L’Italia, la Consulta e le sabbie immobili

Sono state recentemente rese note le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale relativa al cosiddetto Italicum, sentenza che ha in qualche modo suggellato la sconfitta del tentativo di riforme istituzionali del Governo Renzi. Per quanto, paradossalmente, questa sentenza possa non dispiacere a Renzi stesso, dato che crea uno spazio di trattativa a proposito della legge elettorale, guardando la situazione da un punto di vista più distaccato rispetto alle scaramucce politiche è evidente che si tratta di un ulteriore segno di quanto difficile sia cambiare l’Italia.

Intendiamoci: non ho nessuna intenzione di contestare in punto di diritto la sentenza della Consulta. Questo sia perché sarebbe un segno di temeraria presunzione da parte mia, sia perché sono convinto che la Corte abbia addotto delle ragioni plausibili, che vedremo brevemente, per la sua decisione. Proverò semmai a trarre qualche considerazione generale dalla sentenza stessa e dall’intera vicenda relativa alla riforma della legge elettorale e delle altre riforme più o meno riuscite del gabinetto Renzi.

Innanzitutto, un breve riassunto: l’Italicum, la legge elettorale proposta dal Governo Renzi e approvata dal Parlamento a maggio 2015, seguiva già a una sentenza di incostituzionalità della precedente legge elettorale (utilizzata per eleggere le Camere di questa legislatura), il famigerato Porcellum. È utile sottolineare che alcune caratteristiche del Porcellum a suo tempo giudicate incostituzionali (in particolare il premio di maggioranza) erano state riprese ma in una versione riveduta e corretta (nelle intenzioni del legislatore, almeno) appunto nell’Italicum. Altrettanto importante è che l’Italicum regolava solo le elezioni della Camera dei Deputati, in quanto i senatori, secondo la riforma costituzionale poi bocciata dal recente referendum confermativo, sarebbero dovuti essere rappresentanti delle autonomie locali e non eletti a livello nazionale.

Premesso tutto questo, sin dall’inizio l’Italicum è stato oggetto di una fiera opposizione, concretizzatasi in un certo numero di ricorsi presentati davanti a tribunali di diverse città a partire da Messina, tribunali che hanno poi, in diversa misura, ritenuto non infondate le ragioni dei ricorrenti e rinviato quindi la questione alla Corte Costituzionale. E la Corte ha effettivamente considerato incostituzionali alcuni elementi dell’Italicum, tra cui (e mi concentrerei su questo punto) il ballottaggio con premio di maggioranza.

Ebbene, cosa ci insegna questa vicenda? Innanzitutto è il caso di osservare che le motivazioni della Corte chiariscono che per la legge elettorale favorire la governabilità è un legittimo interesse costituzionale, ma che esso non può essere perseguito a eccessivo discapito della proporzionalità della rappresentatività rispetto al voto. Insomma, il ballottaggio in sé è legittimo, e un premio di maggioranza può esserlo; ma questa combinazione di ballottaggio, soglie di accesso e ammontare del premio di maggioranza assicurerebbe un vantaggio troppo grande e distorsivo alla lista vincente. Come ricorda la sentenza stessa, si tratta in realtà di un carattere di incostituzionalità non dissimile nella sua natura da uno di quelli già rilevati per il Porcellum. La sentenza aggiunge, inoltre, che la Consulta non può autonomamente «modificare le concrete modalità attraverso le quali il premio viene assegnato all’esito del ballottaggio» per renderle compatibili col dettato costituzionale, perché su questo il legislatore deve avere «ampia discrezionalità». Tradotto, significa che la Corte non solo non correggerà mai la legge, né dirà mai “se fate così, andrà bene”: bisogna procedere per tentativi ed errori. Oppure, ed è una prospettiva molto più realistica, rinunciare a introdurre in una legge elettorale strumenti per favorire il legittimo interesse costituzionale della governabilità: nessuno vorrà scottarsi di nuovo con un tentativo destinato a fallire.

Questo è il meccanismo da Comma 22 che così spesso s’innesca quando si tentano delle riforme in Italia: per ragioni sempre formalmente legittime, per via legale o sfruttando l’inerzia di un sistema-paese pachidermico, vengono cancellate, svuotate o diluite fino a renderle innocue per lo status quo. Le riforme sono necessarie perché il sistema è bloccato; ma il sistema bloccato ha in sé gli anticorpi che rendono virtualmente impossibile riformarlo.
Credo sia evidente che la stagione “renziana” ha portato ancor più in piena luce questo dato del nostro sistema politico-istituzionale, ma anche della nostra società: è quasi impossibile cambiare l’Italia. Dopo le timidezze del suo predecessore Enrico Letta, Renzi ha impugnato la spada di un Alessandro in sedicesimo menando fendenti sui nodi gordiani del nostro assetto istituzionale, lavoro, scuola, Parlamento, legge elettorale, Pubblica Amministrazione, non senza rischiare grossolanità e approssimazione. Gli errori, in qualche caso anche gravi (ad alcuni ho fatto cenno tracciando un sommario bilancio del Governo Renzi), si sono però sommati alle insidiose resistenze della “palude” italiana, in cui a ogni passo si è risucchiati da insondabili pozze di sabbie mobili, anzi direi sabbie immobili, capaci di inghiottire interi pacchetti di riforma indipendentemente dai loro meriti o demeriti. Cambiare non si può: i dirigenti pubblici, gli insegnanti, i magistrati, i senatori, i sindacalisti e quante altre categorie possono venirci in mente fanno leva sulle mille leggi e regolamenti che le “tutelano” e frenano ogni iniziativa, oppure danno vita a forme di ostruzionismo per vanificarne gli effetti.
In questo senso, sentenze come quelle della Corte sulla legge elettorale (ma anche quelle della stessa Consulta che ha azzoppato la riforma della Pubblica Amministrazione, quelle del TAR sulla riforma della scuola …) stanno ad attestare certamente le fragilità e i difetti dei provvedimenti di riforma, ma soprattutto la viscosità del sistema italiano. Correggere gli errori (e ce ne sono stati) nelle riforme è necessario; che questo avvenga sistematicamente con un ritorno alla Prima Repubblica è disastroso.

Forse le garanzie costituzionali, legali, giurisdizionali sono inutili? Ovviamente no; ma queste garanzie agiscono solo contro un certo tipo di rischi, derivanti da cambiamenti sconsiderati o distorsivi. Insomma: siamo protetti dal cambiamento, ma chi ci protegge dalla stagnazione? Nel mondo di oggi, ben diverso da quello del 1948, è davvero un possibile sbilanciamento del potere politico e dei suoi contrappesi il rischio peggiore che corriamo? O non è il progressivo svuotarsi dello stesso potere politico a favore di altre concentrazioni di potere, meglio adattate al frenetico tasso di cambiamento del mondo contemporaneo? Mentre noi siamo impantanati, e discutiamo quando tenere nuove elezioni che non daranno la maggioranza di governo a nessuno, intorno a noi tutto cambia.