De Luca, Trump e l’effetto teleobiettivo

Negli ultimi giorni, all’interno del caotico avvicendarsi di DPCM, ordinanze, conferenze stampa, bollettini, editoriali, che ci hanno investito di notizie, numeri, classificazioni, colori (verde-giallo-rosso, anzi no, giallo-arancione-rosso) e così via, a segnalarsi come il massimo dell’incontrollabilità a tutti i livelli è stata la Campania, rappresentata plasticamente dal suo Presidente Vincenzo De Luca. Le sue esuberanti esternazioni in video hanno assunto toni più cupi, e nell’ultima De Luca parla di “attacchi”, di “sciacallaggio”, e rivendica la sua linea rigorista, rievocando le misure restrittive che in Campania sono state adottate ben prima che il Governo imponesse quelle su scala nazionale, inclusa la chiusura delle scuole. «Noi a ottobre volevamo chiudere tutto per un mese, ma il Governo non ha voluto, e l’unico esponente istituzionale che ha sostenuto quella posizione sono stato io. Ora, tutti quelli che quando chiedevamo rigore si sono opposti, ora sembra siano diventati rigoristi. Una vergogna».

Ha torto, De Luca? In realtà, su un punto avrebbe anche ragione: che il Governo abbia preso decisioni tardive, frammentarie e più orientate all’effetto “comunicazionale” che a quello sanitario lo abbiamo detto, nel nostro piccolo, anche noi di Hic Rhodus. Quello che non va nella “tirata” di De Luca è che lui ora se la prenda perché diversi osservatori abbiano ritenuto difficilmente comprensibile che la Campania fosse stata classificata come Regione “gialla”, pur presentando dati epidemiologici piuttosto allarmanti: come esempio, nell’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità ha un Rt stimato pari a 1,58, che (con tutte le cautele con cui si deve prendere il dato dell’Rt, e di cui forse un giorno parleremo) è in assoluto tra i più alti d’Italia, quarto dopo quelli di Toscana, Basilicata e Lombardia. Insomma, paradossalmente oggi De Luca si lamenta perché il Governo ha messo in zona rossa la sua Regione, ossia ha fatto quello che lui stesso da tempo chiedeva. Della situazione campana ha appena scritto, qui su Hic Rhodus, Claudio Bezzi, e non ho quindi bisogno di aggiungere altro. Ma in realtà il vero motivo per cui De Luca punta la sua “controcomunicazione” contro il Governo e contro il sindaco di Napoli Luigi De Magistris è che i media hanno messo nel mirino la sua gestione dell’emergenza, e lui vuole ribaltare i termini della discussione.

In altre parole, De Luca si trova in un cortocircuito, come sottolinea Repubblica enumerando le sue contraddizioni, tra cui il fatto che lo stesso De Luca che pubblica settimanalmente su YouTube un videomessaggio sulla situazione del Covid in Campania eviti poi le domande dei giornalisti, dimostrando che il suo scopo è diffondere il suo messaggio unilaterale, direttamente ai cittadini, usando i mezzi offerti dai Social per disintermediare sia il suo partito (il PD, che incidentalmente è al governo) sia i media e i commentatori politici, che ovviamente considera ostili. De Luca si muove in perfetto stile populista, ma con l’aggiunta dei connotati “stilistici” meno nobili del territorio a cui appartiene: vittimismo, isolazionismo, furberia, e fermiamoci qui: insomma, la questione De Luca finisce (forse anche a torto) per confluire nell’eterna diatriba su Napoli e i napoletani, sulla loro insofferenza (o indifferenza) per le regole, sulle infiltrazioni malavitose nelle loro manifestazioni collettive (non esclusa quella, allarmante, del 24 ottobre scorso). Napoli come cronica anomalia nazionale, eccezione anche all’interno di quella più cospicua anomalia che è il nostro Meridione.

Eppure io credo che questa chiave di lettura sia fallace. Certo, il Sud in generale e Napoli in particolare sono affetti da mali cronici, e da un rapporto con le istituzioni che definire precario è eufemistico. Ma sbaglieremmo se non riconoscessimo in De Luca, in De Magistris, in quella Napoli che detiene il record mondiale degli stereotipi, un carattere più generale. Cinque anni fa, qui su Hic Rhodus, pubblicavo un articolo dal titolo Siamo tutti meridionali, che ci piaccia o no, e, se in quell’occasione per “tutti” intendevo tutti noi italiani, quello che penso davvero è che Napoli stia all’Italia come l’Italia sta al mondo: una pietra dello scandalo che in realtà è piuttosto uno specchio deformante, che ci mostra ingranditi vizi e virtù che, se a Napoli sono eclatanti, nel resto d’Italia non sono comunque assenti. Questo è tanto vero, che a sua volta l’Italia (e gli italiani) “gode” nel mondo dello stesso tipo di reputazione che in Italia hanno il Sud in generale e Napoli in particolare. Eppure, parlando specificamente del rapporto dei cittadini con le istituzioni, alla prova dei fatti abbiamo visto che anche nelle “grandi democrazie” anglosassoni il populismo è dilagato e ha prodotto leader come Boris Johnson e addirittura come Donald Trump, che misurato con i criteri del liberalismo democratico anglosassone è certamente peggio di qualsiasi populista italiano. Trump ha fatto uso sistematico della menzogna, della delegittimazione delle (altre) istituzioni, della propaganda diretta sui Social attraverso una costante disinformazione, fino ad arrivare alla situazione inedita e fino a pochi anni fa francamente inconcepibile in cui i media, sia tradizionali che Social, hanno dovuto proteggere i loro utenti dalle menzogne personalmente diffuse dal Presidente degli Stati Uniti, fino alla misura estrema di interrompere la trasmissione delle sue dichiarazioni, o di accompagnarle con l’informazione che, in sostanza, erano false. Ebbene, il risultato di tutto questo è che gli analisti politici USA sono abbastanza unanimi nel ritenere che le false accuse di broglio con cui Trump ha martellato l’opinione pubblica fin da prima del giorno delle elezioni, pur non avendo la minima possibilità di capovolgere legalmente il risultato elettorale, abbiano già ottenuto un completo successo nel manipolare un’ampia parte dell’opinione pubblica. E sarebbe ugualmente miope attribuire questo successo alla “stupidità” degli americani: commetteremmo lo stesso errore di proiettare su una comunità alla quale non apparteniamo i difetti che rifiutiamo di riconoscere in noi stessi. Lo chiamerei un effetto teleobiettivo, che ci fa vedere con più facilità esaltate e “concentrate” le caratteristiche di una comunità lontana da noi, mentre fa sì che ci sfuggano se appartengono a quella in cui siamo immersi.

I connotati che attribuivamo a De Luca, insomma, non possono essere semplicisticamente attribuiti al suo “territorio di riferimento”, che pure ha i gravissimi problemi che conosciamo, e che non intendo affatto sminuire: la realtà è più complessa, e si riconduce a caratteristiche e debolezze che tutti abbiamo, e che possono emergere (ed essere sfruttate) tanto più facilmente quanto meno ne siamo consapevoli. Dobbiamo insomma innanzitutto saperci difendere da noi stessi, specie quando è in gioco la manipolazione politica, operata da professionisti che ben conoscono le vulnerabilità dell’animo umano: come diceva il grande Giorgio Gaber, riferendosi al prototipo del populismo italiano, «Io non temo Berlusconi in sé, io temo Berlusconi in me».