Colpa e destino

Il mio post di ieri ha provocato un dibattito decisamente minimo ma interessante dove alcun* lettori/trici (mannaggia al linguaggio di genere) propongono una distinzione fra colpa e responsabilità. In sintesi: ‘colpa’ è concetto etico, dal quale occorre rifuggire, per interpretare il mondo, inclusi gli atti ostili di cui abbiamo parlato ieri, alla luce del concetto di responsabilità. Vale a dire: non mi importa un fico secco se non sei stato amato da piccolo, se sei stato bullizzato, se hai sofferto; se commetti un atto doloso ne sei responsabile. Ovviamente il lettore deve declinare questo asserto un po’ estremo nelle mille varianti concrete e quotidiane, e il succo resta: tu sei comunque responsabile di quello che fai.

Ovviamente sono d’accordo al 100%, e lo testimoniano i numerosi post che negli anni ho scritto sul tema della responsabilità individuale. Ovvio che ciascuno è responsabile. Il punto è che il mio post di ieri non parlava di questo.

La responsabilità è un concetto giuridico: se hai commesso un crimine vai in prigione, semmai con attenuanti ma ci vai. Traslato da quel campo è comunque un concetto razionalistico: se c’è un effetto c’è stata una causa, se la causa sei tu, allora tu sei responsabile degli effetti.

Non deve comunque sfuggire che in questo pensiero c’è la medesima ontologia del concetto di colpa. C’è un dito che indica l’artefice del male, e costui ne ha “colpa” in senso lato, non necessariamente cristiano o moralistico, e se non vi piace ‘colpa’ mettete pure ‘responsabilità’, che non cambia affatto la logica complessiva.

Ciò detto restiamo a punto di partenza: che l’individuo abbia una colpa o una più generica responsabilità, osserviamo con facilità che il mondo è pieno zeppo di persone che compiono o non compiono gesti che hanno conseguenze spiacevoli per qualcuno. Se, dopo avere allungato il dito della responsabilità, vogliamo farne un’analisi (per capire perché il male sia così diffuso nel mondo, per vedere se si può cambiare qualcosa, che ne so? Per “prevenire” qualche potenziale guaio…) allora dobbiamo a mio avviso partire dal post di ieri che assumeva uno dei possibili punti di vista, quello psicologico-relazionale: se sei affettivamente deprivato sin dall’infanzia, potresti sviluppare un carattere incline al male (vado per le spicce; per favore non commentate sul concetto di ‘Male’, che qui non è il caso). Preferite un approccio sociologico? Vi accontento: se provenite da classi sociali povere e socialmente marginali, dove si vive in otto in un appartamento abusivo di una periferia abbandonata, e gli adulti attorno a voi vivono di espedienti e i vostri fratelli maggiori sniffano colla, ecco: c’è una discreta possibilità che da grandi diventiate delle persone cattive. Ne volete una antropologica? Una economica? Le scienze sociali hanno delle interessanti teorie, ciascuna con una discreta dose di predittività, sui comportamenti adulti di bambini poco scolarizzati, di famiglie povere, con padri in galera, madri puttane, paesi in guerra e meta di turismo sessuale, lavoro minorile obbligato, cibo da cercare fra i rifiuti, sonno condiviso coi ratti eccetera. 

Sì, mi sono lasciato prendere la mano, ma c’è una ragione: se riuscite a vedere come queste situazioni estreme agiscano in profondità nei futuri comportamenti da adulti (e, notate: estreme per noi ricchi occidentali, ma consuetudinarie per molti milioni di minori nel mondo) allora potete fare una semplice operazione logica, di progressivo decremento della drammaticità delle condizioni esterne, immaginando condizioni educative via via meno pesanti ma comunque presenti, fino ad arrivare a condizioni nostrane, occidentali, italiane, in cui – se non siamo ciechi e sordi – continuiamo a vedere periferie devastate, gang giovanili, spaccio di droga, problemi psichiatrici a gogo, insuccessi scolastici guardati con disinteresse da famiglie assenti (e sarà che ho lavorato per diversi anni per una grande Ong che si occupa di questi problemi con decine e decine di interventi, non è che si sono inventati un problema fasullo…).

Arrivo al punto rispondendo così alle amichevoli critiche ricevute: a me non interessa – qui, al momento – niente della responsabilità, che ovviamente c’è. A me interessa questa massa enorme di sofferenza diffusa, assai più capillarmente – questo volevo dire – di quanto appaia da episodi eclatanti. Tutte le ingiustizie, tutte le offese, tutte le mancanze di amore, tutti gli sgarbi, tutti gli abbandoni, creano una massa opprimente di capitale sociale negativo che non sta buono, da qualche parte, a turbare episodicamente il sonno di qualche orfano maltrattato; questo capitale sociale negativo è una costante presenza nel mondo, agisce nelle mille e mille azioni che ognuno di noi (non vedo perché mettersi dalla parte dei buoni e presunti “felici”) compie ogni giorno, forse senza neppure accorgersene.

Il dodicenne di cui parlavo ieri è un caso estremo? Non credo proprio. Non sarà usuale nel mondo borghese al quale apparteniamo noi (io che scrivo e voi che leggete, almeno per la maggior parte) ma sono il tessuto vitale della società in cui ci muoviamo. E anche supponendo che una bella fetta di umanità (alla quale apparterremo io che scrivo e voi che leggete) sia esente da queste brutture, ha avuto un’infanzia felice, ottimi insegnanti e via discorrendo, questa fetta è minoritaria, e comunque non va da nessuna parte senza tutti quegli altri: non salva il pianeta senza gli inquinatori, non equilibra il gap di genere senza i maschilisti, non sviluppa il Paese senza i fancazzisti, non modernizza la Pubblica Amministrazione senza i furbetti del cartellino, non migliora la scuola senza i sindacalizzati corporativi, eccetera eccetera eccetera.

E questo è quanto.

(Copertina: lavoro minorile in Guatemala, 2006. Foto dell’autore)