Nel 1903 George Bernard Shaw scriveva:
Un rivoluzionario è colui che desidera scardinare l’ordine sociale esistente per provarne un altro. La costituzione (inglese) è rivoluzionaria (…) un’elezione generale è una rivoluzione proprio come lo è un referendum o un plebiscito in cui il popolo combatte anziché votare. La Rivoluzione Francese rovesciò una serie di governanti e la sostituì con un’altra con punti di vista ed interessi diversi. Questo è ciò che il popolo inglese può fare ogni sette anni, se lo desidera. (…) Chiunque è un rivoluzionario nei confronti della cosa che capisce. Ad esempio, chiunque abbia padronanza di una certa professione è nei confronti di essa uno scettico e quindi un rivoluzionario.
(The Revolutionist’s Handbook and Pocket Companion, da Man a Superman. A Comedy and a Philosophy)
Su questa base, in cui le parole chiave sono “capire” e “padroneggiare”, intendo portare due esempi che sostengono la mia ormai radicata convinzione che in Italia un reale cambiamento sia, al momento, una pia illusione, in quanto dipendente dagli umori di un elettorato che ritiene che gli slogan, quanto più mirabolanti e degni del Circo Barnum tanto meglio, siano anche dei programmi politici realizzabili e che ormai da una ventina buona di anni è stato ammaliato da una serie di urlatori, imbonitori e pifferai di Hamelin di vario colore che hanno fatto della competenza un disvalore. Cominciamo.
Primo esempio: l’Autonomia per Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Si tratta di un cavallo di battaglia della Lega, di quelli che piacciono alla base storica del partito, base che non vede di buon occhio la svolta statalista e le strizzate d’occhio al Meridione di Matteo Salvini. In previsione delle ormai prossime elezioni la grancassa mediatica della Lega dà risalto alla ormai prossima concessione dello statuto di autonomia a tre delle più ricche regioni italiane. Senza entrare nel merito dei vantaggi, dei fondamenti, dell’attualità o meno degli Statuti Speciali, né tantomeno dei danni causati dalla sciagurata riforma Bossi-D’Alema del Titolo V della Costituzione, mi pare ragionevole ritenere che molti se non la maggioranza di quel 98,1 % di Veneti (affluenza al 57,2%) e 95,3% (affluenza del 38,25%) di lombardi che hanno votato a favore dell’autonomia si aspetti il rapido realizzarsi di un radioso destino il cui riferimento è, ovviamente, quello della Provincia di Bolzano, oasi di benessere ed efficienza invidiata-vituperata dal resto d’Italia. Le condizioni economiche indubbiamente ci sono, ma forse sarebbe bene tenere presente che per dare attuazione a quanto previsto dallo Statuto di Autonomia è stato necessario definire 137 provvedimenti pratici. Tale processo è iniziato nel 1973 e nei suoi tratti fondamentali si è concluso nel 1992, diciannove anni dopo, con 94 provvedimenti attuati per mezzo della modifica dello statuto regionale del 1948 per via costituzionale, 8 con norme di attuazione previste dallo statuto regionale, 15 con legge statale, 9 con semplici decreti, e il resto con atti amministrativi, la cui attualizzazione e aggiornamento continuano, ovviamente fino ad oggi (per chi fosse interessato, qui l’elenco completo: http://www.consiglio-bz.org/it/banche-dati-raccolte/norme-statuto-autonomia.asp#accept-cookies). Vivo a Silandro, 28 km a nord-ovest di Merano, dal 1982, e posso testimoniare che il grande balzo in avanti, quello che ha fatto di questa provincia quello che è, è iniziato proprio nel 1992 (non che prima si stesse male, per carità, ma senz’altro il livello generale dei servizi e del tenore di vita, anche in termini relativi, era diverso). Quanti ci hanno pensato? Quanti hanno considerato che il famoso federalismo fiscale può dare gli agognati effetti a patto che 1. l’amministrazione sia efficiente e 2. Che l’evasione fiscale sia bassa? A titolo di esempio, dal 1992 l’87% del gettito fiscale prodotto in Alto Adige spetta direttamente alla provincia, che poi versa allo Stato il 0,6% degli interessi relativi al debito nazionale come contributo al risanamento del deficit pubblico (pari a circa 500 milioni di euro l’anno), mentre la Regione Siciliana trattiene o dovrebbe trattenere la totalità delle imposte esatte sul suo territorio e in più, così come stabilito dall’art. 38 dello Statuto della Regione Siciliana, ogni anno lo Stato Italiano sarebbe tenuto a fornire un ammontare da stabilirsi, con piano quinquennale, di denaro pubblico proveniente dalle altre Regioni: e non aggiungo altro. Davvero, quanti hanno fatto queste considerazioni e quanti, invece, si limitano a credere che basterà aggiungere “Autonoma” dopo “Regione” per vedere risolti di punto in bianco i problemi e ridistribuita virtuosamente la ricchezza? Quanti hanno idea del tempo necessario a definire e mettere a regime le procedure necessarie per far sì che competenze che fino a ieri facevano capo allo Stato passino alla Regione senza soluzione di continuità e caos amministrativi? Quanti hanno idea del tempo necessario perché il cambiamento cominci a fare effetto? In tutti i casi, la risposta credo che sia “solo una minoranza, e ancora meno sono quelli che hanno provato, e sono riusciti, a fare delle valutazioni realistiche. Pronostico: incomprensione, insoddisfazione, delusione, tempo e risorse buttati, un passo avanti e due indietro, terreno fertile per il prossimo Masaniello imbonitore.
