Vorrei consigliare a tutti di leggere il rapporto che Facebook ha recentemente pubblicato dal titolo (non chiarissimo) Threat Report – The State of Influence Operations 2017-2020. In sostanza, si tratta di una sintesi delle azioni compiute da Facebook, nei quattro anni citati, per contrastare appunto le Influence Operations, definite come (traduzione mia) «azioni coordinate per manipolare o corrompere il dibattito pubblico in vista di un obiettivo strategico». In altre parole, Facebook ci racconta cosa ha fatto per contrastare le campagne di disinformazione sulla sua piattaforma, e in particolare una specifica tipologia di esse, quelle basate su un Coordinated Inauthentic Behavior, ossia quelle compiute da «una rete di account, Pagine e Gruppi che hanno al centro degli account fake che hanno lo scopo di ingannare Facebook e i suoi utenti su chi è dietro queste campagne e cosa stia cercando di ottenere». Si potrebbe, a ragione, discutere se concentrarsi su questa tipologia di violazioni sia insufficiente, ma prendiamo intanto in esame i dati che Facebook ci propone, e che sono comunque interessanti.
Nel quadriennio citato, che non a caso inizia subito dopo le elezioni presidenziali USA del 2016 e include quindi le misure prese a seguito di esse, Facebook ha individuato e “chiuso” oltre 150 reti di disinformazione, che operavano sia su scala locale che internazionale. La collocazione geografica di queste reti è riportata nella figura qui sotto:

In termini numerici, le reti erano collocate in prevalenza in Russia (27), Iran (23), Myanmar (9), USA (9), Ucraina (8) e così via. È utile sottolineare che questa è la collocazione delle reti, ma molte di esse operavano avendo come obiettivo anche o esclusivamente paesi diversi da quello “di residenza”. In particolare, gli USA sono stati il paese più colpito dalle operazioni di reti residenti all’estero, ed è appena il caso di ricordare le peculiarità delle competizioni elettorali statunitensi in questi anni.
D’altronde, secondo Facebook, le reti “malevole” scoperte erano sia governative o comunque istituzionali (ad esempio alcune russe o iraniane), sia private, che in modo crescente stanno creando un “mercato internazionale di servizi di disinformazione” e operano a pagamento, senza obiettivi propri ma vendendo le proprie capacità al miglior offerente.
Chi ci segue con attenzione sa che quello della manipolazione e della disinformazione tramite i Social è un tema che consideriamo critico per la democrazia in un’epoca in cui i tradizionali diritti civili e politici, per essere pienamente fruiti, devono accompagnarsi alla cittadinanza digitale che si appoggia su Internet e sulle maggiori piattaforme di comunicazione. Ne abbiamo parlato sia a proposito di altre analisi sulle minacce internazionali alla trasparenza e attendibilità delle informazioni, sia a proposito delle possibili contromisure, che non possono limitarsi al contrasto agli account fake che Facebook pone al centro di questa sua azione.
Pur con la sua potenza di fuoco, non è Facebook da solo che può opporsi in modo credibile a queste minacce (anche perché, come dimostrato in diversi casi, è proprio l’interesse economico di Facebook ad aver reso possibili molte di esse); la pressione consapevole degli utenti, anzi dei cittadini, di Internet deve indurre sia i governi democratici che le grandi aziende che possiedono le piattaforme dominanti a prendere misure coordinate e decisive.