Il giornalista Bartoletti ha chiuso il suo account Facebook per disperazione. Lo capisco. Io che non sono Bartoletti ho ridotto i miei 2000 “amici” di Facebook a meno di 70, ho chiuso il mio account Twitter l’altro giorno, sostanzialmente ho messo in pausa Linkedin, fatico a mettere qualcosa su YouTube (dove ho un canale che in anni passati è stato abbastanza attivo), comincio a faticare a rispondere anche ad alcuni commenti scritti da quell’élite di lettori di Hic Rhodus, figuratevi gli altri. Sto seriamente pensando di seguire Bartoletti, perché è inutile stare su Facebook con meno di 70 “amici”; la logica dei social è massiva, se vuoi un cenacolo fra pochi fai una videoconferenza, scrivi un’email, ti vedi al bar con gli amici. I social sono espansione e condivisione, un concetto inizialmente affascinante, ma cosa condividiamo, esattamente?
Fatico anche a leggere i giornali, mentre i telegiornali ho praticamente smesso. Dovrebbero essere le fonti dell’informazioni sulla quale mi formo un’opinione, che poi (successivamente) potrei condividere sui social, ma con pochissime eccezioni tutto questo non avviene (potrei farvi la lista dei due, forse due e mezzo, quotidiani leggibili almeno in parte, e spiegare perché, a mio avviso, tutto il resto è monnezza).
Volendo capire pezzettini sparsi del mondo, giusto brandelli, peraltro incerti e sempre smentibili, occorrerebbe avere una quantità enorme di notizie sui fatti (un’alluvione in Germania, un assessore leghista che ammazza un povero cristo, l’iter del ddl Zan…) e poi accedere a un discreta quantità di commenti su ciascuno di quei fatti. L’alluvione in Germania è un fatto, cosa si è fatto e non fatto prima e dopo l’alluvione è un insieme di fatti necessari per capire il fatto, tutti i commenti sul disastro ambientale sono opinioni, che dovrei giudicare con competenze che dovrei acquisire o, non potendo, delegando a competenze altrui, possibilmente con posizioni alternative, e sapendo scegliere bene gli opinionisti (e quindi indagando un minimo fra quelli attendibili e quelli meno, ma anche qui: da quale punto di vista?). Il virus è un fatto comprensibile solo con masse di dati controverse e attraverso pareri alternativi; non si può pretendere che mi prenda una laurea al volo in medicina e chirurgia, con annessa specializzazione, ma quelli che vanno in TV e pretendono di spiegarmi come vanno le cose (come sono concretamente i fatti) non rappresentano “la scienza” ma alcune sue parti, condite col narcisismo dei protagonisti, col domande intelligenti o capziose dei giornalisti… E quando dicono l’uno il contrario dell’altro come la mettiamo?
I nostri lettori avranno letto gli ultimi due articoli su questo blog; nel primo Ottonieri esponeva dati e ragioni per mostrare una certa riserva al green pass; nel secondo io contrapponevo altri dati e considerazioni a sostegno addirittura dell’obbligo vaccinale. Chi ha ragione fra i due? Risposta: nessuno, oppure e meglio: entrambi. Dipende dai dati che usi (se e quando sono disponibili dei dati) e dalle conseguenti inferenze che fai, inferenze che sono il frutto non già di algoritmi infallibili, ma di personali convinzioni, credenze, priorità, alimentate dalle competenze, dalle esperienze, dalla forma della personale esigenza nonché da cosa avete mangiato a colazione. Siamo preda di umori, e pre-giudizi, e abitudini, e culture radicate, e affrontiamo l’interpretazione quotidiana del mondo partendo già condizionati, già impossibilitati di una qualsivoglia analisi “oggettiva” della realtà che, sia detto chiaramente, non esiste affatto quando consideriamo il mondo sociale, quello delle relazioni. Vale a dire: tranne se siete dei chimici che parlano di chimica, o dei fisici che parlano di fisica (e non sempre neppure in questi casi), quando parlate di etica, politica, educazione, lavoro, cultura, scuola, vacanze, vincitori e perdenti a Cannes, dieta mediterranea, previdenza sociale, ambiente, raccolta differenziata, legittima difesa, giochi da tavolo, e non so cos’altro, ma includendo certamente anche le politiche sanitarie, quando parlate, insomma, quotidianamente, in sostanzialmente tutte, ma proprio tutte, le cose che fate e di cui discutete, ci sono questi elementi deficitari, limitativi, cose dette o capite male, elementi sottaciuti, altri elementi enfatizzati, eccetera tutto quel che la linguistica, l’ermeneutica e la sociologia ci dicono da un bel po’ di anni.
Tornando a me e Ottonieri: noi abbiamo scritto due post mediamente documentati; citiamo dati ufficiali importanti indicandone la fonte, facciamo ragionamenti che sul piano della logica non sono poi malaccio… ma diciamo due cose differenti. Perché? Perché se non parliamo di chimica e di fisica non c’è una verità ma molteplici, ciascuna valida sotto una certa prospettiva, da un determinato punto di vista.
E noi, mi permetto di dire, siamo persone che si informano prima di scrivere su Hic Rhodus… mentre il 90% di quelli che commentano la qualunque su Facebook sono raramente altrettanto informati, e si prestano a logiche non sempre molto logiche.