Altra situazione che mi viene in mente, quando si tratti di discutere sul fatto che per rivoluzionare (che è cosa diversa dal far casino) bisogni capire e padroneggiare è l’entusiastica attesa per la possibile maggiore liberalità nella vendita di armi da fuoco, che emerge ogni qual volta si parli di legittima difesa e di sicurezza. Anche qui, non entrerò nel merito del discrimine fra legittima difesa, eccesso di legittima difesa, discutibili sentenze per cui non solo uno che spara a un ladro che gli è entrato in casa per rubare viene condannato a risarcirne la famiglia, ma l’importo del risarcimento è più del doppio del premio assicurativo previsto per un soldato che muoia in servizio in operazioni, dal che si ricava che la vita di un ladro vale due volte la vita di un soldato (è successo, è successo…), percezione del pericolo vs. reale entità dei reati, disquisizioni francamente stucchevoli con il senno del poi sul tema di “ma era un’arma giocattolo!” (abbiate pazienza, ma a meno che uno non sia così imbecille da lasciarci il tappo rosso se mi punti addosso un’arma io quello che vedo un’arma). Dal momento che sono un ex-Ufficiale in servizio permanente di Artiglieria, che ho maneggiato armi nazionali ed estere per quasi 40 anni e che sono qualificato “Tiratore Scelto” secondo gli standard dell’Esercito degli Stati Uniti e della Bundeswehr tedesca, mi limiterò a dire un paio di cose sul maneggio delle armi, in particolare delle armi corte, o pistole, che chiunque mediti di acquistarne una dovrebbe avere presente. Vi è una notevole differenza fra il tiro sportivo, accademico, nella classica posizione di ¾ con il braccio teso e l’occhio socchiuso, e il tiro dinamico, specie in situazioni di rischio. Il bersaglio si muove e (particolare non trascurabile) spesso reagisce, si è concitati, i tempi di reazione sui quali decidere sono infinitesimali. La posizione del “poliziotto” (gambe leggermente divaricate e flesse braccia tese, ma non rigide, mano sinistra sotto l’impugnatura della pistola a sostenere la destra che impugna il calcio) è tutt’altro che naturale e si acquisisce solo con lungo e costante allenamento. A causa della corta linea di mira (la distanza fra tacca di mira e mirino) e delle modalità di impugnatura una pistola, oltre i 15-20 metri di distanza dal bersaglio, è intrinsecamente imprecisa. Per tutti questi motivi, quando si spara in un conflitto a fuoco non si spara a una gamba, o a un braccio: si spara al “bersaglio grosso”, vale a dire il torso, mi dispiace ma è così, è quello che riesci a mettere a fuoco i quelle situazioni (fermo restando che una pallottola in una spalla o in un ginocchio è suscettibile di menomare per sempre la funzionalità di tali complesse articolazioni e che una in una coscia ha ottime probabilità di recidere l’arteria femorale, per gli aspiranti Callaghan che hanno visto troppi film di Ringo). In un conflitto a fuoco in una strada cittadina o in un quartiere urbano non è che i buoni stiano di qua e i cattivi di là in una zona sgombra di passanti e indossino uniformi diverse che li rendano distinguibili. Senza contare poi che il proiettile di una pistola può essere letale anche a 200-300 metri di distanza. Tralasciando di descrivere tutta una serie di fenomeni di balistica interna ed esterna, questa tabella indica la gittata massima di alcuni calibri di pistola (evidenziati i cal. 9×19 e 9×21, quelli di pistole diffuse come la Beretta 92FS e Beretta 98).

