Renzi, il Recovery Fund e la Prima Repubblica

Alzi la mano chi sentiva il bisogno di una crisi di governo al rallentatore come quella quotidianamente minacciata da Matteo Renzi e dalla sua pattuglia di fedelissimi, usando modalità di comunicazione piuttosto oblique e discutibili, il cui succo è che Italia Viva siede al Governo e contemporaneamente nei banchi dell’opposizione. D’altronde, questo atteggiamento non è affatto una sorpresa, visto che, subito dopo la formazione del secondo Governo Conte avevo scritto che per sopravvivere politicamente Renzi avrebbe dovuto «sorprendere ogni giorno, catturare l’occhio, oscurare sia il governo che l’opposizione leghista, facendo la parte di governo e opposizione allo stesso tempo». E, ovviamente, per “catturare l’occhio” in tempo di pandemia, distogliendo la nostra attenzione dalle notizie sanitarie, non c’è tema migliore dei quattrini, un sacco di quattrini: quelli del Recovery Fund.

Infatti, Renzi ha scelto appunto il piano per l’impiego dei fondi europei per la ripresa come terreno di attacco a Giuseppe Conte, e l’attacco, come nelle migliori tradizioni staisereniste dell’ex Presidente del Consiglio, ha preso innanzitutto la forma di una comunicazione personale, una lettera nella quale Renzi dosa con cura tutti gli ingredienti della classica pillola avvelenata: dall’apertura con una citazione, naturalmente casuale, di Mario Draghi, alla chiusura in cui il secondo Matteo della via crucis di Conte rivendica “trasparenza”. Nel (lungo) mezzo, molti riferimenti, piuttosto fuori luogo, all’operato del Governo Renzi, alcune osservazioni valide, e l’invito piuttosto chiaro a non tentare di avocare a sé il potere di controllare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, come, orrendamente, si chiama il piano, in lavorazione, su come usare i fondi europei.

Lascerei volentieri da parte i movimenti di truppe che Renzi, ormai inesorabilmente avviato a essere l’autentico erede proprio di quel D’Alema che emerse dall’ibernazione politica per assestargli la coltellata decisiva, sta mettendo in campo per circondare Palazzo Chigi con una tattica, anche questa, tipica della Prima Repubblica, e mi dedicherei a cercare una risposta almeno parziale alla domanda A che punto è il PNRR?.
Innanzitutto, prendiamo atto che esiste attualmente una bozza del Piano, che poi è quella che è stata presa di mira da Renzi e non solo. È chiaro, infatti, che di fronte a una camionata di miliardi di Euro si accendono gli appetiti di tutte le categorie, abituate da sempre a spillare soldi allo Stato rafforzando il perverso legame tra politici sperperatori di pubblico denaro e lobby del parassitismo. Anche e proprio per questo, qualunque Piano che consista nel finanziamento di una pletora di “progetti” proposti “dal basso” non può che tradursi in un disastro, come abbiamo commentato qualche tempo fa; l’unico modo per evitare che la gestione del Recovery Fund si trasformi nel più grande sperpero di denaro “all’italiana” della storia è sottrarre la programmazione del suo utilizzo ai diecimila centri di spesa che non attendono altro che nuova linfa per le loro relazioni parassitarie, e mantenere una rigorosa centralizzazione (sì, centralizzazione) degli obiettivi e dei programmi per raggiungerli.

Da questo punto di vista, va dato atto che il documento in bozza che possiamo leggere (e che probabilmente è stato sostituito da versioni che non sono circolate) è presentabile: descrive una strategia top-down (almeno nelle intenzioni dichiarate), con delle priorità in buona misura condivisibili e con dei grandi settori di intervento (missioni) che sono i seguenti:
– Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura
– Rivoluzione verde e transizione ecologica
– Infrastrutture per una mobilità sostenibile
– Istruzione e ricerca
– Parità di genere, coesione sociale e territoriale
– Salute

Dove cominciano i problemi è nell’articolazione di dettaglio degli interventi, specie nelle missioni più vaghe e generiche (come la Parità di genere ecc.), perché finiscono per includere obiettivi in gran parte condivisibili ma che mal si adattano a un piano che deve svolgersi e chiudersi nell’arco di pochi anni. La tabella qui sotto riporta come il documento del PNRR prevede di distribuire nel tempo i fondi, e, come si vede, la quasi totalità delle sovvenzioni dovrebbero essere impiegate tra il 2021 e il 2023. Si tratta dei fondi che devono essere destinati ai nuovi progetti descritti nel Piano, mentre i soldi derivanti dai prestiti (che quindi andranno a incrementare il nostro debito) sarebbero utilizzati “anche” per capitoli di spesa già previsti.

Ora, dato che sappiamo bene quali difficoltà abbia l’Italia a spendere realmente ed efficacemente già i “normali” fondi europei per lo sviluppo, è davvero azzardato pensare che riusciremo a impiegare tanto denaro in tanto poco tempo e in progetti concreti, reali, tali da poter essere verificati e approvati dall’UE.

