Primo maggio. Di chi è la festa?

Il mio memo automatico, sul computer, per qualche bizzarria dei calendari interni mi manda un doppio avviso: domani (sto scrivendo il 30 aprile) sarà la festa dei lavoratori e/o la festa del lavoro. 

Ohibò! Mica è la stessa cosa! Guardo su Google ottenendo la stessa ambigua risposta. 

Diciamo: il primo maggio è una data sostanzialmente arbitraria fissata per celebrare le lotte dei lavoratori dell’800 per la riduzione dell’orario di lavoro, e successive azioni anarchiche che provocarono anche vittime. Un simbolo dei lavoratori in lotta contro l’oppressione dei padroni e dei governi liberali che li appoggiavano. Un simbolo forte in epoca di anarco-sindacalismo, marxismo “scientifico”, e poi l’esempio vivido della rivoluzione sovietica (soviet = organizzazione politico-sindacale dei lavoratori). 

Diciamo quindi che in un periodo storico (tutto il ‘900, specie dal secondo dopoguerra in poi) in cui la lotta fra proletari e “signori” era forte, reale e riguardava diritti fondamentali, la commemorazione del Primo maggio è stata una festa altamente simbolica, ricca di pathos, forgiatrice di unità identitaria. Non potevi dirti di sinistra (nel senso e nei modi più volte chiariti qui su HR) senza avere il cuore aperto a questa celebrazione, alla quale molti paesi occidentali si sono piegati per spirito di conciliazione sociale e di mediazione politica, non certo per adesione ideologica. Per quanto riguarda l’Italia, per esempio, ricordiamo che anche la fumosa frase della Repubblica “fondata sul lavoro” (art. 1 della Costituzione) non ha alcun significato concreto se non come esito del braccio di ferro – in sede di Assemblea Costituente – fra Togliatti e i cattolici (lo abbiamo documentato QUI). 

Quindi i lavoratori, sì, che nei decenni hanno ottenute molte concessioni, molti giusti diritti, poi qualcuno è stato tolto loro, e le lotte, e i silenzi, si sono succeduti com’è normale che sia stato, sull’onda delle vicende storiche, economiche e sociali dell’Italia e di tutto l’Occidente.

Oggi non ci sono più battaglie fondamentali da combattere. Per carità, per qualcuno – giusto per fare un esempio – la reintroduzione dell’art. 18 è ancora una questione vitale; “lavorare meno per lavorare tutti” a qualche altro non appare come logoro slogan di anni remoti; e il sindacato deve sempre rimanere vigile per sorvegliare che tutti i diritti dei lavoratori, ma proprio tutti tutti, non siano aggirati; abbiamo scritto moltissimo su questi punti, e se cercate gli illuminanti articoli di Alberto Baldissera sui sindacati, o quelli di Ottonieri sull’art. 18, potrete facilmente capire il nostro punto di vista. E comunque: non ci sono più grandi lotte da cavalcare; non abbiamo Grandi Obiettivi Sindacali all’orizzonte. Le disuguaglianze palesi (per esempio la disparità di genere) non necessitano di lotte se non sul piano culturale; altre (per esempio le difficoltà dei giovani) sono figlie di un quadro macroeconomico distorto non modificabile a colpi di legge, e non sembrano una priorità reale né per i sindacati né per i partiti di sinistra. 

Insomma, basta; quel periodo eroico è finito, i lavoratori sono nella maggioranza dei casi “classe media” e votano Lega o 5 Stelle, i giovani si arrangiano, l’Europa è un insulto, se lavori in nero puoi arrotondare col reddito di cittadinanza… quali lotte, mai?

E poi, apprendo, nel paese liberal-comunista per eccellenza, la Cina, il Primo maggio è festa grande, sì, ma domenica scorsa hanno lavorato, perché non si può perdere scioccamente un giorno di produttività industriale, che poi incide sul PIL!

Come festeggiare, e cosa, allora? Ma perché non provare a rinnovare questa celebrazione? I tempi sono mutati, si diceva, e dovrebbe mutare anche il senso di questa festa collettiva. Una festa non solo utile come “ponte” per stare a casa tutta la fine settimana, o per la gitarella fuori porta se non piove, o per il “concertone” (ma cosa c’azzecca con le lotte operaie?).

Perché, per esempio, non utilizzare questa festa come spazio per pensare (scusate la parolaccia) a come riequilibrare i rapporti di genere e intergenerazionali; per ragionare, finalmente! sul lavoro come dovere e non solo come diritto (ma perché il lavoro sarebbe un ‘diritto’? Chi dovrebbe concedere tale diritto, e come?). Ecco, utile esercizio per il 1° maggio: il lavoro è un dovere. Devi lavorare, e bene, e con diligenza, e semmai con sacrificio, perché ogni lavoratore (anche i privati, non solo i dipendenti pubblici) rendono un servizio alla comunità, al Paese. Lavoro come dovere, perché fare bene il proprio lavoro (cacciar via denti o stringere bulloni, insegnare o falciare il grano) vuole dire creare valore economico ma, soprattutto, valore sociale. Chi lavora non lo dovrebbe fare solo per portare il pane a casa (questo era vero 100 anni fa) o per permettersi l’abbonamento a Netflix, ma per stare, a pieno titolo, nella sua comunità. Oh, mamma mia! Che idea bislacca, confucian-calvinista. 

Oggi troppi, ma davvero troppi, credendo alla storia del lavoro (inteso solo come fonte di reddito) come diritto, lavorano poco o affatto, male o peggio, infischiandosene altamente dei danni sociali prodotti, oltre che economici. Ne ho visti a mazzi, a vagonate, a moltitudini, fra impiegati pubblici, professionisti, dipendenti privati. Protetti da un sindacalismo ottuso e da un modo di pensare turbo-ideologico (!) costoro si lasciano scivolare lungo una vita di scarso pensiero, di nulla responsabilità, di puro egotismo narcisistico, dove il Sè è al centro dell’Universo e gli altri si fottano.

Ecco, il Primo Maggio, festa dei lavoratori, pensiamo ai soggetti festeggiati come espressione di diritti conquistati, che ora devono rendere conto assumendosi la responsabilità dei doveri connessi.