Luigi Mascheroni scrive un lungo articolo polemico contro gli intellettuali, sul Giornale.
Per anni ci hanno fatto credere che la casta peggiore in Italia fosse quella dei politici (prima ladri, corrotti, disonesti; oggi ignoranti, incompetenti, volgari). E se invece fossero gli intellettuali?
L’articolo è lungo e dettagliato, e propone esempi di ben noti intellettuali “di sinistra”, come per esempio Saviano:

Bestselleristi da prime time e tribuni duri&puri, che la mafia è solo cosa loro. Roberto Saviano fino a ieri si vantava di aver pisciato sui letti dei Casalesi, però oggi sfotte Salvini perché presenzia all’abbattimento delle ville dei Casamonica. La malavita è sempre quella degli altri.
Oppure Cacciari:
Politologi da prima pagina e filosofi dell’ultima parola: è anni che mentre sfaccendiamo per casa con la tivù accesa sentiamo Massimo Cacciari che urla in sottofondo, non si sa in che trasmissione, non si sa a proposito di che cosa, ma urla, accusa, ce l’ha sempre con qualcuno: cretini quelli degli altri partiti, quelli del suo, quelli che ci governano, tu che sei governato, tutti. Tranne lui. Pars destruens: 10. Pars costruens: zero.
E poi Albinati, Veronesi, De Bortoli, Murgia, Serra e via discorrendo. Ma oltre al repertorio di giornalisti e opinionisti, c’è una tesi di fondo che possiamo riassumere così, con un collage di parole di Mascheroni:
Presuntosi, arroganti, autoreferenziali. […] quegli intellettuali, non vogliono riflettere. Vogliono solo insegnarti. A vivere, a pensare, a votare. Ma ormai non hanno più autorevolezza, credibilità, capacità di vedere le cose. Non c’è un intellettuale fra quanti oggi urlano contro populismi e sovranismi che abbia immaginato, quando fu varato l’euro, che l’Europa avrebbe potuto non essere quella che sognavamo, ma che ci attendeva il raddoppio del costo della vita e il dimezzamento del potere d’acquisto delle famiglie. E ora, per uscirne, ci dicono: «Non serve meno Europa, ma più Europa». Senza vergogna. […] Non leggono nulla, si citano a vicenda, reputano giusto solo ciò in cui credono. Soprattutto non ascoltano. Anche l’autocritica, quando raramente si manifesta, è sempre orgogliosa per sé, umiliante per gli altri. […] Non cambiano mai. Meravigliosi nei loro alti commenti pieni di sdegno verso i rappresentanti del popolo. Altezzosi quando pretendono di parlare in nome di un Paese che non conoscono. Prevedibili quando ti spiegano lo ha fatto qualche giorno fa sulla Stampa Alessandro Piperno, scrittore solito elegantemente lontano da politica e banalità – che il successo dei partiti sovranisti è dovuto al fatto che «gli italiani hanno bisogno di trivialità, franchezza becera, tracotanza». Ah, les Italiens… Quando votano a sinistra sono virtuosi, intelligenti, responsabili. Quando non la votano più, nel giro di una tornata elettorale sono già rozzi, incolti e mezzi criminali.
E’ inutile cercare appigli, provare ad argomentare i torti di Mascheroni, perché non ne ha. Mascheroni ha ragione non una ma dieci volte. E io, intellettuale, cosa faccio? Esprimo il mio parere sul blog, spero non altezzoso ma certamente ricco di autoreferenzialità, orgogliosa autocritica e senza alcun dubbio una discreta altezzosità. E non sono per nulla sarcastico. Gli intellettuali hanno sempre, nei secoli, rappresentato un corpo estraneo al popolo; distante, odiato o quanto meno inaffidabile… Potrei proporvi un divertente florilegio, da Shakespeare a Manzoni, che mostra in quale considerazione siano sempre stati tenuti, dal popolo, i letterati, quelli che sapevano leggere e scrivere, i legulei, gli amministratori, i rappresentanti dell’autorità, financo il clero col suo latinorum. E poi ce l’ha spiegato Gramsci, molti meridionalisti che hanno documentato l’Unità d’Italia. Ma anche non pochi intellettuali antifascisti, da Gobetti a Rosselli… Gli intellettuali sono, sempre, inevitabilmente, rappresentati più o meno come Mascheroni ha descritto.
