3) Le scienze sociali non hanno come scopo la conoscenza finita degli esseri umani

Questo testo fa parte di una serie; la presentazione del lavoro e l’introduzione generale la trovate QUI.

Tutta la serie la trovate cliccando l’hashtag #dossier-metodo.

3.1) Le scienze sociali producono senso

La conclusione logica, dopo quanto discusso sopra, è che le scienze sociali hanno una missione differente rispetto alle scienze della natura. È diverso, profondamente diverso, l’oggetto di indagine: se nelle scienze della natura l’oggetto di studio è composto da cose (atomi, molecole) e da relazioni fra cose, nelle scienze sociali si tratta di individui e relazioni fra individui. In generale le cose “stanno ferme”, e quando si muovono lo fanno secondo percorsi non arbitrari e generalmente prevedibili; e le relazioni fra cose sono costanti nell’universo, come la gravità. 

La storia delle scienze della natura è illuminante: l’incomprensibile moto dei pianeti, dall’antichità ai tempi moderni, è diventato sforzo intellettuale per costruire modelli matematici sempre più precisi, in grado di determinare in maniera esatta il luogo dove un pianeta sarebbe stato in un determinato momento. La necessità di questa precisione (di natura predittiva), che spiegasse l’osservazione, ha dovuto fare i conti con una visione dell’universo prima eliocentrica poi di natura ancora più complessa, con la gravitazione universale, con un sacco di questioni che noi poveri scienziati sociali leggiamo con ammirazione capendo a fatica. Ma, alla fine, ecco il modello, ecco le teorie, ecco la precisione! 

Nulla di tutto questo è possibile nelle scienze sociali. Gli individui non sono pianeti che si muovono in orbite (più o meno) eterne, e non basta una sofisticata equazione per predirne i destini, se non individuali almeno di massa, come crederà Hari Seldon.

Quindi siamo di fronte a una necessaria scelta epistemologica; o riteniamo che sia “scienza” solo quella fisica e le sue ancelle, oppure comprendiamo che ogni scienza ha a che fare con uno specifico oggetto di studio che ne caratterizza metodi e finalità.

E se le finalità delle scienze sociali non possono essere la predittività, nel senso almeno che ha per l’astrofisico e il chimico, anche i metodi devono essere diversi.

Per quanto riguarda la finalità delle scienze sociali, escludendo la predittività e quindi (questo precede) la spiegazione, non resta che la comprensione. Lo scienziato sociale non spiega ma comprende; quindi non può anticipare la spiegazione con una predizione (se non in forme lasche, come abbiamo già visto al par. 2.2), ma può comprendere perché osserva i fatti (gli individui e le loro relazioni) e li riconduce a ipotesi, a teorie di breve e medio raggio, a spiegazioni parziali e fragili valide al momento, valide in un contesto, in una circostanza, in un tempo e luogo.

La straordinaria importanza di questa comprensione ex post (e a volte, e parzialmente, ex ante) è la costruzione di senso sociale.

Oggi (mentre sto scrivendo, fine marzo 2022) abbiamo la guerra in Europa, una guerra assurda, insensata, violenta, che porta morte e distruzione in Ucraina e, qualunque ne sia l’esito, porterà miseria e isolamento alla Russia. La guerra, grande archetipo umano, ci angoscia e abbiamo bisogno di capirla, di razionalizzarla, di trasformarla in un momento di maturazione. Le scienze sociali aiutano, con una ridda di ipotesi, teorie, dati e testimonianze spesso piene di contraddizioni, a comprendere. Così per la pandemia Covid e per ciascun evento epocale, tragico, globale. Capire i comportamenti sociali durante la pandemia, comprendere che una questione apparentemente lineare come “la malattia si contrasta con la medicina, quindi vacciniamoci tutti”, può essere contestata da gruppi consistenti di cittadini che oppongono altri asserti, altrettanto inconfutabili (per esempio: “le cure che devo fare le decido io, e non mi vaccino per un’imposizione governativa”, si colloca su un piano logico che non incrocia il precedente, e quindi può coesistere).

