Leggendo l’articolo sul senso e le conseguenze della responsabilità, scritto pochi giorni fa da Filippo Ottonieri, non ho potuto non vederne la cogenza, pertinenza, esattezza descrittiva, applicandola a un settore ben definito di pratiche: la ricerca sociale in generale e la valutazione delle politiche pubbliche in particolare (questa seconda è un caso particolare della prima). Essendo questo il terreno culturale, scientifico, professionale che pratico da un considerevole numero di decenni, penso di conoscerlo bene, e leggendo Ottonieri – proprio nel mentre lo leggevo – pensavo “Esatto!, questo elemento è ciò che osservo nella ricerca sociale. Vero! Questo è proprio quel che capita in valutazione”. Ottonieri, nella seconda parte del suo articolo, applica i suoi 5 principi della responsabilità all’attualità del Covid, dove mostra facilmente come tutti facciano finta di muoversi per fare qualcosa, mentre in realtà ciascuno cerca di scaricare le responsabilità (per ciò che inevitabilmente accadrà) su qualcun altro.
Io ora voglio fare la stessa cosa applicando i 5 principi alla ricerca sociale e alla valutazione delle politiche, rivolgendomi in particolare ai colleghi ricercatori e valutatori, ma anche agli utilizzatori della ricerca sociale e valutativa (anzi: più a questi, perché la valutazione delle politiche pubbliche, se correttamente realizzata, è strumento di democrazia, e interessa quindi i cittadini).
Per i pigri che non hanno voglia di rileggersi l’articolo di Ottonieri ecco una sintesi dei suoi 5 elementi:
- il potere dà responsabilità; tale responsabilità non può essere elusa, semmai con formule consociative, col tentativo di dividere la responsabilità in modo confuso e indecifrabile; quindi: hai un ruolo, un incarico, un qualunque tipo di potere? Bene: TU hai una responsabilità;
- un obiettivo = un responsabile, uno solo. Al di là – scrive Ottonieri – della struttura organizzativa in cui ci si trova, che può anche non essere verticale, gli obiettivi devono avere, ciascuno, uno e un solo responsabile;
- nella realizzazione pratica degli obiettivi si può (spesso si deve) delegare, ma ciò che si delega sono attività, funzioni, pratiche, mai la responsabilità che resta, indivisa, del responsabile di cui al punto 2;
- anzi, la delega produce una moltiplicazione di responsabilità; se in un progetto ampio io delego alcune funzioni e attività, io resto responsabile al 100% del progetto, ma le persone delegate si accollano il 100% di responsabilità per le funzioni assunte;
- il controllore dell’obiettivo in questione deve essere distinto da chi tale obiettivo ha il compito di realizzarlo (questi ha la responsabilità, il primo funge da controllo indipendente).
Adesso vediamo facilmente come i gruppi (di lavoro) di ricerca sociale e valutativa incorrano in questi stessi 5 principi e, come nelle altre cose italiane, anche in questi si cerchino spesso scappatoie per eluderli.
Il primo elemento può apparire strano e distante dalla ricerca. Quale potere avrà mai un ricercatore o un valutatore? La risposta è: “enorme”. Una banale verità ignota al grande pubblico è che in termini di ricerca sociale lo spazio di manovra del ricercatore è ampio. La decisione stessa degli approcci, delle tecniche e – questo è classico – delle modalità di interpretazione dei dati raccolti, è talmente ampia da poter portare la medesima ricerca a risultati diversissimi (questo è uno dei motivi per diffidare dei sondaggi, che rientrano sempre in questo alveo). La questione è spinosissima, e non vale invocare il controllo dei pari, il rispetto di canoni scientifici o altro: è implicito nelle scienze idiografiche, “dello spirito”, sociali, avere tale enorme margine, e quindi la responsabilità del ricercatore è ancor più marcata, proprio perché una sua inclinazione morale, ideologica, una sua simpatia o antipatia, il cercare – inconsapevole – conferme o sconferme a idee radicate nella sua mente, lo può portare a imbrigliare la ricerca, in modo perfettamente “scientifico” (non posso ora spiegare il perché), e quindi a “scoprire” determinate cose, descritte in un determinato modo, e non altre. Quando dilagava la moda delle classifiche (delle città dove si vive meglio, delle università, delle nazioni più felici…) io dicevo che avrei potuto accettare una scommessa utilizzando una manciata di indicatori scelti da altri, a loro arbitrio, e facendo risultare, con quegli indicatori, che quella città era la migliore o la peggiore in Italia.
