La tragica incomprensione fra popolo che sente e intellettuali che sanno

pifferaio

Ci accusate, sarcastici, di ritenere imbecilli tutti gli uomini eccettuati noialtri. No: qui c’è un po’ di esagerazione. Non siamo pessimisti fino a questo punto. Noi, qui, siamo una dozzina d’intelligenti contro parecchi milioni d’imbecilli. Ma non è detto che nel mondo non ci siamo altro che noi a capire e a sentir qualcosa (Giovanni Papini, Franchezza con gli imbecilli, 1913).

In un precedente post ho spiegato le differenze fra avere un’opinione e avere delle competenze. Era necessario perché la cronaca politica ci propone con insistenza una specie di primato di opinionisti privi di competenze che vogliono governare il paese proprio in virtù di tale incompetenza, vale a dire proclamando più o meno chiaramente che competenza = collusione col peggior potere, competenza = intellettualismo becero al soldo dei nemici, competenza = tradimento del popolo, che con la (presunta) onestà e le tonnellate di buon senso di cui dispone ne ha d’avanzo per guidarci dentro o fuori l’Euro (vedi Brexit e argomenti utilizzati dai Leaver), con o senza Erdogan, pro o contro Clinton, sì o no alle Olimpiadi e via aggiungendo. Se avete letto il precedente post (se non l’avete fatto potete rinunciare perché è noiosissimo) avete ben chiaro che qui a Hic Rhodus si predilige la competenza. Non vogliamo rinunciare alle nostre opinioni, evidentemente, né pretendiamo che voi rinunciate alle vostre, ma riteniamo che siano una cosa diversa. Tutti si tengano le opinioni che pare a loro, ma le decisioni, le scelte fondamentali, gli interventi strutturali, le politiche pubbliche e tutto ciò – semplificando – che ha ricadute e conseguenze materiali, a volte severe, sulla nostra vita, non può essere affidato a un non meglio precisato “buon senso”, al “l’ho letto su Internet”, al “lo dice anche Fiorella Mannoia” e neppure al “un vero compagno (o un vero camerata, secondo il vostro orientamento) direbbe certamente così e non cosà”.

Uno dei mali fondamentali del populismo (non l’unico, ma certamente uno dei più gravi) è proprio l’azzeramento delle competenze a favore del generico buon senso popolare. Il termine |populismo| significa proprio questo: esaltare le virtù del popolo e ritenere che esse siano bastevoli a guidare i destini di una comunità, di una nazione.

noi siamo convinti che una sconosciuta casalinga che cresce con affetto e intelligenza i propri figli e gestisce con buon senso il bilancio familiare sia un amministratore migliore di un importante chirurgo col “vizietto” della politica (Movimento BoiaDè di Livorno, clone dei 5 Stelle – Fonte)

Abbiamo abbondantemente spiegato su queste pagine perché così non può essere, e salto avanti ricordando – per chi ha voglia di leggere – i post precedenti:

  • Dall’uguaglianza al populismo: il concetto di uguaglianza diventa, col populismo, un’omologazione dell’”uno vale uno” che, oltre a essere improponibile nella realtà, risulta essere semplice facciata propagandistica;
  • Dall’indignazione all’antipolitica: l’indignazione contro il generico potere è la base fondante dell’antipolitica, vero humus del populismo;
  • Democrazia diretta. Da chi?: impossibilità pratica della democrazia diretta, grande illusione populista.

Vorrei segnalare che l’abisso che divide i sostenitori di competenza, merito, attenzione alla complessità, necessità della logica contro la demagogia da un lato, e sostenitori delle qualità del popolo, della semplificazione basata sul buon senso, della legittimità delle opinioni e del corrispondente sospetto verso “gli intellettuali” è storia antica. Il popolo ha sempre visto con sospetto le persone di cultura e l’Azzeccagarbugli manzoniano è la classica macchietta dell’imbroglione colto che circuisce il popolo ignorante. Sul finale dei Promessi sposi, Renzo mostra di avere ben imparata la lezione:

Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura […]. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri […] e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacchè la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro.

Il leggere e lo scrivere come birberia attraversa la storia recente dell’Occidente; troviamo splendide rappresentazioni di ciò in Shakespeare, Dickens, Zola, Hugo, Dostoevskij e numerosi altri che hanno descritto la nascita della società moderna di cui la borghesia (e i suoi intellettuali) sono stati l’ossatura. La letteratura è una spettacolare fonte di indagine sociologica, solo a volerlo! E comunque un bel po’ di anni fa, ben prima dell’avvento di Internet, mi trovai a realizzare uno studio sociologico sul rapporto fra adulti e lettura, per scoprire che per non poche persone il leggere libri era un indicatore certo di malafede e propensione all’imbroglio.

D’altronde, che l’intellettuale abbia un rapporto funzionale con le classi dominanti è stato ben analizzato da Antonio Gramsci, che ad esso contrappone l’intellettuale organico alla classe operaia, vale a dire un intellettuale altrettanto schierato, sia pure dall’altro lato della barricata. Scrive comunque Gramsci:

L’elemento popolare “sente”, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale “sa”, ma non sempre comprende e specialmente “sente”. I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, anzi; la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo e la demagogia più sfrenati. L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed esser appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il “sapere”; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporto di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (così detto centralismo organico). Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti – tra governanti e governati – è dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita di insieme che solo è la forza sociale; si crea il “blocco storico” (A. Gramsci, Il materialismo storico).

