Perché discutere, per chi?

Pierluigi Battista deve avermi letto nel pensiero, sono sicuro che sia così. Avevo scritto un breve post sull’argomento pochi giorni fa, poi l’ho cestinato perché mi pareva inutilmente lamentoso. Ma se si lamenta Battista lo posso fare anch’io! Scrive il giornalista (da qualche settimana passato all’HuffPost con una rubrica culturale):

[…] non si discute più, sembra tramontata la civiltà della discussione. La civiltà della discussione esige forza argomentativa, capacità di articolare un pensiero, fatica intellettuale e persino, sempre che l’espressione non sembri ridicolmente desueta e magniloquente, un minimo di tensione ideale. La civiltà della discussione considera il disaccordo come una risorsa e non un peccato e l’opinione differente una sfida e non un oltraggio. Dà per scontato che chi ha un’opinione differente, anche opposta, persino sgradevole, non è un reprobo da linciare in branco, ma un interlocutore con cui entrare civilmente in conflitto. Invece accade regolarmente il contrario: l’opinione diversa va tacitata, messa al bando, isolata.

È tutto qui il nocciolo del mio pensiero di queste settimane. Su questo blog abbiamo scritto, in oltre sette anni, su più o meno tutti i principali problemi economici e sociali, con assoluta libertà etica e politica, guidati solo dal desiderio di argomentare. In generale (non possiamo certo esserci sempre riusciti) ogni nostra opinione, ogni nostro giudizio, è stato spiegato, sviscerato, definito, con dati se disponibili, con inferenze logiche negli altri casi, inferenze disponibili a passare il vaglio critico di eventuali fallacie.

Poi, ovviamente, possiamo avere scritto cose sgradevoli, sulle quali diversi lettori possono non essersi trovati d’accordo; ma a memoria nessuno ci ha mai potuto dire: “quella cosa da voi detta è falsa, i dati sono sbagliati, la logica è fallace”. Nei casi di disaccordo, invece, abbiamo sempre volentieri ospitato i commenti contrari, e in diversi casi li abbiamo, sempre pacatamente, discussi e controargomentati.

Ma che fatica! E a cosa dovrebbe servire, alla fin fine?

Da un po’ di tempo, i lettori abituali l’avranno notato, siamo silenziosi; niente paura, è che siamo pieni di impegni personali che ci allontanano dalla tastiera, e appena possibile torneremo a scrivere. Ma – parlo solo per me – c’è anche una grande stanchezza. Vi faccio alcuni esempi di vicende che in questo periodo mi hanno un po’ allontanato dalla voglia di scrivere, sperando di farvi capire, ma occorre una comprensione più empatica che logica. Vediamo… È morto un grande cantautore; all’unisono tutti, nessuno escluso o quasi (nel “quasi” ci sono io) a scrivere e commentare sui giornali e sui social, a senso unico, glorificando un musicista che sì, è stato bravo, specie nel derelitto panorama musicale italiano, e che certamente meritava attenzione quel giorno, qualche riflessione musicologica il giorno dopo, e invece è stato tutto un coro uniforme, piatto, quasi di maniera, quasi obbligato; passati tre giorni, come a un segnale, stop, nessuno ne ha più parlato. Al di là del fatto in sé (ché, badate bene, tutti muoiono, grandi cantanti, grandi chimici, premi Nobel, volontari in Africa, perfino la gente comune, quando arriva vicino agli 80, ed è malata, rischia di morire) e al di là del valore dell’artista, io – scusate la mia miopia – ho visto all’opera la Grande Omologazione 2.0. Domani succederà qualcos’altro, di emotivamente solleticante, e tutti ancora, come un sol uomodonna, a concionare sostanzialmente a vanvera, su tutto e contro tutto, e poi, all’improvviso, oop!, stop, avanti un altro argomento. E non è che questo accade perché si è “discusso” a sufficienza, nel senso detto da Battista e molteplici volte da me su questo blog, che la discussione è solitamente una sequela di luoghi comuni, contrapposti ad altri luoghi comuni, ripetuti all’infinito, peana e insulti inclusi.

