Dalla post verità alla post democrazia

Noi ne parliamo da tre anni (tanti ne compie Hic Rhodus) ma avere trovato un bel nomino ci fa piacere: post verità, nominata “parola dell’anno nientemeno che dall’Oxford Dictionary (ovviamente in inglese: Post Truth):

The concept of post-truth has been in existence for the past decade, but Oxford Dictionaries has seen a spike in frequency this year in the context of the EU referendum in the United Kingdom and the presidential election in the United States. It has also become associated with a particular noun, in the phrase post-truth politics.

Come scrive Annamaria Testa su Internazionale

Il termine “denota o si riferisce a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli a emozioni e credenze personali nel formare l’opinione pubblica”.

Cosa sarebbero questi appelli alle emozioni opposti ai fatti oggettivi? Sono le bufale, le mezze verità distorte ad uso politico, le argomentazioni farlocche sostenute da fallacie logiche e tutto quel fiume in piena di scandalo esasperato, di indignazione polemica e accecata d’odio, di certezze assolute fondate sul nulla che sta spazzando via ogni resistenza logica, realistica, argomentata e documentata con dati: dall’appello alla libertà di cura che nega le evidenze scientifiche sui vaccini agli insulti esasperati e immotivati a Boldrini, dalle boiate palesemente false sui profughi negli alberghi a quattro stelle alle ruspe come soluzione dei campi rom.

L’Oxford cita non a caso Brexit e Trump: è noto e assodato che moltissimi sudditi di sua Maestà hanno votato per la Brexit per andare poi, dopo, a cercare sulla Wikipedia il senso dell’EU e il ruolo che vi ha (aveva) la Gran Bretagna; è noto e confermato che Trump ha urlato una quantità di stupidaggini e falsità, che però non è bastato smentire puntualmente, volta per volta, perché la loro forza emotiva è bastata a portare Trump alla presidenza USA; e i politici hanno cominciato a capire che l’orchestrazione di falsità sul web possono danneggiarli gravemente. Ancora una volta ci ripetiamo segnalando che la post verità nasce, vive e prospera su Internet, e in particolare sui social media. Il fatto è che esiste un’industria dei falsi, con più di 300 siti (la metà in Macedonia) che hanno costruito una lucrosa serie di bufale (per esempio l’endorsement del Papa su Trump) che attirano lettori ingenui che le ripropongono su Facebook raccogliendo like e condivisioni per accumulare click sul sito e denari (fonte). Il ruolo dei social, in particolare Facebook, è preminente: ogni utente, coi propri like, indirizza il perverso meccanismo sottostante la piattaforma a mostrare pagine simili, utenti simili, proposte simili; l’utente, pian piano, si costruisce una rete di contatti omologata e omologante, in cui vive una forma di “verità” adatta a lui, in cui lui utente si riflette e viene riflesso esasperandone i tratti peggiori; elementi di razzismo, di intolleranza, di sfiducia, di rabbia, pian piano si amplificano nella spirale di reciproche condivisioni e conferme; Hossein Derakhshan, un attento osservatore di Facebook, ha scritto:

Facebook doesn’t want to challenge you, they don’t want to upset you, because they know that if you’re challenged on their platform, you wouldn’t want to use it as much. The very fact that you cannot show your reaction to anything you see on Facebook by saying that you agree or disagree or that it’s true or false and you can only show your emotions to it is very telling. (fonte)

Le emozioni dunque, più forti dei ragionamenti. Facebook, e in maniera diversa Twitter, guidano masse di utenti a unirsi nella pulsione umorale, accettando con enorme facilità e senza alcun impegno (anche questo è importante!) tesi discutibili ma “in linea” con l’umoralità del gruppo e dai membri di quel gruppo condivisa; falsi palesi ma in qualche modo considerati “plausibili”, oppure la cui falsità è giustificabile alla luce di un vago giudizio, solitamente di condanna, di una persona di potere, per cui è giustificabile dire male anche dicendo il falso.

Cultura debole, etica debole, poca logica; appartenenza al gruppo, velocità della rete, autocompiacenza dell’indignazione cospirazionista.

Questa valanga di distorsioni e falsità si espande velocemente mentre il racconto oggettivo delle notizie, incluse le smentite delle falsità, non riesce a penetrare nelle coscienze collettive:

quello che sta scritto sul New York Times è diventato meno rilevante di quello che riporta Breibart News (il sito di ultra destra e cospirazionista prodotto da Steve Bannon, nuova guida strategica della Casa Bianca trumpiana). La campagna elettorale americana è stata continuamente caratterizzata dalle bugie, quelle dette dai runner, quelle raccontate da sempre più improbabili – ma sempre più seguite – fonti di informazioni, spesso studiate apposta per infiammare i supporter (Emanuele Rossi, Post-Verità con esempi, “Formiche.net”, 20 Novembre 2016).

