Qualche settimana fa, Claudio Bezzi ha pubblicato un articolo sugli intellettuali del Novecento, nel quale, prendendone in esame un elenco, commentava amaramente che, se il Novecento abbondava di queste figure, il nuovo millennio ne è desolatamente povero. Di cosa sia un intellettuale e della crisi di questo ruolo Claudio ha peraltro parlato in diversi articoli qui su Hic Rhodus (uno per tutti, questo), e da parte mia vorrei oggi limitarmi ad aggiungere alcune considerazioni ispirate dalle vicende che stiamo attraversando.
Il fatto è che un intellettuale è, ai miei occhi, qualcuno che partendo da un suo patrimonio culturale è in grado di leggere e interpretare una realtà complessa e di trasmettere questa interpretazione agli altri (idealmente, a tutti; nella realtà concreta, a chi abbia gli strumenti minimi per comprenderlo). L’intellettuale non è uno studioso, o non semplicemente uno studioso, perché uno studioso può limitarsi a occuparsi del suo campo di interesse senza direttamente impegnarsi nel tradurre le sue conoscenze in un mezzo di crescita per chi non le possiede. E non è un politico, nel senso che per lui la politica può essere un punto di arrivo, come strumento per incidere nella società, ma non un punto di partenza, un fine a cui subordinare la sua analisi critica della realtà. Questo è quello che mi aspetto io da un intellettuale.
Ebbene, oggi che il paese si trova ad attraversare una difficoltà oggettivamente inedita, stiamo assistendo allo spettacolo di “intellettuali” che, onestamente, stanno facendo una pessima figura. Per essere chiari: se in una crisi un intellettuale, anziché una fonte di chiarezza e una guida autorevole, si dimostra un chiacchierone da talk-show, che usa gli stessi argomenti dei polemisti da bar, o aumenta i dubbi e la confusione nonostante i suoi titoli e le sue pubblicazioni, costui non è un intellettuale, quali che siano le sue credenziali accademiche. Sono le crisi i momenti che mettono a nudo forze e debolezze di una comunità; e questa crisi del Covid-19 ha, a mio avviso, scoperto una linea di frattura tra due diverse incarnazioni dell’intellettuale mancato di cui parlavo.
La prima incarnazione è quella, più tradizionale, degli umanisti. Da sempre, infatti, in Italia per intellettuale si intende automaticamente un filosofo, un letterato, un giornalista, un giurista, insomma qualcuno che abbia una solida cultura di stampo umanistico. Praticamente tutti gli intellettuali riportati nell’elenco dell’articolo di Claudio Bezzi che ho citato erano umanisti, magari sui generis come Fabrizio De Andrè; l’umanista è il prototipo di intellettuale in Italia.
Ebbene, in questa crisi (e ovviamente generalizzo, forse indebitamente) gli umanisti hanno mostrato un’insanabile inadeguatezza: dovendo prendere una posizione non già sui massimi sistemi, ma su un problema concreto, complesso ma reale, e soprattutto empirico e non teorico, si sono dimostrati né più né meno capaci di comprenderlo di qualsiasi uomo della strada. In Italia, infatti, è possibile arrivare alle più alte vette della conoscenza filosofica, o giuridica, senza praticamente saper fare due più due: l’ignoranza più completa delle basi della matematica, della statistica, delle scienze naturali e dei loro metodi, è un connotato non eccezionale ma abituale degli “intellettuali” umanisti di questo paese. E questo si riflette sul fatto che in prima fila tra gli “antivaccinisti” (e non parlo di obiezioni al Green Pass, che è una misura politico-amministrativa) troviamo appunto “autorevoli” umanisti che, nell’esporre le proprie opinioni, dimostrano appunto di mancare delle basi di cultura scientifica di cui dicevo. Basi, intendiamoci, non nozioni avanzate: quelle basi senza le quali oggi si è di fatto analfabeti, perché senza di esse i fenomeni della nostra civiltà non possono essere compresi, punto e basta. Gli umanisti hanno dimostrato chiarissimamente di essere incapaci di comprendere i fatti, e quindi non possono essere considerati intellettuali, ma, nella pratica quotidiana, dotti ignoranti, per eruditi che possano essere nelle loro discipline. Estremizzo, ovviamente, ma il dato sconsolante mi pare questo.
