Direte voi che un governo c’è, sia pure singolarissimo. Eppure, né il governo attuale, né quello precedente (per restare a questa legislatura), sembrano particolarmente attenti ai temi che, opinione personalissima, dovrebbero essere al centro dell’attività legislativa ed esecutiva. Questi temi non sono il vincolo di mandato per i parlamentari e la riduzione del loro numero, l’eutanasia, i crocefissi nelle scuole, il voto ai sedicenni, e, udite udite, neanche l’immigrazione (che è sì un problema, ma che in ordine d’importanza sarà forse il ventesimo del nostro paese).
Ebbene, se non il primo, uno dei primi cinque è certamente la Sanità. Non solo per la, forse banale, constatazione che è una delle principali voci della spesa pubblica, e probabilmente, insieme all’istruzione e alla sicurezza, il principale servizio pubblico erogato ai cittadini. Ma soprattutto perché, come ribadiamo fino alla noia noi di Hic Rhodus, la Sanità pubblica è un patrimonio civile, che con tutte le sue crepe assicura tuttora cure di qualità a tutti i cittadini, praticamente gratis. Non è scontato: anzi, dato che la salute è un grosso affare e potrebbe, se pesantemente privatizzata, diventare un affare gigantesco, è necessario vigilare perché di questo patrimonio i cittadini non vengano progressivamente spogliati.
Purtroppo, la Sanità di problemi ne ha, e parecchi. Qui ne parliamo spesso, evitando però di cadere in quella critica indifferenziata del SSN che è la migliore alleata degli aspiranti privatizzatori. Vediamo alcuni di questi problemi, senza la pretesa di poter dettare soluzioni:
Il fabbisogno e gli sprechi
Si tratta di due “titoli” che vanno a mio avviso trattati insieme. Se si affronta la questione del fabbisogno economico, che fatalmente tende a crescere con l’invecchiamento della popolazione e il prolungarsi di terapie molto costose per ammalati cronici, è facile che si ribatta “con tutti i soldi che si buttano (o si rubano), la Sanità potrebbe risparmiare moltissimo, altro che aumentare il fabbisogno”. La spesa sanitaria, insomma, oscilla tra la Scilla della scarsità di fondi e la Cariddi della spesa inefficiente, che non sempre è frutto di corruzione, ma spesso di incapacità o incuria organizzativa, e anche dell’erogazione di prestazioni sanitarie inutili o sovrabbondanti.
Ricordo, a proposito di sprechi, la stima del già ampiamente citato Rapporto Gimbe, secondo il quale gli sprechi, intesi nel più ampio senso di spesa che non corrisponde a un adeguato beneficio sanitario, possono essere grossolanamente stimati in circa il 20% della spesa sanitaria pubblica totale. Una diversa fonte, il Rapporto Saniregio 2017 del CERM, offre una valutazione dell’inefficienza della spesa (che non entra quindi nel merito del beneficio sanitario prodotto, ma solo dell’efficienza di utilizzo degli input utilizzati, e quindi dovrebbe essere più bassa della stima Gimbe) di circa il 16% complessivo per l’Italia. Questa inefficienza ovviamente non è uniformemente distribuita su tutto il territorio, e secondo il Rapporto Saniregio, che purtroppo utilizza dati non aggiornatissimi, può essere disaggregata secondo il grafico riportato qui sotto:

Dobbiamo quindi concludere che le Regioni del Sud e delle Isole, e il Lazio, sperperano soldi e costano alla collettività più delle “virtuose” Regioni settentrionali e delle “virtuosissime” Regioni dell’Italia centrale? In realtà, non proprio.
Fatto sta che le Regioni dove gli sprechi sono maggiori non sono quelle che spendono di più: come si vede dal grafico qui sotto, il Nord è l’area dove la spesa sanitaria pro capite è più alta, e il Sud quella dove è più bassa. Ne consegue che i cittadini del Sud subiscono una tripla penalizzazione: il SSN spende di meno per loro, quello che viene speso è gestito in modo più inefficiente, e il loro reddito, mediamente più basso, non consente loro di ricorrere a forme integrative di assistenza sanitaria.

La scarsità di medici
Si tratta di una questione così allarmante che, in un recente documento, la Conferenza delle Regioni ha proposto al nuovo ministro Speranza misure che non esiterei a definire estreme, come “consentire l’accesso al SSN dei medici privi di diploma di specializzazione”. A me pare una bestemmia, ma è innanzitutto il segnale di un malessere gravissimo, e le carenze di organico del medici specialisti e di base nei prossimi anni rischiano di allargarsi ulteriormente. In effetti, ricorrendo ad esempio alle previsioni di un recente rapporto di Anaao Assomed, nel 2025, anche a seguito del pensionamento di molti medici “anziani”, potrà esserci un “buco” di circa 16.500 medici specialisti, con forte concentrazione in alcune importantissime discipline, tra cui la medicina d’urgenza, la pediatria, la medicina interna, l’anestesiologia, la chirurgia generale (v. grafico qui sotto).

Mentre alcuni politici non particolarmente avveduti (o non particolarmente seri) cavalcano l’idea di eliminare il numero chiuso a Medicina, magari in nome di un presunto diritto al (non) studio, lo stesso rapporto Anaao Assomed sottolinea come il vero problema consista nel basso numero di medici che riesce ad accedere e a completare i corsi di specializzazione: come si vede dal diagramma qui sotto, in Italia non mancano i medici, mancano i medici specializzati, e molti laureati rimangono “parcheggiati” (o espatriano) perché non entrano nei corsi di specializzazione a numero chiuso.