Ecco: pensate poi alla valutazione delle politiche pubbliche dove un Tizio, all’uopo incaricato, deve certificare che quel dato intervento da fare – o già realizzato – è davvero efficace, oppure lo è in parte, o non lo è affatto; qui si parla spesso di opere importanti, di grande valore economico, che vanno a incidere sulla vita di molte persone. Io valutatore – lo capite bene – ho un grande potere, e quindi una grande responsabilità (un esempio di responsabilità valutativa assai male espressa la documentammo tempo fa, a proposito di una fantomatica valutazione d’impatto della TAV commissionata da Toninelli).
Il secondo elemento è fondamentale e l’ho sempre praticato o cercato di praticare: i gruppi di ricerca e valutazione non sono democratici ma monarchie, più o meno illuminate. Il capo della ricerca è uno/una. Punto. Il capo dell’équipe valutativa è uno/una. Ri-punto. Non si può discutere se sia meglio – poniamo – fare una serie di focus group o un questionario e semmai metterlo ai voti. Giustissimo discutere, sentire il parere di tutti i componenti del gruppo, ma poi (principio di responsabilità) uno decide. Qui vorrei introdurre un elemento importante. Anche se nella maggior parte delle volte, in caso di gruppi, il capo è tale per i motivi più diversi (è il direttore del’Istituto, è il beneficiario diretto della commessa…) per essere un vero capo/capa (ma anche basta col corretto linguaggio di genere) devi avere due proprietà: l’autorevolezza e l’autorità. Se questa seconda è formale, può essere sancita con un pezzo di carta controfirmato da chi ha la superiore autorità per conferirla, l’autorevolezza va invece guadagnata sul campo, non ci sono pezzi di carta che tengano, e ti viene conferita dal riconoscimento dei colleghi. Il vero capo ha autorevolezza, prima di tutto, e quindi gli viene conferita anche l’autorità per gestire il gruppo e quindi assumersene la responsabilità. Poi, ovviamente, spesso le cose non funzionano così, perché tu hai l’autorevolezza ma l’autorità viene data al nipote del sindaco.
Il terzo e il quarto elemento riguardano le deleghe. In una ricerca importante se ne affidano molte: qualcuno si deve occupare di un filone di indagine, qualcun altro di altro, un terzo degli aspetti amministrativi e logistici… Qui si vede benissimo il senso del ragionamento di Ottonieri: se io, monarca della ricerca, mi scelgo i collaboratori sbagliati, non so coordinarli e correggerli, loro posso sbagliare la loro parte (e di ciò si assumeranno la loro parte di responsabilità) ma io ne ho comunque la responsabilità verso il committente, e non potrò mai dire “È andato tutto male per colpa di un collaboratore cane”. Vedete qui come le cose, nella nostra vita quotidiana, siano diversissime, e una grandissima quantità di energia mentale sia quotidianamente sprecata per cercare capri espiatori dei nostri errori (abbiamo scritto tantissimi post insistendo su questo concetto, li potete trovare facilmente qui su Hic Rhodus);
Il quinto, infine, ha a che fare coi controlli, da tenere distinti dalle realizzazioni. Il famoso “chi controlla i controllori” che, nella valutazione, per esempio, si può declinare in “Chi valuta i valutatori?” (una domanda formulatami, semmai in forma retorica, o provocatoria, decine e decine di volte). Distinguiamo quindi alcuni elementi.