Sono chiamato in causa e quindi propongo alcune riflessioni, abbastanza disordinate:
- innanzitutto dobbiamo chiarire chi siano gli ‘intellettuali’. Perché resta un concetto vago se non si fa – come Mascheroni – un elenco rappresentativo; quello di Mascheroni è di giornalisti e opinionisti, ovvero gente che scrive con [presunta] autorevolezza sui giornali (oltre a libri, oltre a presenze frequenti in TV…). Questa, a mio avviso, è una rappresentazione ristretta del concetto. Non errata, ma ristretta. Perché non aggiungere anche i professori universitari? Cacciari, per esempio, è un accademico (anche Mascheroni), e diversi polemisti e commentatori italiani lo sono: Panebianco, Sartori, Becchi, a metà fra accademia, politica e scrittura, ovviamente. Poi si dovrebbero aggiungere molti importanti esponenti delle cosiddette arti liberali, gli artisti, i politici, l’alta dirigenza della pubblica amministrazione… Non usano, tutti costoro, il loro intelletto per agire nell’agone pubblico, per condurre e dirigere il Paese, determinarne le fortune o le disgrazie, orientare la pubblica opinione? Certo non tutti scrivono sui giornali, pochi vanno in TV e i più sono ignoti al grande pubblico, ma si tratta di differenze di gradazione, non di differenze sostanziali nel modo col quale interpretano la loro missione, di costruttori (di impresa, di scienza, di arte, di idee), di conduttori, leader, in ogni caso (in ogni caso) di pensatori. In un post di un po’ di tempo fa allargavo ancor più il concetto: insomma, chi usa la testa, chi pensa, chi si confronta, discute, argomenta (ecco: soprattutto argomenta) è un intellettuale.
- Il pensiero porta come inevitabile conseguenza la distanza. La critica. La visione alternativa (giusta o sbagliata). E più questo pensiero è elaborato, ricco, complesso, e più aumenta la complessità argomentativa, l’articolazione del linguaggio, l’uso di concetti anche astratti. E ciò amplia, a volte irrevocabilmente, la distanza fra popolo che sente e intellettuale che sa (o crede di sapere), come ho spiegato in maniera abbastanza circostanziata QUI. Non c’è nulla da fare: se io possiedo più parole (e più concetti) esprimo pensieri più articolati difficilmente condivisibili con chi tali parole non possiede, e lo disse 50 anni fa già don Milani (un intellettuale!), in qualche modo. L’intellettuale sa di sapere, e vede con disperazione che non viene compreso. L’ignorante non sa, se non vagamente, di non sapere, ed è seccato dai sofismi intellettualoidi di chi ha la pretesa di insegnargli qualche cosa (che poi non è quasi mai qualche cosa di pratico, che su questo piano gli intellettuali perdono alla grande).
- Questa distanza aumenta nello scorrere del tempo, e ha un picco – una vera e propria frattura – con l’emergere della società complessa, dove gli intellettuali riescono a ritrovarsi mentre il popolo si perde, si impaurisce, si smarrisce. E la distanza diventa visibile, e incute disprezzo. Se l’intellettuale manzoniano era l’azzeccagarbugli temuto e odiato, quello odierno è un marziano che appare privilegiato quanto inutile, puntiglioso e saccente, professorale e alieno. Ecco perché una Castelli qualunque può permettersi di ribadire a un’argomentazione corretta di Padoan, con un “Questo lo dice lei!”. È l’avversione alla competenza, l’ignoranza che cerca un riscatto, i Pierini mediocri che rivendicano la loro uguaglianza; falsa, illusoria, miserabile, ma viene rivendicata come reazione non tanto agli intellettuali in sé, ma alla incomprensibile complessità sociale della quale sembrano portatori e protagonisti quegli intellettuali che tentano di spiegarla.
- La conclusione riguarda la conseguenza drammatica di questo iato. È vero che gli intellettuali vivono in un mondo loro, è vero che non sanno parlare al popolo, è vero che spesso sbagliano, è vero tutto, tutto quello che descrive Mascheroni e molto di più. Non può che essere così per mille ragioni. Ed è vero, oggi, che il popolo (uso ‘popolo’ in senso archetipico) vive di vitalismo, improntitudine, approssimazione, con una nuova sorgente mitologia sul popolo sovrano, sano, bello, capace, saggio e, specialmente, antiscientifico, illogico, privo di comprensione delle conseguenze dei propri atti. La frattura si amplia, e nell’ampliarsi trascina una nazione allo sbaraglio. Gli intellettuali vedono lo sfascio, il disastro verso il quale ci dirigiamo, ma se lo indicano vengono derisi, insultati, minacciati. Gli intellettuali non sanno cambiare linguaggio. Il popolo non vuole imparare ad ascoltare. Entrambi vivono in mondi separati.
Ma una società equilibrata e sana non funziona, così. Gli intellettuali sono la mente di una nazione vitale, sono ascoltati e compresi; sbagliano, non sbagliano, non è questo che importa. La funzione dell’intellettuale non è avere ragione ma favorire la costruzione di pensiero; argomentare non tanto per le conclusioni cui tale argomentazione arriva, ma perché il processo argomentativo favorisce lo sviluppo di idee, di apprendimento, di conoscenza, di apertura. Gli intellettuali sono il sale di una nazione. Senza di essi (meno presuntuosi se possibile; più autocritici magari; meno inaccessibili, grazie…) un Popolo è destinato al declino.
E questo è quanto sta accadendo in gran parte del mondo occidentale e, specialmente, in Italia.