E quindi arriviamo al vero nucleo del problema, anzi, di ogni problema: la cosiddetta governance. Come sarà possibile garantire che un programma (meglio, un insieme di programmi) così complesso, articolato e decisivo per il nostro Paese possa essere reso effettivo, e realizzato con i tempi e i costi previsti? Chi ne avrà la responsabilità? Ora, è perfettamente evidente che solo un apparato di governance dedicato esclusivamente a questo potrà (forse) tenere le fila del PNRR; ed è altrettanto chiaro che i poteri di questo apparato dovranno derivare direttamente dal governo. Sarebbe una follia pensare che questa governance possa essere esercitata dai ministeri, o dalle Regioni, oberati da mille compiti che, già oggi, svolgono nel modo che tutti possiamo constatare. Occorre certamente una struttura dedicata, composta da persone abituate a lavorare per obiettivi (tradotto: abituate a perdere buona parte del loro reddito se gli obiettivi, veri e non fittizi, non vengono raggiunti). Il DPRR a questo proposito prevede che per ognuna delle missioni ci sia un Responsabile nominato ad hoc (bene) e che i Responsabili riferiscano a un Comitato esecutivo composto dal Presidente del Consiglio, dal Ministro dell’Economia e dal Ministro dello Sviluppo Economico (in pratica, a oggi: Conte, Gualtieri e Patuanelli). A mio avviso è ancora poco per controllare un simile programma: serve un team di persone di spessore, in grado di prendere decisioni, e possibilmente un po’ più valide, per fare un esempio, del Commissario Arcuri.

Ma i gloriosi eredi della Prima Repubblica non stanno, e non staranno, certo a guardare, mentre la gestione di questo colossale patrimonio viene affidata a qualcuno su cui non possano esercitare la loro influenza. Non a caso, le prime obiezioni di Renzi alla bozza di PNRR sono dirette appunto al sistema di governance; possiamo essere sicuri che l’obiettivo di Renzi (e non solo suo) sarà quello di ricondurre la gestione del PNRR all’interno delle istituzioni democratiche (vedrete che si dirà così), ossia delle stanze dove la gestione del denaro è oggetto di trattativa politica. Per ora, ha annunciato le controproposte di Italia Viva con l’acronimo CIAO, che sta a significare Cultura, Infrastrutture, Ambiente e Opportunità, ossia gli stessi titoli del DPRR di Conte, come se invece li avesse inventati lui. È evidente che il nodo è altrove, e non a caso Renzi dichiara che “keynesianamente” (parola che personalmente leggo con un brivido lungo la schiena) i soldi «vuole spenderli tutti», subito dopo aver detto che «o li spendiamo bene, o ci strangoliamo col debito pubblico», e senza cogliere la contraddizione di fondo tra lo “spendere bene” e il piglio da assalto alla diligenza con cui Renzi invia i suoi a presentare «per ora» 61 (sessantuno) «idee» a Conte, dopo di che, «se le nostre idee non vanno bene c’è la possibilità di una maggioranza senza di noi, per noi le idee valgono più delle poltrone». E, dato che in questi casi le «idee» sono sempre richieste di maggiori spese, scommetto senza averne letta neanche una che le sessantuno idee di Italia Viva sono sessantuno nodi con i quali strangolarci con il debito pubblico. Un grande piano, per essere realizzabile, deve avere pochissime idee, molto ambiziose e molto chiare, e una struttura di controllo esente dalla lottizzazione politica per applicarle. Personalmente, spero che Conte mandi Renzi al diavolo, tanto è evidente che è alla crisi di governo che Renzi punta, e tanto vale arrivarci prima di una più lunga agonia. Se davvero dovessimo arrivare a un esecutivo guidato da Draghi, persona incalcolabilmente più preparata e più attendibile di Conte, di Renzi e del resto del serraglio che è diventato il nostro Parlamento, che sia il prima possibile.

La partita del Recovery Fund è, per l’Italia, una partita vitale e disperata. Vitale perché, non illudiamoci, senza mettere a frutto quei soldi il nostro Paese avrebbe un futuro ben gramo. La quantità di aziende che questa crisi spazzerà via è, credo, impossibile da valutare oggi, ma la toccheremo con mano ben presto; e ancora più difficili da prevedere sono le trasformazioni che ci saranno alla struttura profonda della nostra economia e della nostra società. Disperata perché a giocarla è una classe dirigente che assomma in sé il tatticismo e il trasformismo della Prima Repubblica e il velleitarismo dell’Uno-vale-uno, una miscela micidiale che noi elettori abbiamo più o meno consapevolmente distillato, bocciando i “professori” (come Monti) e i “vecchi partiti” (come il PD di Bersani), ma anche l’ambizione un po’ arrogante del Governo Renzi, tanto che quest’ultimo ha cambiato pelle e ha deciso di giocare la sua partita alla vecchia maniera, tendendo trappole a Zingaretti, corteggiando le opposizioni fino al punto di cercare un colloquio con Denis Verdini in prigione, trattando Conte come un “utile idiota” da sostituire alla prima occasione. È davvero difficile credere che questa classe dirigente riesca a replicare l’impresa che negli anni Cinquanta riuscì a ben altra classe dirigente, ossia trasformare, anche grazie al Piano Marshall, l’Italia in un paese moderno e competitivo, quando ancora la Prima Repubblica era la Repubblica, e veniva prima degli interessi di bottega.

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