Oppure, semplicemente, al di fuori dai grandi eventi tragici, il valore del lavoro, la parità dei diritti, l’educazione dei figli, la comunicazione di massa… la comprensione sociale si avvicina alla spiegazione, sì, ma sempre in maniera parziale, cangiante, circostanziale, indiziaria. E contraddittoria, o quanto meno molteplice: per i no vax disponiamo di “spiegazioni” sociologiche, psicologiche, culturali, filosofico-politologiche, non perfettamente conciliabili l’una con l’altra; così per la guerra in Ucraina ma anche per la dispersione scolastica, la cultura d’impresa, la mafia, la parità di genere, l’efficacia di una politica, il valore di un progetto… Ancora prima che gli scienziati sociali affermino questa peculiarità delle loro discipline, l’ha capito il senso comune: non c’è progetto che non vada altrove rispetto a quanto progettato; non c’è politica che non abbia affetti inattesi; non c’è posizione ideologica che non sia confutabile da un’altra.

Tutto questo produce argomentazione, discussione, riflessione (dovrebbe…) che hanno una funzione precisissima: mettere in discussione i nostri schemi mentali, arricchirli, modificarli, farci elaborare nuovi concetti che utilizzeremo per meglio comprendere il mondo, e questo lo chiamiamo “costruire senso sociale”.

3.2) In che modo le scienze sociali producono senso

Qualcuno potrebbe, superficialmente, ritenere che le scienze sociali, come sopra descritte, siano poco più di una “filosofia” di modestissima utilità pratica. Questo paragrafo cercherà di confutare questa idea con un’analogia.

Il percorso di crescita intellettuale dell’individuo passa attraverso una continua rimodulazione dei propri schemi mentali attraverso le molteplici esperienze della sua vita. Nuove esperienze significano rimodellare, ampliare, riformulare i concetti che da quegli schemi mentali sortiscono. Il bambino piccolo che sbatte sulla sedia e si mette a piangere, impara dalla mamma che lo consola che quella cosa dura, di legno, in mezzo alla stanza, è una sedia. ‘Sedia’, per il bambino, sono quindi quegli oggetti di legno, con quattro ‘gambe’ e uno ‘schienale’ sui quali ci si accomoda quando si consumano i pasti. ‘Sedia’, oltre che un referente (un oggetto in mezzo alla stanza) è anche un concetto (il concetto di ‘sedia’, la sua definizione, la sua immagine archetipica, i suoi esempi empirici che abbiamo conosciuto), che ha un’estensione (tutte le sedie conosciute, per il bambino le sedie di casa) e un’intensione (le proprietà della sedia, per il bambino l’essere di legno solido che fa male se ci si sbatte contro).

Crescendo, il bambino impara che anche quelle del giardino sono sedie, anche se di metallo (aumenta l’intensione del concetto posseduto dal bambino), e anche quelle del vicino (cresce l’estensione). Con gli anni il bambino vedrà sedie di varie fogge e colori, a quattro, tre o anche una sola gamba, di vari materiali etc., e aumenterà l’estensione e l’intensione del suo concetto, fino a diventare, paradossalmente, più sfumato e dai confini incerti: quella specie di sedia gonfiabile simile a un puff, è ancora una sedia o ha un altro nome (ovvero: è un’altra cosa, non più ascrivibile alla categoria ‘sedia’, non più descrivibile col medesimo concetto)? Lo strapuntino sul treno, la poltrona a teatro, lo sgabello nel magazzino sono sedie o sono altri referenti che necessitano di nuovi concetti che gemmano per l’ampliarsi estensivamente e intensivamente dei concetti più vecchi, grazie a nuove esperienze che modificano i nostri schemi mentali?

Questo ampliamento dei concetti nell’individuo è analogo all’aumento di senso sociale prodotto dalle scienze dello spirito: ogni evento, fatto, processo, fenomeno oggetto di indagine modifica ipotesi e teorie, ne fa sorgere di nuove, all’incirca come gli schemi mentali si modificano nell’individuo generando nuovi concetti.

Così come l’accrescimento cognitivo individuale non ha limiti, ed è in costante crescita, così il senso sociale prodotto dagli scienziati sociali cresce costantemente; ma anche l’orizzonte sociale è sterminato e non ha un limite. La crescita di senso sociale (che non è priva di contraddizioni e arretramenti) non può finire, perché l’aumento di complessità necessità di sempre maggiore “senso” prodotto da sociologi, economisti etc. (e dopotutto anche l’universo dei fisici è senza limiti e le loro scoperte non avranno mai fine).