C’è un controllo tecnico e scientifico che vale in fisica, vale i chimica, vale per la medicina e – esattamente allo stesso modo – vale anche per la ricerca sociale e valutativa (perché non c’entra con la flessibilità interpretativa accennata sopra). Io, persona acida e cattiva d’animo, ho speso moltissime ore a scrivere recensioni negative di lavori mal fatti, o a demolire – in occasione di revisioni fra pari – lavori candidati alla pubblicazione. Esiste un Metodo, vivaddio, esistono procedure di cui è dimostrabile l’efficacia euristica, esiste un consolidato bagaglio di riflessioni epistemologiche, esiste una sterminata biblioteca di casi di studio, quindi questo primo punto è semplicemente ozioso: i cattivi lavori si smascherano subito e prontamente MA… c’è un “ma”. Chi si prende la briga di scrivere, nero su bianco, che il lavoro Tale del collega Talaltro, è una schifezza che non rispetta standard minimi di decenza metodologica? Non si fa – neppure di fronte all’evidenza – in ambito accademico, dove tutti rigorosamente si inchinano uno all’altro, figuratevi se si fa nel mondo professionale dove devi tirà su la cler e portare a casa il companatico. Io l’ho fatto, sì, numerosissime volte, e indovinate quanto risulti simpatico nella mia comunità di pratiche?
L’altro ambito di controllo è quello della pertinenza e dell’utilizzabilità. La ricerca sociale, e ancor più la valutazione, sono spessissimo richieste per motivi retorici (valutami “bene” che mi serve di pubblicità) o servili, come nel caso della valutazione commissionata da Toninelli per la TAV. In quest’ultimo caso, potreste non ricordarlo, molti tecnici criticarono quella valutazione, ma Toninelli e il suo gruppo politico la difesero. C’è poi il caso diretto, frequentissimo, della pretesa di interferenza di personale amministrativo e/o politico nella valutazione; sono per esempio “normali” i bandi pubblici in questo settore dove sono già indicate le tecniche da utilizzare da parte di chi vincerà il bando; una costrizione che fa a pugni con l’abc della ricerca, che prima deve comprendere il contesto per poi formulare un piano di indagine. Per non parlare di quelli che – in una saletta riservata – rileggono i rapporti valutativi con gli estensori correggendo virgole, cancellando passaggi sgraditi eccetera, prima di rendere pubblica la versione finale.
Mi fermo per trarre una lezione generale, così com’era nelle intenzioni di Ottonieri. Qualunque attività, da quella di Ministro fino a quella di imbianchino, impone l’assunzione di responsabilità. Più in generale: essere cittadini, membri di una comunità, impone l’assunzione matura, adulta, consapevole, di una specifica e diretta responsabilità. Se l’imbianchino, al massimo, dipinge male una parete e procura un piccolo danno economico al cliente, il Ministro deresponsabilizzato procura danni a tutto il Paese. In mezzo ci siamo tutti noi, ciascuno al livello di responsabilità che il destino gli ha procurato. Non assumersela pienamente, cercare scuse, dilazioni, capri espiatori, è il principale male di questo Paese. L’Italia è un disastro perché a nessuno piace assumersi le responsabilità; non piace ai Ministri, non piace (salvo trarne benefici economici) ai direttori sanitari delle ASL, non piace ai manager di azienda, non piace neppure a tanti ricercatori e valutatori che chinano la testa, fanno ciò che chiede il loro padrone (“padrone”, sì, in questo caso sono decisamente dei padroni), poi staccano la fattura e riescono perfino a dormire sonni tranquilli, semmai credendosi pure bravi.
(In copertina: l’autore di questo post, anni fa, mentre realizzava un brainstorming. Ma adesso è molto dimagrito!)