Ma se non siamo capaci di districarci da questa melassa, e ci mostriamo così prigionieri dei cliché mediatici, delle mode virali sui social, ma con chi discutere e argomentare?

Un altro esempio odioso per i più, lo so: la recentissima guerra (l’ennesima) fra Israele e palestinesi; anche qui una sequela infinita di stereotipi poco e male informati, in cui nessuno voleva un’autentica analisi, ma semplicemente prendere parte, quella ovviamente dei deboli e oppressi (i palestinesi) con glorificazione degli ebrei famosi che spiegavano come loro schifassero il governo israeliano. Io ho accuratamente evitato di scriverne perché la verità (quella che io considero tale) è assolutamente più sfumata e complessa di quella ipersemplificata abbondantemente girata sui media e sui social. Per dire: io il mio punto di vista, argomentato con numerose fonti autorevoli, l’avevo già espresso oltre 3 anni fa, in occasione di una precedente fiammata sanguinosa nell’area (il post lo trovate QUI): scrivevo delle colpe (ovvie, evidenti) dei governi israeliani, ma anche delle colpe enormi dei palestinesi. Sostenere un punto di vista intermedio, distante dalle colpe di entrambi i contendenti, e quindi capace di piangere i morti di entrambe le parti, non solo non è facilissimo da scrivere, ma diventa impopolare da diffondere e fastidioso da leggere. Se decine di amici personali, giornalisti intelligenti e blogger di fama hanno unilateralmente preso una parte (guarda caso quella retoricamente e ideologicamente più ovvia e più proficua in termini di like), perché mai dovrei spendere tempo ed energie per scrivere qualcosa di diverso? Per chi mai lo dovrei fare?

Vogliamo infine parlare di politica? Quella robetta di casa nostra che consente con discreta rapidità e facilità di sputar sentenze più o meno plausibili? Lo farei volentieri, lo faccio da anni, ma purtroppo non riesco più a trovare uno spunto degno di interesse; non riesco a trovare proprio la politica… La politica è morta e sepolta da anni, in Italia, al massimo i politici più intelligenti e seri cercano di amministrare qualcosa, ma non c’è politica – che è argomentazione all’ennesima potenza – ma solo squadre, chiese, fazioni e tribù. Continuo a leggere post (su Facebook) di amici colti e intelligenti che anziché discutere e argomentare, giudicano e sparano sull’avversario. Parlano per stereotipi, usano ammuffite parole d’ordine, rispondono pavlovianamente agli stimoli che ricevono. Il mio ultimo post su questo blog, di una settimana fa, riguardava una breve recensione al libro di Facci dedicato alla fine di Craxi e al lancio delle monetine al Raphael, il 30 aprile 93. Sapete che commenti ho ricevuto? “Ma ci possiamo fidare di Facci?”, oppure “Craxi ladro!” (l’autore di quest’ultima cretinata è stato bandito immediatamente dal gruppo). Non importano i contenuti, sui quali confrontarsi; contano i pregiudizi, contano i cliché stantii. Leggere il libro di Facci è troppo faticoso, leggere e capire la mia recensione mette in moto troppi neuroni, e poi a cosa servirebbe? Lo sappiamo già com’era la storia, no? Craxi ladro!

Ecco, a me tutto questo fa un pochino passare la voglia di insistere, di documentarmi, di scrivere cercando – quando più e quando meno, sono umano – di analizzare, discutere, indicare logiche, mostrare dati, esporre inferenze plausibili; se poi tutto questo finisce in “Craxi ladro!” (o qualunque altra ipersemplificazione tribale) a me cascano le braccia, e finisce che mi lascio facilmente distrarre da altre cose, piccole, quotidiane, personali, e in malora tutti!