3.3) la produzione di senso nelle scienze sociali applicate

Da diversi decenni le scienze sociali si sono maggiormente rivolte ai problemi pratici di chi gestisce politiche e programmi (economici, di sviluppo, educativi, sanitari…) con attività di ricerca definite, genericamente, “valutazione” (o meglio: ricerca valutativa; in inglese Program Evaluation). Non quindi ricerca sociale per produrre un senso cognitivo generale, solitamente disponibile per altri scienziati e con una lenta e parziale percolazione a livello ordinario, di gente della strada. La ricerca valutativa è quindi solitamente meno libera di esplorare il mondo come si ritiene possa fare, per esempio, l’accademico, e deve concretamente aiutare il decisore pubblico a decomplessificare la realtà politica, amministrativa, gestionale, nonché sociale in vista degli interventi posti in essere, e per rispondere alla macro-domanda se quella politica (o programma) è stata efficace (e come, e quanto, e perché…).

Anche in questo caso la valutazione non può dare risposte con quel rigore “fisico” che non solo molti amministratori pretenderebbero, ma che i valutatori hanno lasciato abbondantemente intendere di poter produrre, dagli albori della pratica (grosso modo anni ’60 del secolo scorso) fino ad oggi. Oggi, in realtà, sono pochi (ma non pochissimi) quelli che illudono se stessi e i decisori in questa risposta certa, ma anche fra coloro che in astratto si dichiarano più cauti, che aderiscono a scuole di pensiero più disponibili a riconoscere l’imperscrutabilità della complessità, di fatto, nella pratica, si continuano a produrre ricerche valutative che dichiarano con sicumera a due decimali l’efficacia di un programma, senza avere dibattuto mezzo minuto sulla semantica di ‘efficacia’ e averne registrato l’inafferrabilità.

Ciò detto, anche la ricerca valutativa, esattamente come tutta la ricerca sociale dalla quale trae origine (e metodi) può produrre solo senso sociale. Volendo possiamo chiamarlo (ma non è affatto necessario) senso valutativo, che non può assolutamente mai dichiarare che una politica o un programma sia certamente efficace; e neppure (anche se già sarebbe un notevole passo avanti) che una certa parte, intendendo con ‘efficacia’ una data cosa, lo sia in tale percentuale. Se il valutatore arriva a una conclusione di questo genere, e lo fa non avventatamente, allora sta sintetizzando un pensiero assai più articolato e complesso che deve include il contesto della validità, i suoi vincoli, etc. (questa sintesi non può essere considerata errata in sé, perché ha funzioni eminentemente comunicative verso gli amministratori e decisori; l’errore è sul piano metodologico qualora si intendessero quelle sintesi come dirimenti o – feticcio ingenuo – “valide”).

Assai più interessante, dal punto di vista valutativo, è individuare e indagare i meccanismi (Pawson) che intervengono nel far sì che quel programma sia andato bene, benino, maluccio, in quelle circostanze, dati quei vincoli, alla luce delle tali condizioni, attori implicati, tempi, tenendo conto di determinate proprietà e non di moltissime altre, e così via.

Quei meccanismi individuati e descritti sono il senso prodotto dalla ricerca valutativa.

Gli amministratori, i decisori pubblici (e la collettività) si avvantaggiano dalla ricerca valutativa non già perché questa afferma che un programma sia andato bene o no, ma dal fatto che individuando i meccanismi sociali che hanno contribuito a determinare quell’esito, imparano. Ecco perché si afferma spesso che la valutazione è uno strumento di apprendimento organizzativo, che è altra cosa dall’affermare che sia uno strumento di giudizio dirimente. L’apprendimento organizzativo indotto dalla valutazione (ma l’aggettivo indica un limite; meglio sarebbe “l’apprendimento” e basta) implementa gli schemi mentali degli attori implicati, ne fa scorgere di nuovi, amplia l’intensione e l’estensione dei concetti collegati (relativi alla programmazione, gestione, etc.) e aumenta una consapevolezza che può essere trasferita a nuovi programmi e politiche (una nota finale: ciò che si impara da un programma non può essere trasferito in una nuova esperienza sic et simpliciter; il nuovo programma avrà infatti nuovi tempi e luoghi, nuovi o diversi attori, nuove modalità, etc. Dichiarare che si trasferisce una consapevolezza significa che un bagaglio di esperienza di alcuni attori implicato nel vecchio programma li renderà più attenti e consapevoli nel predisporre il nuovo, che comunque offrirà nuovi problemi e sfide nei quali quella consapevolezza avrà una certa utilità, non decisiva).

(Foto di Claudio Bezzi)