Le cose intorno a noi – 4 Gli scheletri

Una piccola serie personalissima di contributi che accompagna (o precede? o la segue?) una ricerca fotografica. Puntate precedenti:

Le cose intorno a noi: una premessa generale; siamo circondati da cose diventate feticci, e quindi strumenti di alienazione (15 gen 2020);

Le cose intorno a noi – 2: approfondimento del post precedente, la “cosificazione” del mondo; con mappa concettuale e appropriatissima clip dal film di Jarmush I morti non muoiono (12 feb 2020);

Le cose intorno a noi – 3 Il paesaggio: dalle cose intorno a noi all’ambiente. Distinzione fra ambiente e paesaggio (questo secondo è invenzione umana); il junkspace. Il brutto che dilaga è l’offesa estetica al paesaggio, coerente con l’inquinamento e le offese etiche all’ambiente (5 mar 2020).

La ricerca (fotografica) procede con scoperte ogni volta strabilianti. La più interessante è questa: con la fotografia ho cambiato modo di guardare le cose, il mondo, le persone, i film… l’occhio fotografico mi fa vedere cose che prima non coglievo affatto, e questo indipendentemente dal fatto che ho una macchina in mano e devo e voglio fotografare. Guido l’auto, vado a spasso col cane, e guardo differentemente ciò che mi sta attorno.

Anche se questa nuova “capacità” (?) ha delle componente più sottili (che riguardano per esempio le luci, i colori…) qui vi racconto quella più eclatante, che riguarda il riconoscimento di oggetti prima guardati ma non visti, evidentemente, perché mi accorgo oggi di cose che stanno lì da anni.

Parlo di edifici abbandonati, in particolare case coloniche e capannoni industriali.

Io abito in una bella regione dell’Italia centrale, abbastanza ordinata, non ricca senza essere povera. Ebbene, nelle nostre campagne, solo aprendo un po’ gli occhi e facendoci sufficientemente caso, la quantità di case deserte è impressionante. E non parlo di ruderi fatiscenti ma di edifici abbandonati per un radicale cambio di vita dei proprietari, immagino trasferiti altrove, o invecchiati senza figli desiderosi di continuare la vita dei campi. Vi propongo un esempio (click per ingrandire).

A parte la finestra rotta, e il guano che ha invaso la cucina, la casa dà ancora un’idea di solidità, di dignità, scalfita da quell’albero che cresce ormai da anni davanti alle scale (seconda foto). Non è un bivacco di tossici, non ci sono resti di presenze umane se non qualche cesto di vimini negli stalletti del piano terra. Girare per questa casa mi ha emozionato, l’ho sentita vibrare delle presenze di un tempo…

Differenti i resti industriali. Se non altro più imponenti. Anche qui vi testimonio il mio sconcerto per la quantità considerevole di stabili nella periferia della città in cui abito. Se l’abbandono delle campagne è fenomeno noto, di antica data, e può non stupire più di tanto, l’idea che qui, in città, a ogni piè sospinto, appena fuori dal turistico centro storico, ci siano così tanti capannoni chiusi mi ha davvero colpito

Il primo che vi propongo (dal quale sono stato velocemente cacciato dai custodi) è imponente nel volume, e impressionante per questo essere ormai solo scheletro spolpato.

Il secondo esempio è meno drammatico ma più inquietante. Doveva essere un centro servizi, di logistica o simili; la struttura è in piedi ma desolatamente vuota e sporca.

Fa un certo effetto aggirarsi per questi che erano uffici, bagni, portinerie, dove gente affaccendata si aggirava, produceva, chiacchierava. E ora…

Aggiungete i supermercati falliti o rilocati (qui non sono riuscito a entrare), quelli mai completati…

… le chiesette di campagna, le case di piccoli borghi ormai deserti…

L’esplorazione fotografica di questi luoghi (con una serie di problematiche igieniche e legali) è internazionalmente nota come Urbex (URBan EXploration) e in Italia esistono anche gruppi dediti a questo genere di avventure; uno dei più importanti si chiama Ascosi lasciti e – se vi interessa il genere – visitate il loro sito e il loro profilo Instagram perché propongono una documentazione straordinaria, enormemente più interessante delle poche cose che vi ho fatto vedere io.

Perché vi parlo di Urbex in questa puntata di “Le cose intorno a noi”? Perché, oltre all’eccitazione per l’avventura e ben oltre il fascino sottile della morte (di questo si tratta), possiamo fare alcune riflessioni che proseguono il tema tratteggiato nelle puntate precedenti. Gli edifici abbandonati, differentemente nei vari casi (case coloniche, manifatture, chiese, grandi magazzini…) sono una visibilissima testimonianza di questioni sociali irrisolte, o risolte male, che impattano in maniera differente sul paesaggio e l’ambiente (si veda la terza puntata di questa serie). Molto alla rinfusa e senza pretese di completezza:

  1. il consumo di territorio; abbandonare una casa o un capannone significa un edificio e il terreno circostante non recuperato per altre funzioni e usi, e un paesaggio “graffiato”, spesso decisamente “sporcato”;
  2. l’inquinamento locale: anche i mattoni inquinano, e la calce, e il metallo lasciato alla sua ruggine; figuratevi poi la lana di vetro [*] e altre schifezze non bonificate prontamente;
  3. la rottura antropologica dei contesti; non dico del grande magazzino, ma certamente la chiesa, il borgo, la casa colonica, e anche una storica manifattura, un ospedale, un teatro, segnavano i nodi di una rete locale, i suoi confini e assieme i suoi sviluppi. In quella chiesa si celebrava messa tutte le domeniche, con la gente che veniva dal circondario; in quel capannone alcune generazioni di persone di quel territorio hanno lavorato, si sono incontrate, semmai hanno lottato, qualcuno si è innamorato… La chiusura è in qualche modo lacerante, una frattura; la chiusura coll’edificio abbandonato assomiglia allo scheletro lasciato a imbiancare al sole, perenne monito di caducità, di abbandono non già di quell’edificio particolare, ma di tutto un territorio e della sua comunità.

La fotografia di questi scheletri diventa – io credo – qualcosa di più di una semplice testimonianza. Così come io, grazie alla fotografia, vedo diversamente cosa c’è intorno a me, così ogni singola foto pone una serie di domande allo spettatore. La fotografia mostra, in questi casi, il re nudo, che è il nostro modello di sviluppo e consumo di territorio, il nostro consumare e gettare, il nostro dimenticare e trasformare il territorio in uno squallido junkspace (ne ho parlato sempre nella terza puntata). E’ questo che vogliamo? La fotografia ci mette sotto gli occhi quello che abbiamo imparato a non vedere più, e ci chiede, ancora: era proprio questo, ciò che volevamo?

(Tutte le foto sono di Claudio Bezzi)

  • In data 3 settembre l’associazione dei produttori di “lana di roccia”, sentendosi ingiustamente chiamata in causa, ci chiede di precisa l’innocuità del prodotto; leggete, in calce, la lettera originale da loro inviata.