In questi giorni, tra le sfide internazionali “a chi frena per ultimo”, il terrorismo, la Pasqua blindata (chi vive a Roma se ne sarà certamente accorto) ci sono due notizie apparentemente scollegate che gettano invece a mio avviso luce una sull’altra. Di queste, partiremo da quella che ha ricevuto più attenzione, perché ha visto tornare d’attualità la “crisi” (che crisi non si può chiamare, visto che è una condizione persistente e irreversibile) dell’Alitalia, con la consueta liturgia di piani di esuberi “irricevibili”, scioperi, trattative al tavolo del Ministero, rotture e accordi notturni in extremis. Se avete seguito distrattamente e vi sembra di avere un déjà vu, avete perfettamente ragione, perché sono almeno dieci anni che queste vicende si ripetono, tanto che è già stato da più parti chiarito che l’alternativa a questo “accordo” (che deve essere approvato dai dipendenti di Alitalia per essere definitivo) è il commissariamento dell’azienda, “in tutto e per tutto simile a quello già avvenuto nel 2008”. Minaccia non da poco, visto che quel commissariamento costò al paese più di un miliardo di Euro.
Ma in cosa consiste questo “accordo”? Può consentire davvero una soluzione del problema-Alitalia? Quali ulteriori costi avrebbe per chi in questi dieci anni è stato la vera vittima dell’incapacità di Alitalia di stare sul mercato, e cioè i lavoratori delle altre aziende, che pagano le tasse per finanziare Alitalia e che nel frattempo temono per i loro posti di lavoro, per i quali ben difficilmente i ministri passerebbero notti insonni? Vediamo.
Partiamo dalla condizione di mercato e finanziaria di Alitalia. Su questo, ci sono poche incertezze, anche nelle analisi degli addetti ai lavori: Alitalia non ha nessuna delle caratteristiche che possono consentire a una compagnia aerea di sopravvivere.

- Il “modello di business” di Alitalia non esiste. Per consenso comune, e ammissione dei suoi stessi vertici, Alitalia oggi non è né una compagnia “premium”, in grado di coprire in proprio le principali rotte a lungo raggio e dotata di una forte rete di alleanze per le tratte minori, né una “low cost”, in grado di essere competitiva sul breve-medio raggio. Come ha riconosciuto lo stesso Luca di Montezemolo, presidente di Alitalia sul punto di essere sostituito da Gubitosi:
Il vero problema di Alitalia dal mio punto di vista è il modello di business. Oggi Alitalia si trova a non essere né un low cost né una compagnia solo focalizzata sul lungo raggio. E’ un problema vecchio che va affrontato.
Verrebbe quasi da pensare che Montezemolo sia appena arrivato. Beato lui che ha fatto una bella dormita.
- Alitalia, come scrive un ben documentato analista, è anzi una compagnia “low fare” (ossia che è costretta a tenere basso il prezzo dei biglietti) ma non “low cost” (perché i suoi costi operativi sono invece quelli di una compagnia premium). Una combinazione ovviamente insostenibile.
- Peraltro, i costi del personale sono solo il 16,5% dei costi totali (dati 2015). I risparmi che deriveranno dalla “stretta” sul personale sono marginali rispetto a costi abnormi di gestione. Un’analisi molto puntuale del bilancio di Alitalia è stata pubblicata tempo fa su Avionews da Gaetano Intrieri, e inviterei tutti a leggerla; riporto qui solo due considerazioni: la spesa per la manutenzione è “almeno del 40% superiore a quella media del panorama internazionale”, e il costo di handling e assistenza passeggeri è “di circa il 20% superiore a quello che dovrebbe essere”. L’intera struttura di costi di Alitalia è fuori di ogni parametro di efficienza.
- E infatti i conti 2016 peggiorano le perdite già registrate nel 2015. I dati recenti di bilancio (per il 2016 sono stimati, perché Alitalia non si sta esattamente affrettando a emettere i dati ufficiali, e le stime più recenti parlano di 500 milioni di deficit anziché i 400 riportati qui sotto) mostrano tutt’altro che un miglioramento della gestione, e certamente nessun avvicinamento a quell’attivo di bilancio che le favole ufficiali del management annunciava appunto per il 2017. Qui sotto vediamo la cruda realtà:

C’è peraltro da tener presente che le perdite del 2015 erano state limitate da entrate straordinarie per dismissioni, e che nel 2016 i prezzi del carburante sono stati eccezionalmente bassi, altrimenti i numeri sarebbero ancora peggiori.
Ma, ci siamo tante volte sentiti dire da chi ci sfilava quattrini dal portafogli, può l’Italia fare a meno di una compagnia di bandiera? Non lo so, ma l’unica cosa certa è che Alitalia non è affatto una compagnia di bandiera (lo ribadisce lo stesso Montezemolo nell’intervista citata prima); guardiamo insieme il grafico qui sotto per rendercene conto:

