Beato il paese che non ha bisogno di sessantottini

Ve ne sarete accorti (specie se siete ultracinquantenni): un recente articolo di Michele Serra, pubblicato sul Venerdì di Repubblica e intitolato Perché non facciamo largo ai giovani, ha suscitato un vivace dibattito, per usare una frusta espressione tipica di noi boomer. L’articolo (potete leggerlo anche sull’interessante blog di Massimo Mantellini, insieme a un commento, piuttosto centrato, dello stesso Mantellini) risponde a una lettera scritta a Serra da un lettore suo coetaneo e fresco pensionato, che in sostanza rivolge al giornalista e a tutta la loro generazione, e a quelle ancora più anziane, l’invito a “togliersi dalle scatole e a lasciare spazio ai figli”. La risposta di Serra, ovviamente ben scritta e ben argomentata, si potrebbe sinteticamente riassumere in “col cazzo!”.

Naturalmente, non è così che Michele Serra presenta la sua difesa della posizione occupata da lui, dai suoi coetanei e dai suoi maggiori; l’argomentazione centrale del breve articolo è, sostanzialmente, che i giovani non devono trovare il loro spazio grazie all’abdicazione degli anziani, ma alla loro autonoma capacità di creare e interpretare una nuova epoca, con nuovi linguaggi, nuove idee, nuovi spazi. Secondo Serra, la possibilità di un reale ricambio nascerebbe da un cambiamento culturale,

che quelli della mia leva (anni Cinquanta) hanno avuto la grande fortuna di cavalcare, rovesciando il tavolo del vecchio ordine, inventando giornali (e cinema, letteratura, teatro, musica) mai visti e mai sentiti prima, e facendo apparire all’improvviso decaduto il mondo che li aveva preceduti. E tutto ci è stato facile, anche al di là dei nostri meriti, perché un mondo nuovo stava germogliando tutto attorno.

Insomma: i giovani non riescono a esautorare gli anziani perché non sono abbastanza rivoluzionari, o non lo è abbastanza l’epoca in cui vivono, o entrambe le cose. Serra, in assenza di altri riferimenti culturali e storici, li rimprovera in sostanza di non essere abbastanza sessantottini. Loro sì (i sessantottini), ai loro tempi hanno scalzato la vecchia generazione con le sole forze della rivoluzionaria giovinezza che li pervadeva tutti, in un mondo che allora era in trasformazione e oggi vive un’epoca “reflua e stagnante”.

Come forse avrete letto, non sono ovviamente mancate le risposte anche puntute, perché diversi giovani e quasi giovani di oggi non hanno apprezzato. Una delle reazioni più comuni è stata quella di osservare che il mondo oggi sta cambiando almeno quanto negli anni Sessanta del secolo scorso, e che i giovani sono oggi protagonisti di questo cambiamento tanto quanto lo erano quelli dell’epoca, solo che evidentemente Michele Serra non se ne accorge. Tra le repliche secondo me migliori c’è quella (su Facebook, l’ho letta grazie alla segnalazione di Frontpage Post, un’utile pagina che propone i post “migliori” della giornata, e che vi consiglio di visitare regolarmente) dell’insegnante e scrittore Enrico Galiano, ma sono parecchie quelle sulla stessa linea, inclusa in fondo quella del quasi sessantenne Mantellini che citavo all’inizio.

Io però vorrei proporre un ragionamento diverso. È certamente vero che il mondo oggi cambia molto più rapidamente che ai tempi del Sessantotto francese, ed è certamente vero che i giovani non sono quei personaggi un po’ grigi, che scrivono articoli di buona fattura e ascoltano Guccini e De Andrè (!!!), che descrive Serra; ma la patologia che non vorrei passasse inosservata è un’altra.

Non è pensabile che in un paese per realizzare un fisiologico ricambio generazionale occorra ogni volta una rivoluzione. Ammesso che il Sessantotto sia stato appunto una rivoluzione, cosa di cui guardando la società di oggi e gli ex-sessantottini mi pare lecito dubitare, non è un paese normale quello in cui per mettere da parte gli ottantenni e i novantenni ci vuole il Kalashnikov, reale o figurato. E non facciamoci fuorviare dal fatto che i giovani rispondano a Serra che il “nuovo mondo” c’è già e loro ne fanno parte, mentre i quotidiani come la Repubblica sono il vecchio mondo ormai superato; vuol forse dire che il problema non c’è, e che il ricambio c’è già stato? No, perché il problema non è una più o meno opinabile leadership intellettuale: il problema sono i soldi. Le generazioni anziane forse non sono più culturalmente dominanti, ma hanno saputo tenere in pugno il potere e i soldi, monopolizzando l’uno e gli altri a scapito delle generazioni precarie, e non li mollano. Serra, che pure ha trent’anni meno di colleghi ultranovantenni come Eugenio Scalfari e Natalia Aspesi, non scrive articoli migliori di tanti suoi colleghi trentenni, che però sono freelance e fanno la fame, come abbiamo scritto qui su Hic Rhodus; se parliamo di aziende, una statistica della Luiss ci informa che l’età media dei top manager (presidenti e amministratori delegati) è in continua crescita, mentre chi ha la stessa età ma non è così in alto ottiene spesso prepensionamenti con trattamenti superiori ai contributi versati; quanto alle ingiustizie economiche intergenerazionali, le abbiamo sottolineate spesso, sin da un articolo di quattro anni fa intitolato eloquentemente L’Istat ci racconta il romanzo di un giovane povero. Insomma, in Italia chi ha dai sessantacinque anni in su forse culturalmente vive in una nicchia un po’ obsoleta abitata sostanzialmente dai suoi coetanei, ma dal punto di vista del potere e dei soldi sta molto meglio di chi è in un’età inevitabilmente più produttiva. Ed è l’avvicendamento nelle posizioni di potere e di elevato reddito che determina cosa i giovani siano o non siano in grado di fare.

Pretendere che per scalzare i settantenni (e gli ottantenni) dalle stanze del potere e permettere ai “giovani” di accedere ai ruoli economicamente e socialmente decisivi si debba verificare una trasformazione sociale epocale, è una cosa francamente assurda, e leggerla scritta da parte di un esponente illustre (e intelligente) di una generazione sessantottina che accusa i giovani d’oggi di non essere abbastanza sessantottini è altrettanto francamente insopportabile. Non è un caso che (e anche di questo abbiamo parlato su Hic Rhodus) i punti di riferimento del dibattito politico e culturale in Italia siano regolarmente collocati nel passato, spesso in quegli anni Settanta che, a me che li ho vissuti, non sembrano affatto migliori di quelli che viviamo oggi. Questo è ovviamente un altro sintomo della senilità del nostro paese, chiuso in quello stagno di cui scrivevamo pochi giorni fa, e che vagheggia i tempi in cui i decrepiti ma tuttora potenti vecchioni nostrani erano giovanotti già rampanti. Quello di cui abbiamo bisogno, invece, è che il lavoro dei giovani sia trattato con rispetto e che ottenga il giusto riconoscimento in termini di retribuzione e di protezione sociale. Non c’è bisogno che gli anziani si facciano magnanimamente da parte: occorre semplicemente che ci sia equità di trattamento intergenerazionale, che il lavoro di chi ha trent’anni sia riconosciuto e valutato con gli stessi parametri di quello di chi ne ha sessanta; insomma, occorre quella semplice forma di giustizia che dovrebbe essere la normalità, una cosa per cui non dovrebbe servire un assalto alla Bastiglia.

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