Nicola Mirenzi solleva alcuni dubbi, sull’HuffPost, coniugando una serie di accadimenti: la celebrazione – diciamo così – dei 5 anni dall’inchiesta sul New York Times che diede vita al movimento #MeToo; le accuse di molestie a carico di Richetti, il fatto della preside di Roma che avrebbe abusato di uno studente e infine il recente film di Gianni Amelio, Il Signore delle formiche, che parla di uno scandalo omosessuale degli anni ’60. Mi ha colpito la conclusione di Mirenzi, che riporto:
All’uscita di un cinema di Roma, l’altra sera, un gruppetto di ragazzi ne discuteva animatamente. Nessuno contestava che il processo e la condanna fossero una vergogna dello stato italiano. Questo era un dato di fatto, storia. L’attualità, quello che bruciava ancora, era un “dubbio”. Quanto può essere realmente libero un rapporto tra un uomo di oltre quarant’anni e dei giovani appena maggiorenni, per i quali quella persona era un maestro, un riferimento intellettuale? Tra di loro (sostenevano) c’era una gerarchia, uno squilibrio, un rapporto da superiore a inferiore, che sarebbe stato meglio rispettare. Né il desiderio, né l’amore, erano considerati quali moventi essenziali del rapporto, visto principalmente dal punto di vista dei ruoli. Hanno cambiato anche questo, 5 anni di #MeToo.
Ecco – scrive Mirenzi – i ragazzi che commentavano vedevano il lato giuridico, formale, istituzionale della vicenda, ma non più quello umano, sentimentale, affettivo.
Mirenzi scrive un’altra cosa estremamente giusta:
Prima del #MeToo la professoressa avrebbe fatto ugualmente scandalo. Ma probabilmente per ragioni diverse dall’“abuso” di potere. E viceversa: come sarebbero state prese alcune storie del passato con le categorie vigenti oggi? Cosa si sarebbe detto di Pasolini e della sua febbrile ricerca di ragazzi? E di Sandro Penna? E di Aldo Braibanti?
Ricordo benissimo quando morì Pasolini, e sentivo dire, da democraticissimi amici “di sinistra”, che se l’era meritato, quel pederasta.
La lista degli intellettuali omosessuali, restando in tema, che hanno patito una vita infernale, è lunghissima: Oscar Wilde, Marcel Proust, Virginia Woolf, Thomas Mann, Garcia Lorca, fra gli scrittori, Leonardo da Vinci, Alan Turing, Michel Foucalt, Jean Cocteau, Ludwig Wittgenstein fra gli scienziati, ma se appena appena cercate troverete elenchi sterminati.
Ora gli omosessuali hanno condotto la loro nemesi, e come ho avuto modo di scrivere la loro sovrarappresentazione (nelle serie TV, nelle pubblicità…) ha finito abbondantemente con lo stancare perché è diventata irreale, impositiva e omologante; così come l’ossessione verso una legge che “li tuteli”, come se fossero Panda. Questo “movimento” pro omosessuali può essere accostato ai commenti dei ragazzi raccontato da Mirenzi: si tratta il tema sotto l’aspetto giuridico, formale e principalmente sessuale, e si trascura l’aspetto umano e sentimentale, ovvero quello di persone che vogliono amarsi, e qui ci vorrebbe un punto. Punto. Persone (implicito: adulte, consenzienti) che intendono amarsi, e quell’amore – maledetti ormoni! – implica anche il desiderio sessuale, l’atto sessuale, che intere biblioteche di biologi, sessuologi, neurologi e psicoanalisti hanno spiegato in decine di modi differenti (ma non contraddittori). Senza condanna né sovrarappresentazione, entrambe facce del cattivo vissuto interiore di quello che non dovrebbe essere un problema, ma lo diventa.
Allora: delle persone (statisticamente e, oserei dire di conseguenza, come primaria scelta della filogenesi umana, di sesso diverso) si attraggono, si amano e solitamente hanno rapporti sessuali. Ma sono semplicemente delle persone, e la bellezza dell’essere “umani” è che ce ne freghiamo un pochino della filogenesi e altre asperità, e quindi uomini amano donne, uomini amano uomini, ma anche anziani/e amano giovani, asiatici amano amerindiani e via discorrendo.