L’idea di un’opinione pubblica capace di ragionare e alimentare l’azione politica, che ha fatto capolino molti decenni fa in un disegno idilliaco di società liberale occidentale, non so dire se sia mai esistita (sicuramente mai a livello di massa) ma certamente non esiste oggi. Quando diciamo che le opinioni hanno sostituito le competenze, non diciamo neppure una cosa giusta, ché la realtà è di gran lunga peggiore. Le opinioni, quelle fondate sulla ricerca di informazioni attendibili, il confronto di posizioni diverse, eccetera, vanno benissimo per il popolo chiamato a giudicare il ceto politico. Ma oggi è un lusso anche avere un’opinione, nel senso che – come ho scritto sopra – una vera opinione costa una fatica enorme, un dispendio di energie ragguardevole. Oggi sui social, e sempre più sui giornali, non abbiamo neppur più opinioni ma l’affermazione di uno stato d’animo.
Ciascuno di noi, nel caos della complessità sociale, si ficca dentro alcune (poche) gabbie stereotipate, definite con due o tre slogan, e tanto basta per avere sempre in tasca una sorta di cartina di tornasole per decidere se tutto ciò che ci circonda è buono o cattivo, conforme o difforme, accettabile o no. Queste gabbie stereotipate del pensiero hanno largamente sostituito le ideologie del Novecento, anche se goffamente, in molti casi, fingono di sovrapporsi ad esse: il dichiararsi di destra e di sinistra, per esempio, non significa assolutamente più nulla. Trovo la stessa idiozia, assolutamente identica nella forma, fra commentatori col pensiero veloce di destra e in commentatori dall’etica irremovibile di sinistra. Perché non sono affatto “di destra” o “di sinistra”, ma semplicemente ingabbiati nell’ignoranza, nei cliché, nelle stereotipie, che commentano in base agli umori, ai desideri, alle speranze… bambini, in pratica, ché il Terzo Millennio ci ha portato in dono questo diffuso edonismo ed egocentrismo di massa, il senso di onnipotenza, i legami deboli (che si attagliano alla perfezione ai social), l’appartenenza fortissima e fragile, il disimpegno di massa, il qualunquismo.
Il venire meno di un’opinione pubblica di massa (una cosa che comunque in Italia non c’è stata mai, troppo anglosassone) coincide col venire meno di una politica efficace. I due fenomeni sono speculari: scuola e università allo sbando, agenzie culturali e di socializzazione scomparse (la parrocchia come la sezione del PCI) e il demone dei social (non fatemi spiegare cose note, peraltro trattate anche da noi) hanno condotto la politica a lotta autocentrata per bande, dove qualunque cosa dica qualunque politico viene detta per un ritorno, semmai simbolico, immediato; e l’opinione pubblica a tifare scioccamente per l’una o l’altra banda per ragioni che se vanno bene sono prepolitiche, ma nella maggior parte dei casi sono al massimo forme compulsive e pavloviane di risposte a stimoli non compresi.
Vanno in questo esatto senso le reazioni all’oggetto che sempre più spesso mi capita di incontrare, anche in certi commenti ai post di questo blog (semmai sulla pagina Facebook che abbiamo); fai una critica al vuoto macinare della politica utilizzando, come caso, il ddl Zan? Allora omofobo! Parli delle colpe di Arafat e dei palestinesi, assieme a quelle di Israele? Allora sionista! Critichi di eccessi del MeToo e della cancel culture? Allora maschilista! E chiuso lì, basta, passiamo ad altro…
Io di mestiere faccio l’analista di politiche pubbliche; valuto, in pratica, l’efficacia delle decisioni pubbliche, siano essere politiche, programmi, servizi offerti ai cittadini etc. Per molti anni ho creduto nello straordinario contributo che la valutazione poteva offrire al miglioramento del lavoro istituzionale, e all’offerta informativa che ne derivava per l’opinione pubblica. Per esempio sul reddito di cittadinanza Conte sta blaterando a vuoto, assumendo quel provvedimento come bandiera identitaria del Movimento, mentre diversi dati recentissimi mostrano come sia stato un mezzo fallimento (ne ho scritto QUI); i dati disponibili, molti, argomentati, seri, che saranno certamente letti da pochi addetti ai lavori ma, scommetterei, non da Conte, non da Di Maio, comunque non dai politici chiamati a cancellare quella legge, o modificarla, o mantenerla così com’è. Ecco: la valutazione delle politiche, coi suoi strumenti analitici, può anche essere fatta a regola d’arte, ma poi deve essere letta, deve circolare, deve contribuire a formare l’opinione pubblica, ma è troppo faticoso, ci sono troppe pagine da leggere e non c’è nemmeno una figura (tranne i grafici)!
L’idea che i tecnici possano aiutare il popolo a capire cosa succede, cosa capita loro, cosa capiterà ai loro figli, è una sciocchezza romantica; i tecnici, gli intellettuali, le élite, non sanno parlare a un popolo che non è stato educato a cercare un senso alle cose. E poiché, arrivato a questo punto, mi ricordo che queste cose le ho scritte, abbastanza chiaramente, esattamente cinque anni fa, rimando a quel testo e la chiudo qui.