La credibilità

Ai commenti maliziosi degli americani, che nella loro tradizionale arroganza non hanno mandato giù la velocità olimpica di Jacobs, si aggiunge quella britannica che allude a rapporti del velocista con un tizio indagato per traffico di anabolizzanti (sul Times, eh? non al pub dopo la terza pinta!). Se Jàcobs fosse stato, per esempio, Jacòbs, un francese, probabilmente questa fastidiosa malizia non sarebbe stata espressa, almeno non in quel modo volgare.

Se questo accade è, semplicemente, perché ce lo meritiamo.

Gli stereotipi, in particolare questi che riguardano il giudizio fra popoli, sono antichi e consolidati. Li ritrovate, per dire, in Tolstoj:

solo i tedeschi possono essere sicuri di sé sulla base di un’idea astratta, com’è la dottrina, cioè la pseudo-conoscenza della verità assoluta. Il francese può sentirsi sicuro di sé perché si crede personalmente, sia per doti fisiche che d’intelletto, irresistibile e affascinante, di fronte agli uomini come alle donne. L’inglese è sicuro di sé perché è cittadino del paese meglio ordinato del mondo; perciò, in quanto inglese, non può che esser ben fatto. L’italiano è sicuro di sé perché è irrequieto ed esaltabile, e facilmente si dimentica di se stesso e degli altri. Il russo è sicuro di sé perché non sa e non vuol sapere nulla, nella persuasione che nulla si può sapere. Il tedesco è sicuro di sé nel peggiore dei modi, nel modo più disgustoso e inesorabile, perché è ciecamente convinto di sapere la verità: una scienza, cioè, da lui stesso elaborata. (Guerra e pace)

Ma ho ritrovato addirittura in Voltaire dei riferimenti, in pieno ‘700, al carattere italiano considerato debole e servile, e ce lo siamo sempre detto anche fra noi, a iniziare dalla “serva Italia” di Dante per continuare con la tremenda analisi critica di Leopardi (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, scritto nel 1824, dovrebbe essere lettura obbligatoria nei licei).

Quindi, fra noi possiamo dircelo: gli italiani (per tante ragioni, ma chi se ne frega, la conclusione è questa) sono poco seri, inaffidabili, profittatori, piagnoni (chiagne e fotte), servili all’occorrenza (Franza o Spagna purché se magna), menefreghisti, familisti eccetera eccetera. Se il mondo ci conosce così da secoli, e ne abbiamo dato prove continue (vedere l’ignobile opportunismo nella Prima guerra mondiale, e ci disse bene, e l’altrettanto ignobile nella Seconda, e ci disse malissimo), perché mai, facendo – per una volta, inattesa – una cosa buona, non dovremmo incorrere nell’incredulità altrui, specie di popoli che nel bene o nel male sono più rigorosi di noi? Perché mai non dovrebbero pensare all’imboglio, o alla episodica botta di fortuna, ancora più inaccettabile – per loro – perché la formica odia la cicala fortunata.

Come qualunque persona assennata sa,la credibilità si costruisce in anni di sacrifici e si perde in un attimo, alla prima sciocchezza. E restando anche solo negli ultimi decenni gli italiani sono stati vaghi sugli scenari internazionali, meschinelli in Europa, sperperatori di risorse, laboratorio di populismi… aggiungete voi.

Quella è la base di partenza, che ci piaccia o no.

Oggi, però, qualcosa è cambiato. Qualcosa di fragilissimo, sia chiaro, che inizia con la vittoria – non vi stupisca – dei Måneskin all’Eurovision, a maggio (ora il gruppo rock italiano è ai vertici di tutte le classifiche internazionali e pubblicano un brano con Iggy Pop, non so se mi spiego) e con la conquista degli Europei di calcio, e oggi con la straordinaria impresa olimpica. Tutto questo – assieme ad altri fattori meno popolari – sta puntando gli occhi del mondo sul nostro Paese; con stupore e qualche incredulità, ma anche con apprezzamento. Al centro di tutto, a dare valore a tutto, c’è Mario Draghi, il primo premier credibile dopo lunghe sequenze di pupazzi, di voltagabbana, di chiacchieroni fatui. I successi musicali e sportivi accendono il riflettore a livello di massa, ma i burocrati di Bruxelles o le diplomazie che contano, se ne fregano dei Måneskin e guardano a cosa combiniamo col PNRR, come conteniamo la pandemia, cosa facciamo sul piano delle riforme, sull’agenda digitale, e per ora, va detto, siamo oltre la sufficienza; non troppo oltre ma, caspita!, siamo italiani ed è incredibile che abbiamo una crescita del PIL straordinaria, la pandemia non ci è sfuggita di mano un’altra volta, abbiamo riformato la giustizia (una riformetta, ma piuttosto che niente è meglio piuttosto).

Siamo in uno di quei momenti sospesi in cui può accadere tutto: tornare alla “normale” dissennatezza italiana, mandare tutto in malora e sprecare le occasioni che la storia ci ha servito in un piatto d’argento, oppure, dai, forza! Sentirsi orgogliosi di essere italiani grazie a Damiano e a Marcell, poi sentirsi a proprio agio in questa sensazione e proseguirla sostenendo un’idea di nazione moderna.

In questa fase storica le forze avverse sono sovrabbondanti: Meloni miete consensi, e Salvini fa la Quinta colonna nel governo; i “democratici” hanno abbandonato la tradizione socialdemocratica e i liberali – quattro gatti – hanno fondato ciascuno un partitino ininfluente. L’opinione pubblica non esiste, i giornali fanno pena e non si vede uno straccio di intellettuale capace di ergersi e indicare la strada (la recente vicenda di Cacciari e Agamben ha messo un macigno sulla credibilità di questi nomi di un’intellettualità un tempo apprezzabile).

In questo momento di sospensione, dove una brezza, un tocco, una casualità, può rifarci precipitare nel disprezzo, ogni cittadino deve farsi persona politica, ogni sua azione deve essere un’azione politica. Sostenere un Paese che può rialzarsi, questa è la sfida.