Adesso arrivo al punto.
In base a quale criterio qualcuno (o qualcuna, maledetto linguaggio di genere!) punta il dito per dire “quello no”? Solo puritani bigotti pruriginosi si appropriano di questo diritto e, sapendo minacciare nel modo adeguato le coscienze deboli, impongono criteri e valori che sono, sempre e solo, terzi, falsi, sovrastrutturali.
Credo che questo sia abbastanza condivisibile, almeno dai lettori liberali e di mente aperta di Hic Rhodus, e abbiamo già speso innumerevoli digit sulle nostre tastiere per spiegare questo punto di vista: ognuno fa quello che vuole con altri adulti consenzienti.
Ma allora il passo seguente riguarda, per esempio, la preside romana: il giovanotto sedotto era maggiorenne, uno che può guidare la macchina e che andrà a votare, e che almeno all’inizio è stato – così ho capito – consenziente. Qui il tema diventa improvvisamente ingarbugliato perché il consenso può essere forzato, indotto, e non necessariamente con la forza bruta ma, abbastanza comprensibilmente, con la forza morale, psicologica, indotta da un ruolo superiore o – come nello scandalo Braibanti raccontato da Gianni Amelio – da un carisma, dalla forza intellettuale, con una storia di peso, loro semplici ragazzetti…
Siamo certamente d’accordo che questa influenza pesa, incide, scava solchi, crea dipendenze e sottomissioni, ma che fare? È qui che si infrangono le ambizioni di #MeToo, che ha preteso di elevare a prove gli umori, i dispiaceri, i ricordi postumi ma anche le vendette e i rancori che in parte, certamente, sono state testimonianze di un abuso, ma che in molte altre parti raccontano il malessere del vivere, che prima o dopo colpisce ciascuno di noi. Il malessere dell’amore stesso, dell’amore in sé, che è anche fatto di cambi di umore, di affezioni e disaffezioni, di infatuazioni e di odii, come ben sa chiunque abbia amato (o chi abbia letto abbastanza letteratura attraversando i secoli e i continenti, leggendo storie e drammi d’amore, ovvero l’80% della letteratura mondiale). E quindi, pensiamoci: se io ti ho amato intensamente (e consensualmente, ovvio), ma poi tu mi abbandoni e il mio amore si trasforma in odio senza scampo, e in quell’odio rivivo con malessere quell’antico amore, e quel sesso fra noi, e quel sesso ora mi ripugna, mi avvilisce, e infine lo descrivo a me stesso/stessa come una prevaricazione, un abuso? E allora ti denuncio, porco infame! (più raramente porca maledetta). Ne ha parlato poco tempo fa Viviana Viviani, rileggetela.
Allora, come società consapevole e razionale, comprensiva dell’estrema e irriducibile complessità dei rapporti fra esseri umani, dobbiamo, da un lato, difendere i più deboli, ma dall’altro lato difendere anche – non sembri un paradosso – i più forti dalla vendetta postuma di chi si erge, da debole, come paladino delle ingiustizie universali.
Non ci sono molte opzioni, a quel che capisco. Sono poche e parziali, ma si potrebbe incominciare a ragionare da qui:
- Amore (e sesso) solo fra adulti consenzienti. Ovvio. Il consenso – è qui il nodo – è violato, costretto, inamissibile, solo se è realmente dimostrabile che è stato ottenuto con la forza, con l’inganno. I casi di vittime di abusi, che si è scoperto in seguito avere mentito, sono più che sufficienti a farci pensare che sì, per carità, la femmina (di solito è di questo che si parla) è stata spesso subornata e costretta, e quindi il maschio va condannato, ma qualche volta proprio no, e quindi va condannata la femmina (o chi sia, indipendentemente dal genere, dall’età e da tutto il resto) che ha mentito, semmai ricattato.