Dall’altra parte, abbiamo visto proporsi gli scienziati, ed è stata una novità. Forse per la prima volta, esperti di ambito scientifico (non solo medici) sono stati interrogati e visti come potenziali guide per i cittadini, persone a cui rivolgersi per capire come interpretare i fatti, quali opinioni accettare, come regolarsi di fronte a problemi troppo ardui.
Ebbene, sempre generalizzando, mi sento di dire che gli scienziati hanno fallito in questo compito, che peraltro forse, e a torto, neanche si erano resi conto di poter e dover svolgere. Hanno fallito non per incompetenza di merito, intendiamoci: generalmente, sui fatti empirici della pandemia gli scienziati hanno fornito informazioni corrette. Il problema è che non sono stati in grado di rendere le informazioni scientificamente “corrette” adeguatamente interpretabili e utilizzabili da chi scienziato non è, e che non sono stati in grado di offrire ai cittadini una voce autorevole ma anche consapevole della differenza tra parlare a un pubblico “avvertito” e parlare a tutti. Se come esponente simbolico di questa categoria prendiamo Roberto Burioni, è facile concludere (portando anche in questo caso la mia valutazione alle estreme conseguenze) che gli scienziati capiscono i fatti e i fenomeni, ma non capiscono le persone, e non sanno (o non vogliono) trattare con esse, il che è in realtà l’essenza stessa del ruolo dell’intellettuale.
Facciamo un esempio: nella comunità scientifica, è normale elaborare teorie alternative. La scienza non è fatta di pensiero unico, e, peraltro, tutta la conoscenza scientifica di questo mondo non consente di prevedere il più semplice fatto con la certezza del 100%: del 99,999% magari sì, ma del 100% no. Ecco perché il dubbio, le ipotesi magari azzardate ma feconde, sono parte integrante del metodo scientifico, e possono favorire il progresso verso modelli della realtà sempre più accurati.
Ma se questa conoscenza approssimata e in divenire deve essere usata per elaborare e trasmettere al pubblico un’interpretazione di fatti concreti e di interesse generale, cosa succede? Noi abbiamo visto scienziati ignorare ogni incertezza e proclamare apoditticamente il bianco o il nero, evidentemente per semplificare, e ne abbiamo visti altri invece riportare dubbi, incertezze, illazioni, evidentemente per essere assolutamente “corretti”, ed entrambe le cose si sono dimostrate controproducenti. Allo stesso tempo, abbiamo visto umanisti, evidentemente abituati ad attendersi certezze logiche e non approssimazioni empiriche, capire questa situazione tanto poco quanto i normali cittadini, e concludere che “anche gli scienziati sono in disaccordo tra loro”, trasmettendo un messaggio sbagliato e falso.
Ecco, questa frattura tra umanisti e scienziati ha a mio modo di vedere replicato le violente polarizzazioni che attraversano tutta la nostra comunità (polarizzazioni alimentate ad arte, ma questo è un altro discorso). L’assenza (o il silenzio) di intellettuali che potessero dirci “Ecco, i fatti sono questi, ma vanno intesi in questo modo, e per la nostra società hanno questo significato, oggi e nella prospettiva di domani” è una parte non piccola della gravità di questo momento. E questa assenza non è occasionale, ma è un fatto strutturale: i limiti dimostrati da umanisti e scienziati in questa occasione si ripresenterebbero appena dovessimo discutere di cambiamento climatico, o di demografia, o di uno qualsiasi dei mille problemi che non possono essere compresi senza capire di scienza e non possono essere condivisi senza un approccio umanistico in senso ampio.
Cosa fare? Siamo condannati a un perenne cortocircuito tra autorità istituzionali poco credibili e cittadini confusi, senza la possibile mediazione di figure che possano ispirare le prime e illuminare i secondi?
Gli intellettuali “veri”, capaci di conciliare umanesimo e metodo scientifico, non crescono sugli alberi, vanno formati. Se nel Novecento essere umanisti poteva ancora bastare per interpretare la realtà, oggi no. Oggi occorre una sintesi per la quale esistono pochissimi percorsi formativi: in sociologia (ma non tutti sono come il nostro amico Claudio Bezzi); forse certi in psicologia; forse certe specialità della filosofia. Penso che abbiamo bisogno di introdurre nei licei classici e nelle facoltà umanistiche materie ed esami sui fondamenti della scienza, e che chi studia scienze debba aver fatto un buon liceo, o acquisire competenze equivalenti. Questo non solo per avere, al vertice di questi percorsi, intellettuali “veri” ad arricchire la nostra società, ma per avere cittadini consapevoli e critici, che è forse una ricchezza anche maggiore.