Ecco perché qualcuno può proporre, come abbiamo visto, di far lavorare negli ospedali medici privi di specializzazione, creando dei percorsi formativi ad hoc, e con essi l’ennesimo esempio di categorie e sottocategorie, deroghe e sanatorie, eccezioni ed eccezioni alle eccezioni, che sono parte integrante del perché l’Italia non funziona. I problemi non si risolvono con le deroghe, e chi propone deroghe allontana la risoluzione dei problemi. Punto.
Quindi, se la soluzione non è eliminare il numero chiuso a Medicina (che aumenterebbe solo il numero di laureati a spasso e peggiorerebbe la qualità della didattica), è forse aumentare il numero di posti nei corsi di specializzazione? In parte, certamente sì, ed è una misura a mio avviso necessaria; ma non sarebbe ugualmente sufficiente, perché in realtà alcune specialità sono molto ambite e altre sono addirittura disertate. Da un altro approfondimento, sempre di Anaao Assomed, emerge infatti che l’attrattività delle scuole di specializzazione è molto diversa tra le diverse specialità. Esaminiamo il grafico qui sotto:
Spieghiamo meglio il significato del grafico: i vincitori del concorso per l’accesso alle scuole di specializzazione sono divisi in scaglioni di merito: i “migliori” sono nel primo scaglione, e via via gli altri. I primi hanno diritto di prelazione, e gli altri, in successione, vanno a occupare i posti liberi, quindi chi si trova negli ultimi scaglioni ha a disposizione sostanzialmente solo i posti “avanzati” dopo la scelta dei precedenti.
Ebbene, il grafico ci dice che la scuola più ambita è Cardiologia, che, nel concorso preso in esame, ha praticamente esaurito i posti a disposizione già dopo le scelte del quinto scaglione. Seguono Dermatologia, Pediatria, Oculistica, Neurologia, Chirurgia Plastica, ecc. Tra le scuole meno scelte figurano alcune di quelle che abbiamo visto essere più critiche in termini di scarsità di specialisti: Medicina d’urgenza, Chirurgia generale, Anestesiologia; il fatto che queste scuole vengano scelte dai vincitori con punteggi inferiori, e probabilmente per indisponibilità di posti in scuole più ambite, non può che avere effetti negativi su queste specialità.
Ma come mai queste specialità sono poco desiderate? Ce lo suggerisce la stessa autrice di quest’analisi: le preferenze più numerose per certe discipline “sono dovute all’attrazione che esse esercitano sui candidati, in quanto consentono percorsi professionali con migliori prospettive di carriera e maggiori remunerazioni, sia nel pubblico che nel privato, e con una migliore qualità di vita. All’opposto, evidenziano una bassa attrattività le Scuole afferenti all’area dell’Emergenza-Urgenza, tra cui la Medicina d’Emergenza ed Urgenza e la Anestesia e Rianimazione. […] Turni lunghi e numerosi, specie notturni, eccessivi carichi di lavoro per carenza di organico, difficoltà di fruizione delle ferie, aggressioni fisiche e verbali, elevato rischio di contenziosi medico-legali, scarsa possibilità di attività libero-professionale disegnano condizioni di lavoro non attrattive per molti. […] Anche le Scuole afferenti all’area chirurgica – ad eccezione della Chirurgia Plastica – presentano una bassa attrattività, in ragione di un insieme di elementi negativi, tra loro correlati, quali: difficoltosa e lunga formazione professionale, difficoltà nel raggiungimento di una soglia di autonomia per interventi di media complessità al termine della specializzazione, percorso lavorativo irto di difficoltà con raggiungimento della maturità professionale “chirurgica” spesso in tarda età (causa discutibili assetti gerarchici ed aspetti organizzativi consolidati), alto livello di rischio clinico.”
A quali conclusioni possiamo arrivare? Innanzitutto, a comprendere, da questi due “assaggi” che mostrano quanto le questioni reali siano sfaccettate, che, come sempre, il problema è più complesso delle sue volgarizzazioni, e, a maggior ragione, complesse e solo parziali potranno essere le soluzioni da cercare. Quando un nuovo Ministro della Salute trasmette il messaggio che la misura che ha allo studio per combattere le sperequazioni nella Sanità è una revisione del sistema dei ticket, possiamo serenamente affermare che non ha capito, o non vuole capire, un tubo.
Poi, che per la Sanità pubblica occorrono maggiori risorse, ma affidate a una Governance di ferro. La più grande sciagura della Sanità italiana a me sembra il federalismo, che divarica le differenze e rende praticamente impossibile imporre una politica omogenea alle diverse Regioni.
Infine (per ora), che i medici del SSN vanno tutelati e aiutati. Sono meno di quanti dovrebbero, ingolfati dalla burocrazia, esposti tanto a cause legali quanto a cazzotti in faccia, schiacciati tra l’incudine della sfiducia crescente dei cittadini (anche alimentata da campagne semplicemente criminali e dementi, come quella anti-vax) e il martello della pressione all’efficientamento economico dei servizi. Se è vero che il SSN è il nostro maggior patrimonio come cittadini italiani, il suo valore è costituito quasi interamente dal personale che ci lavora; in particolare i medici che operano in specialità “scomode” o a rischio devono essere interamente tutelati e anche incentivati economicamente, se non vogliamo ritrovarci con i Pronto Soccorso pieni solo di pazienti.