Ed ecco che ci addentriamo nel terreno della politica, ovvero in quello della nostra vita reale. Non si tratta più di “smanettoni” spregiudicati che dalla Macedonia cercano di fare soldi facili sulla pelle dei creduloni, ma di strategie di comunicazione che hanno imparato che i creduloni 2.0 sono più velocemente raggiungibili, più facilmente impressionabili, più stupidamente pronti a diventare veicolo di riproduzione del falso. Quanto questa situazione abbia concorso a determinare la Brexit e Trump ieri, e i risultati del referendum costituzionale domani, è impossibile da misurare, anche se certo. Voglio sottolineare comunque la premeditazione. L’odiosa costruzione del falso, con piena cognizione che lo sia, sapendo che correrà sul web condizionando le coscienze. Nell’opaca melassa dell’informazione attuale la post verità è una superfetazione del reale che domina lo sguardo, annichilisce la realtà sottostante, prende vita in sé resistente, vitale e durevole. Chi pratica il web 2.0 vede periodicamente tornare vecchie bufale, semmai appena adattate, buone per ogni stagione. Ma specialmente vede la minuziosa costruzione di notizie inserite in disegni, cornici, contesti grafici capaci di catturare l’attenzione assumendo, per le peculiarità grafiche, una sorta di aura di verità. Alcuni giornali non sempre di bassa lega a volte contribuiscono alla moltiplicazione della notizia divenuta virale, mentre le smentite hanno un effetto sostanzialmente insignificante.

Assistiamo in questi anni a uno strepitoso disallineamento fra il modello democratico universalista e l’incapacità diffusa a discernere il reale. La democrazia implica il concetto di dialogo e scambio informativo, e su questo pilastro abbiamo costruito due millenni abbondanti di percorso, ostacolato proprio da coloro che chiamiamo tiranni, che primariamente hanno impedito la formazione dell’opinione pubblica tramite fonti indipendenti e libere. Tali fonte esistono tuttora nel mondo occidentale ma sono sempre più oscurate da chi trae profitto, economico o politico, dalla circolazione di notizie false, ritenute credibili da moltitudini di cittadini che eserciteranno i loro diritti civili e politici in base alla visione distorta del mondo che sono costruiti acriticamente. E questo ci porta tristemente alla post-democrazia. Il termine è stato coniato nel 2004 da Colin Crouch che, nel libro Post Democracy, scrive:

41k253o6szl-_sx347_bo1204203200_Under this model, while elections certainly exist and can change governments, public electoral debate is a tightly controlled spectacle, managed by rival teams of professionals expert in the techniques of persuasion, and considering a small range of issues selected by those teams. The mass of citizens plays a passive, quiescent, even apathetic part, responding only to the signals given them. Behind this spectacle of the electoral game politics is really shaped in private by interaction between elected governments and elites which overwhelmingly represent business interests.

Se considerate la data di pubblicazione e considerate che, incidentalmente, quello è l’anno di fondazione di Facebook (Twitter arriverà due anni dopo), capirete che Crouch ha visto una realtà nascente e già grave che è stata semplicemente esaltata e moltiplicata grazie al Web.

La sintesi che possiamo trarre, alla luce delle considerazioni di Crouch, è che potrebbe essere sostanzialmente inutile confutare le bufale e lottare per il controllo delle fonti; la post democrazia si nutre di spettacolarizzazione e apparenze, mentre la politica e l’economia trovano altri spazi di negoziato e governo (come abbiamo già discusso su HR). In questo senso per larga fetta di elettorato il falso può meglio adattarsi alla “scena” politica immaginata; lo scontro assolutamente rituale e inutile dei talk show è una plastica rappresentazione di questa teatralità, di un’arena dove ciascun settore di pubblico sostiene i propri beniamini che si sfidano a colpi di invettiva senza produrre alcun ragionamento argomentato. È inutile combattere le bufale perché sono destinate a un pubblico che desidera quel tipo di messaggio, utile per solleticare vaghe emotività anti-sistema. La democrazia del terzo millennio, arrivata già stanca e con non poche criticità alla ribalta del mondo tecnologico e globalizzato, rischia concretamente un serio affondo finale, senza avere avuto il tempo di lasciarci un’eredità praticabile.