Come si vede, Alitalia ha una posizione dominante solo su Linate e Fiumicino, aeroporti tra i quali ha l’esclusiva della (una volta) remunerativa tratta commerciale Milano-Roma, e una relativa prevalenza su Cagliari, dove vigono gli incentivi per la continuità territoriale. In tutto il resto d’Italia, il “servizio pubblico” è garantito semmai dalle Low Cost, Ryanair in testa, che oggi è il vero vettore nazionale italiano. E credo sia evidente che il “taxi” Milano-Roma, su cui il pessimo accordo costitutivo della CAI instaurò un ingiustificato monopolio, costituisce una nicchia ecologica e non un servizio che Alitalia garantisce alla collettività, specie da quando le ferrovie sono diventate più che competitive. Se Alitalia sparisse, la Milano-Roma sarebbe coperta da altri vettori, e il resto delle rotte italiane a stento ne risentirebbe.
Quanto al nuovo piano industriale, Alitalia ne ha diffuso solo dei sunti nei comunicati stampa. Vi si parla di una riduzione dei costi, in particolare su breve e medio raggio, con una serie di misure come un taglio alla flotta e un maggiore “affollamento” delle poltrone, per contrastare le Low Cost; di un taglio ai costi del personale; di un rafforzamento delle rotte intercontinentali molto ipotetico, visto che dovrebbe prevedere un prudente aumento degli aerei a lungo raggio finora tutto sulla carta. Il tutto dovrebbe essere finanziato da 2 miliardi di Euro, di cui 900 milioni a carico di Etihad e il resto a carico delle solite banche (Intesa, Unicredit, Poste) teoricamente creditrici e in realtà “debitrici” delle aziende dissestate.
Infine, l’accordo raggiunto faticosamente nottetempo e che dovrà essere confermato dai dipendenti prevede:
- 980 esuberi (dai 1338 inizialmente dichiarati dall’azienda), con due anni di CIGS a carico dei contribuenti;
- Riduzione dell’8% degli stipendi del personale viaggiante;
- Garanzia pubblica, tramite Invitalia (che dovrebbe finanziare startup innovative e non cadaveri), su 200 milioni dei nuovi crediti che le banche concederanno.
Ora, diciamolo tranquillamente: a questo piano industriale, a maggior ragione come “limato” dalla trattativa, non crede nessuno. Lo ha scritto con chiarezza il Sole 24 Ore: i risparmi sulle voci diverse dal costo del lavoro sono aleatori, mentre gli incrementi di ricavi necessari per risanare il bilancio sono poco meno che fantasiosi, e la crescita delle tratte intercontinentali è una velleità poco credibile per una compagnia che in realtà negli ultimi anni ha fatto cassa vendendo gli slot più pregiati. Si tratta semplicemente della solita tattica dilatoria per tenere in piedi un altro po’ l’azienda finché non sarà stata bruciata anche questa ricapitalizzazione, con enormi costi diretti e indiretti per i cittadini (secondo voi, i soldi che le banche perderanno in Alitalia chi li pagherà?).
Da un punto di vista “storico”, peraltro, un’analisi dei danni prodotti da Alitalia per le casse dello Stato era stato prodotto circa due anni fa da Mediobanca, in uno studio che in sintesi stimava a fine 2014 in 7,4 miliardi di Euro gli esborsi pubblici diretti causati da Alitalia. Quando ne avremo abbastanza?
L’unico vero asset distintivo di Alitalia è la sua capacità di abbeverarsi alle arterie dei contribuenti italiani. Questa è la semplice verità. Lo stesso studio di Mediobanca, che ovviamente non tiene conto delle ulteriori perdite accumulate da Alitalia nei due anni della gestione Etihad, osserva che nei 34 anni precedenti l’amministrazione controllata del 2008 per ben 20 volte il bilancio annuale si è chiuso in deficit. Forse è arrivato il momento di interrompere questa gloriosa tradizione.
Ma, direte voi, qual è la seconda notizia di cui parlavo all’inizio di questo post? Si tratta purtroppo di una conferma: la produttività del lavoro in Italia nel 2016 è calata di ben l’1,2%, un unicum in Europa e nell’OCSE se guardiamo ai dati aggregati che ci dicono che, posta a 100 la produttività italiana nel 2000, a fine 2016 eravamo scesi a 94,5 (il grafico qui sotto è relativo ai dati dal 2010, e di nuovo l’Italia è l’unico paese dove c’è un calo). In realtà è questo il singolo dato più inquietante per l’economia italiana, nonostante che se ne parli relativamente poco fuori dagli ambienti economici (avete mai visto un sindacato scioperare per chiedere più produttività? Eppure il modo migliore di tutelare i posti di lavoro sarebbe quello). Le cause sono molte, a partire dalla scarsità di investimenti in innovazione e tecnologia, per proseguire con la palla al piede rappresentata da burocrazia soffocante e incertezza delle regole.

Ma altrettanto certamente un ottimo modo di perdere produttività è mantenere in vita aziende che distruggono ricchezza anziché crearne, e Alitalia ne è forse l’esempio più eclatante. Proviamo a fare un confronto tra i dati 2015 e quelli del 2007, annus horribilis che ha poi condotto al commissariamento di cui abbiamo parlato:

Si vede a colpo d’occhio che nonostante un calo significativo dei costi medi del personale il bilancio non è granché migliorato, e in particolare il ricavo medio per dipendente è fortemente calato, perché Alitalia ha dovuto abbassare i prezzi e ha ridotto le sue attività in una spirale discendente dalla quale non uscirà certo riducendo ancora i costi del personale.
È chiaro che per un paese a bassa produttività non c’è operazione più assurda che prendere 200 milioni di Euro destinati agli scarsi investimenti in imprese innovative e ad alta tecnologia e gettarli nella fornace di Alitalia.
Insomma: l’unica “soluzione” per Alitalia è un provvidenziale paletto di frassino. E a piantarlo nella carcassa di quest’azienda fasulla dovrebbero essere i cittadini-contribuenti-viaggiatori che, nelle tre vesti, hanno pagato i costi politici, economici e di qualità del servizio per mantenere in fittizia vita l’alato vampiro. Dobbiamo esigere dai nostri politici che Alitalia venga liquidata (non commissariata: liquidata), e che le risorse economiche e produttive del Paese vengano indirizzate verso settori e aziende produttivi e profittevoli.