Come già detto, si tratta di gittate massime, vale a dire la distanza fra la posizione all’atto dello sparo con il braccio teso a 45° e il punto di caduta di una palla ormai priva di energia cinetica residua, o “spenta”, ma dovrebbe aiutare a comprendere che, quando si utilizza una qualsiasi arma a canna rigata, il tiratore deve sapere che ha una gittata massima letale anche a alcune centinaia di metri di distanza, ancorché la gittata utile, vale a dire la distanza alla quale si può pensare di ingaggiare efficacemente un bersaglio, sia notevolmente inferiore. Tradotto: oltre i 25 metri è difficile pigliare il ladro ma è ben possibile che ci vada di mezzo il ciclista/bambino/pensionato che passa ignaro a 300 metri di distanza. Ulteriori considerazioni di chi capisce e padroneggia sono legate alla custodia e al maneggio, visto che la maggior parte delle vittime di incidenti con armi da fuoco sono causate da armi ritenute erroneamente scariche, e mi immagino una scena da Monthy Python in cui un tizio dorme avendo sul comodino lo smartphone e la pistola, riceve una chiamata e afferra l’attrezzo sbagliato…), ma ne vorrei aggiungere una in particolare. Un’arma è una macchina, e come tale non ha volontà propria. In mano a un Agente delle Forze dell’Ordine protegge, dissuade e fornisce sicurezza, in mano a un delinquente serve solo a prevaricare. Ma in ambedue i casi è comunque sempre una macchina progettata per uno scopo ben preciso, che è ferire e/o uccidere: a questo, oltre che a tutte le altre cose enunciate in precedenza, sarebbe bene pensare nel momento in cui si consideri la possibilità di impugnare un’arma al di fuori del Tiro a Segno, chiedersi se si è preparati a farlo, e a portarne le conseguenze.
[Nota: ho la fortuna di vivere in una zona dal bassissimo tasso di reati violenti e non possiedo un’arma da fuoco. Se così non fosse, investirei in sistemi di allarme e in un grosso cane e, solo se vivessi in una casa isolata, potrei forse pensare a una doppietta caricata a pallini, non certo a .44 Magnum, Python 357 e spingarde simili. E ritengo un esempio di saggezza la risposta di Chuck Norris a un intervistatore che gli chiedeva come avrebbe reagito se si fosse improvvisamente trovato di fronte un rapinatore armato: “Gli direi di non innervosirsi ulteriormente e gli consegnerei il portafoglio.”] Pronostico: aumento delle domande di porto d’armi, marginale aumento dei casi di femminicidio in quanto ahimè, in ogni casa di armi proprie o improprie già ce ne sono a sufficienza, esponenziale aumento degli incidenti da arma da fuoco, aumento dei poveracci feriti se non fatti fuori da delinquenti che se ne vanno portandosi dietro un’arma in più (con strascico legale per lo sventurato), stucchevoli lamentele e piagnistei di sparatori che hanno mancato il delinquente ma hanno fatto fuori un passante, tonitruanti campagne sull’aria dell’ “io sto con …”, ulteriore materia per campagne urlate di un verso o dell’altro.
Ho usato questi due esempi (ma avrei potuto farne altri, ad esempio sui migranti QUI o sulla risibile fuffa del ritorno alla coscrizione obbligatoria QUI) per provare a mostrare, una volta di più quanto sia facile farsi infinocchiare da venditori di fumo dalla parlantina sciolta e, per citare i versi di una canzone di Nöel Coward, “quanti sono scioccati dall’onestà, e quanto pochi dall’inganno”.
Che si può fare quindi, per porre un argine ai capipopolo rumorosi, astiosi, livorosi e aggressivi nel pretendere piena tolleranza per la loro intolleranza nei confronti di chi si azzardi a non condividere fra nubi di incenso le loro aspersioni di parole d’ordine une ed irrevocabili? Poco, temo. Nel ragionare, passare pochi concetti alla volta, altrimenti vanno in tilt: guarda che ci vuole tempo, guarda che una volta che impugni una pistola devi anche usarla, sei pronto, sei sicuro? Insistere sul tasto che bisogna mettersi in testa che non esistono soluzioni a costo zero, che non esistono soluzioni che possano essere pagate solo da qualcun altro. Spiegare che una rivoluzione (scardinare l’ordine sociale esistente per provarne un altro) non è una sommossa che lascia solo macerie e i dimostranti che si chiedono “e adesso?”, che come diceva Shaw nel passo che ho citato all’inizio per rivoluzionare qualunque cosa bisogna capirla e padroneggiarla, che nel cambiare non sarebbe male avere presente che gli effetti di una rivoluzione richiedono anni per essere percepibili e che a procedere per approssimazioni successive (tradotto: “stanno imparando, lasciateli lavorare”) è nella migliore delle ipotesi un sistema assai inefficiente e dispendioso per ottenere il minimo risultato con il massimo sforzo, che non c’è nulla di vergognoso nell’ammettere che non possiamo saperne tutti tutto di tutto, e se del caso, se siamo veramente competenti su qualche cosa non esitare a sbattere le nostre qualifiche sul Saint-Just dimezzato convinto che uno vale uno. Vista la situazione, non sono granché convinto che questa linea d’azione possa avere successo in tempi meno che storici, ma in mancanza di un Tamerlano illuminato, o quantomeno di un Pietro il Grande, non ne vedo altre. Auguri a noi.