Credo che dobbiamo riflettere su questo passo gramsciano e su questa sostanziale irrecuperabilità della distanza fra intellettuali e popolo. Solo così riusciremo a comprendere meglio la scelta complicata fra intellettuali tecnocrati che sanno e popolo ignorante che “sente” e per ciò stesso sproloquia; due mali antitetici di cui il secondo è infinitamente peggiore perché quello stesso popolo che sente o crede di sentire è facile preda degli Azzeccagarbugli contemporanei, capaci di fuorviare facilmente anche con l’aiuto fondamentale di Internet.

Con queste premesse, e senza una risposta, voglio segnalare che il problema della competenza diventa centrale in una democrazia occidentale a suffragio universale in cui tutti i cittadini sono chiamati a esprimersi su problemi che coinvolgono il paese senza avere la possibilità di comprendere appieno le questioni sulle quali votare.

Prendiamo la Brexit, ovvero l’uscita del Regno Unito dall’Unione, oggetto di referendum il 23 Giugno. Sul fatto che sarà un disastro, in particolare per i britannici, non ci sono dubbi a livello internazionale; ci sono decine di studi serissimi che lo testimoniano (qualcuno lo indicammo anche noi in un vecchio articolo, ora ne trovate facilmente di più); contrapposti a questi studi (redatti da celebrati studiosi, non da giornalisti di serie B) c’è una quantità di opinioni pigre e genericamente impaurite (così Forbes), gente contrariata dalle regole di Bruxelles (Economist), che considera l’Eurozona una palla al piede per l’UK, con troppo strapotere tedesco (Lianna Brinded su Business Insider). In generale le ragioni pro uscita hanno un generico fondamento veritiero (chi non è contrariato dallo strapotere dell’ottusa burocrazia europea?) bastevole a dare una cornice giustificativa al malessere, alla generica contrarietà ispirata semmai a vecchi valori nazionalistici, all’ignoranza sulle conseguenze, non valutate nel loro tragico quanto probabile effetto. Il voto sulla Brexit ha ignorato esperti e studiosi come anche gli uomini d’affari (cuore dell’economia britannica) che minacciano esplicitamente di andarsene, ed è stato invece affascinato dai Farage che soffiano sul fuoco del malcontento.

Ecco, la Brexit è un bellissimo caso di studio per osservare come la razionalità non guidi affatto l’agire sociale; e come gli intellettuali non siano in grado (mai stati, per la verità) di indicare la strada. Il popolo sente il fastidio procurato dall’Unione Europea e ignora le indicazioni di chi sa che è necessario restare dentro.

Lo stesso accade con il referendum costituzionale in Italia, di cui trovate già diverse pagine qui su HR. Lo stesso accade – con l’aggiunta di altri fattori che complicano l’analisi – per le assurde credenze degli anti-vaccinisti. Lo stesso accade sempre, e di regola, ogni qual volta il sentire del popolo si contrappone al sapere dei dotti. Chi sarebbero poi, costoro, per volerci impedire di sentire come pare a noi? Per imporci i vaccini? Per imporci la riforma costituzionale? Per imporci l’Europa? Per pretendere che l’uomo sia sbarcato sulla Luna, che sabbiamo benissimo che è stata tutta una montatura?

Nota marginale aggiuntiva: fra la scrittura di questo post e la sua pubblicazione sono apparsi alcuni articoli di intellettuali fulminati sulla strada del popolo. Pierluigi Battista, sul “Corriere della Sera” del 26 Giugno, scrive a proposito de L’arroganza delle élite che criticano la Brexit scagliandosi contro i commentatori anti-Brexit definiti spocchiosi elitisti che non intendono accettare la vera democrazia. Gli fa eco Ernesto Galli della Loggia, sempre sul “Corriere” del 29 Giugno con Gli intellettuali europei lontani dall’opinione pubblica che, criticando altri autori anti-populisti, sostiene il diritto popolare a dire la sua contro un’Europa che non piace e non può piacere, proprio in barba agli intellettuali che l’hanno fatta diventare quella che è. I due (appartenenti all’élite intellettuale, sia chiaro) si sono persi; confondono oggetto e sua manifestazione, soggetto e sua prassi. Una cosa è affermare che il popolo sia titolare di diritti (incluso il diritto al dissenso e a dire stupidate) e altra cosa è affermare che per ciò stesso il popolo abbia ragione. Ai due autori (come a molti altri) sfugge la lezione gramsciana ricordata sopra: il fatto che il popolo “senta” (e semmai soffra, e possa esigere, e abbia pure ragioni a giustificazione della sua confusione) non significa che abbia ragione. La ‘ragione’, se esiste, non è frutto di sentire ma di sapere. E se gli intellettuali ‘sanno’ in maniera non empatica, non carismatica, non capace di “farsi sentire”, questo può essere un guaio, anche una colpa, ma non una giustificazione. È in questa storica aporìa che si attraverseranno le sfide, sempre più pungenti, dei prossimi anni e decenni. Speriamo che gli intellettuali siano più umili e il popolo più sapido.

Articoli pertinenti su Hic Rhodus: