Pensare la Democrazia nel terzo Millennio. 5 – Le disuguaglianze

Una serie di punti chiave, chiari, ineludibili, per ripensare la politica, da tempo scomparsa in Italia e – probabilmente – in stato comatoso in tutto l’Occidente. Una serie di punti che riteniamo fondamentali, in ordine logico, che proporremo in diverse puntate ravvicinate. In questa quinta puntata: le disuguaglianze.

Invitiamo tutti i lettori a dibattere questi temi scrivendo suggerimenti e critiche nei commenti.

5. Uno dei compiti della politica è combattere le disuguaglianze. Quest’affermazione, che a seconda dei tempi e dei luoghi può essere accolta come un’ovvietà o come un’eresia, richiede di essere attentamente precisata per non risultare ambigua. In primo luogo: cosa sono le disuguaglianze? E qual è la condizione di uguaglianza desiderabile che la politica dovrebbe perseguire o almeno avvicinare? Prima ancora infatti di discutere i mezzi e gli obiettivi pratici dell’azione politica, è necessario stabilire quale sia il problema da affrontare.

5.1 Una prima forma di uguaglianza è la parità di opportunità (in inglese equality of opportunity), che corrisponde alla condizione ideale in cui ogni cittadino ha le stesse possibilità di raggiungere i gradini più alti della scala sociale, indipendentemente dalla sua condizione di nascita, dal suo sesso, dalla sua etnia di appartenenza. Ovviamente, almeno a parole, tutte le forze politiche dichiarano di voler perseguire questa forma di uguaglianza, anche se ben poche sono disposte ad adottare misure particolarmente forti per ottenerla. Anzi, nei decenni recenti, è evidente la tendenza piuttosto ad attenuare le azioni pubbliche che andrebbero in questa direzione: osserviamo la riduzione delle tasse di successione; l’aumento dei costi dell’istruzione pubblica e, parallelamente, del ruolo di quella privata, soprattutto di eccellenza; il ridursi dell’efficacia del cosiddetto “ascensore sociale” anche a causa del familismo e di altre forme di cooptazione intergenerazionale.

5.2 Mentre la parità di opportunità è, almeno a parole, auspicata da tutti, è molto meno pacifico che la politica debba darsi come obiettivo favorire l’uguaglianza materiale (quella che in inglese è detta equality of outcome). Una volta che, idealmente, a tutti i cittadini siano state offerte le medesime opportunità, è ulteriormente necessario mettere in opera azioni per ridurre le differenze materiali tra la condizione di chi ha “avuto successo” e quella di chi “ha fallito” nella competizione per l’ascesa sociale?

5.2.1 Il liberismo ovviamente a questa domanda risponde un secco “no”: all’interno di un’economia di mercato la competizione e la meritocrazia, se le condizioni di partenza sono uguali per tutti, selezionano i migliori e ne ricompensano, in misura equa per definizione, le qualità e gli sforzi. Dell’emergere dei migliori si giova l’intera società, inclusi i meno capaci, la cui condizione comunque, alla lunga, sarà migliorata proprio grazie al maggior benessere complessivo che si crea grazie proprio a chi genera ricchezza con maggiore efficacia (la tesi della cosiddetta trickle down economics).

5.2.2 Il guaio è che questo modello astratto è confutato dalla realtà dei fatti. Una certa ridistribuzione del benessere si è certamente verificata nel mondo occidentale nei decenni di crescita economica che hanno seguito la Seconda Guerra Mondiale, ma è un dato incontestabile che nel sistema capitalistico ormai esteso a quasi tutto il mondo il mercato tenda ad accentuare senza apparenti limiti le disuguaglianze, anche là dove esistono dei meccanismi di welfare intesi a provocare “forzosamente” una parziale ridistribuzione. La ricchezza tende a concentrarsi sempre di più, e, dato che una maggiore ricchezza implica anche una maggiore influenza politica, specie in un’epoca in cui le grandi ideologie egualitarie sono praticamente tramontate, la tassazione diventa sempre meno progressiva e le misure di welfare sempre meno sostenibili.

5.2.3 D’altronde, l’equality of outcome è a sua volta un’astrazione. In nessun paese oggi esiste la possibilità che un’azione politica, per quanto energica fosse, conduca a un’effettiva uguaglianza materiale tra i cittadini, tale da vanificare i benefici che la meritocrazia garantisce ai più brillanti. Semmai, bisogna constatare che le differenze di classe che esistevano anche nei paesi più liberisti, ad esempio, negli anni Settanta, impallidiscono rispetto a quelle di oggi, e un analogo andamento c’è stato anche in paesi, come il nostro, dove il liberismo non è mai stato dominante. Se le disuguaglianze che c’erano allora erano eque ed accettabili, quelle di oggi non possono che essere inique.

5.3 Ma la progressiva divaricazione tra le condizioni di vita di un’esigua classe “privilegiata” e quelle di praticamente tutto il resto dei cittadini non ha solo l’effetto di esacerbare gli effetti sulle classi più deboli dei periodi di crisi economica: ha anche la conseguenza di indebolire se non sciogliere i legami di coesione sociale che, in una società sana, fanno pensare ai cittadini di essere bene o male “tutti nella stessa barca”. In una democrazia, quando la middle class ha la percezione di essere stata abbandonata a se stessa da un’élite che persegue esclusivamente obiettivi di ricchezza personale esorbitante, si aprono spazi enormi e incontrastati al populismo.

5.4 Una politica del terzo millennio, consapevole sia dei vantaggi che dei rischi che l’economia di mercato comporta, non può rinunciare a controbilanciare gli effetti centrifughi che la polarizzazione della ricchezza comporta. È indispensabile che la progressività della tassazione sui redditi più elevati (ma non sui patrimoni, pena raddoppiare le iniquità) sia ripristinata, e che le risorse che ne derivino siano destinate al rafforzamento dei servizi gratuiti di base che, meglio dei sussidi e delle no-tax area, rappresentano un reale reddito di cittadinanza per i meno abbienti. Istruzione, salute, sicurezza, assistenza efficaci, gratuite o a bassissimo costo e accessibili a tutti i cittadini sono i servizi che lo Stato deve rafforzare anziché indebolire per incontrare i bisogni essenziali di cui abbiamo parlato.

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