibliografici:
- Baldissera, A. (2008), Proteggere Zeus da Chrónos: il futuro del lavoro nell’Italia contemporanea, “Quaderni di sociologia”, LI, 46, pp. 35-70.
- Baldissera, A. (1996), La rivolta dei capelli grigi. Azioni collettive in Italia e in Francia contro le riforme dei sistemi pensionistici, in N. Negri e L. Sciolla (a cura di), Il paese dei paradossi, Roma, La Nuova Italia Scientifica, pp. 53-116.
- Olson, M. (1984), Ascesa e declino delle nazioni, Bologna, Il Mulino.
- Olson, M. (1994), Logica delle istituzioni, Milano, Comunità.
- Regonini, G. (1985), Effetti non previsti del “patto previdenziale”, “Stato e mercato”, n. 14, pp. 307-320.
Contributo scritto per Hic Rhodus da Alberto Baldissera Negli ultimi trent’anni ha più volte descritto il ruolo delle corporazioni (che lui preferisce chiamare ‘coalizioni distributive’) e delle loro pratiche spartitorie nel declino economico, sociale e civile del nostro paese.