- Amore (e sesso) fra adulti consenzienti non è accettabile quando sussistono evidenti e plateali squilibri di ruolo, di potere: la preside e lo studente; il grande industriale e la segretaria bisognosa; il politico e la questuante. In questi casi c’è comunque un abuso di potere. Non possiamo esserne certi, ovviamente; semmai in quel momento c’è stata una straordinaria chimica sessuale, vallo a sapere. Ma certo l’inopportunità reclama una sanzione. Non si può parlare di violenza sessuale (salvo si possa dimostrare il contrario) ma certamente uno stigma sociale tradotto anche come sanzione. Per dire: la preside non deve andare in prigione, ma certo non è adatta a fare l’educatrice, la responsabile di un istituto scolastico (sempre ammesso che ci sia veramente stata una storia, e che la storia sia stata facilitata dalla disparità di potere, e qui sto pensando alla vicenda di Richetti che presenta più di un’ambiguità sul lato della denunciante).
- Tutti gli altri casi, ma proprio tutti tutti, vanno valutati ciascuno a se stante: ci sono prove dell’abuso? Condanna senza attenuanti per l’abusatore. Ci sono circostanze, fatti, contesti, testimonianze che depongono a favore dell’una o dell’altra parte? Tenerne conto, ovviamente, con una duplice attenzione: se la parte debole è sempre il minore e spesso la donna, prima di rovinare un individuo scoprendo, tardivamente, che non c’entrava nulla, occorre pensarci con una sapienza e una saggezza che spesso latitano fra i nostri giudici.
Poiché questo terzo punto riguarda, in genere, la maggioranza dei casi, voglio essere più chiaro possibile. Una donna che mostra i segni di uno stupro ha sempre ragione, senza alcuna attenuante per lo stupratore. Una donna (o un uomo, certo, è uguale), che un anno dopo dice che è stata palpeggiata, molestata, deve avere qualche prova. Mi dispiace. È ovvio che innumerevoli volte tali prove non ci sono: filmati, testimoni, messaggini, incaute ammissioni del molestatore… Come ha appena scritto Chiara Lalli,
Non è detto che una testimonianza confusa e contraddittoria non sia vera, non è detto che una testimonianza coerente e precisa sia vera. […] Penso a quanto sia difficile suggerire che il presunto carnefice non dovrebbe essere giudicato colpevole e condannato prima di aver ascoltato, indagato, cercato prove. E a quanto sia complottista usare qualsiasi dubbio riguardo a quella condanna e alla certezza della colpevolezza come dimostrazione: “Ah, ma allora vedi perché le vittime non denunciano?”. (Complottista come metodo, cioè dimostrare in modo circolare quello che avresti dovuto dimostrare con prove vere.) O per invocare la violenza sistemica, pensando così di poter giustificare la sciatteria del giudizio del caso singolo e di non cadere nelle trappole induttiviste.
Se non c’è nulla di chiaro e certo e comprovato non si può rovinare una persona sulla base di una parola. E’ un principio fondamentale (e Costituzionale) logico e necessario.
Per tutto il resto dobbiamo rassegnarci. Le relazioni umane, in particolare quelle affettive, sono tormentate, complicate, ondivaghe, contraddittorie, umorali, a volte strumentali e ciniche, a volte insensate (ma di brutto!) e autolesionistiche, a volte generose e gratuite anche se non ricambiate, a volte feroci e terribili anche se ricambiate con affetto e lealtà, a volte semplicemente piatte e anonime e consuetudinarie. E cambiano col tempo, accidenti quanto cambiano, e rileggiamo il passato alla luce di quel cambiamento, e facciamo incontri, accidenti quanto ci cambiano gli incontri che facciamo, e ci invaghiamo, e facciamo stupidaggini, e giuriamo a vanvera, e odiamo visceralmente…
Ma veramente tutto questo bordello, che è ciò che siamo (e lo sappiamo, da Omero in poi, ma anche da prima) lo riduciamo a stereotipia, cliché, moralismo accecato e giudicante, difesa d’ufficio di una parte, omologazione del pensiero sempre e rigorosamente “corretto”?
Ma siamo pazzi?
Questo è il fallimento di #MeToo, del ddl Zan, di tutti i particolarismi che hanno voluto erigere una regola morale (quella di pochi) a giudizio feroce della complessità umana.
(In copertina: Albo Braibanti)