La protesta ecologista lanciando schifezze su opere d’arte è la moda del momento. L’ultima è stata alla mostra di Van Gogh a Roma dove quattro attiviste del gruppo Extinction Rebellion hanno lanciato una zuppa di verdura sul Seminatore, poi si sono incollate le mani alle pareti con un attaccatutto, si sono fatte fare tutte le foto necessarie da condividere sui social, senza le quali il gesto sarebbe stato inutile, e niente: quadro salvo grazie al vetro, attiviste segnalate ai carabinieri (e immagino denunciate), in attesa che da qualche parte un altro cretino o cretina lanci qualche altra cosa oppure, come si usa in questi casi, “alzi il tiro”, e dalle zuppe sui quadri si passi, che so? a una bella martellatina sul Mosé, o a un simpatico auto da fé al Louvre, o una cintura esplosiva al Pergamon. Ma, sia chiaro, solo perché il messaggio è importante, essenziale, vitale, come hanno spiegato le attiviste durante l’impomodoramento dei Girasoli (sempre dell’incolpevole Van Gogh) alla National Gallery di Londra; queste, del gruppo Just Stop Oil, hanno dichiarato:
“Cosa è più importante, l’arte o la vita?”, ha esclamato Phoebe Plummer, una londinese di 21 anni, dopo avere versato la zuppa sul dipinto. “L’arte è più importante del cibo?” le ha fatto eco la sua compagna, Anna Holland, ventenne di Newcastle. “E’ più importante della giustizia? Siete più preoccupati di proteggere un quadro o di proteggere il pianeta e i suoi abitanti?” (fonte).
Non dovrò spiegare ancora una volta ai miei pazienti lettori cosa sia un errore categoriale (che è il tipo di fallacia logica implicata nel loro ragionamento; ne ho scritto discutendo il concetto di merito non molti giorni fa), che poi qui c’entra e non c’entra. Queste “attiviste” sanno benissimo che buttare una schifezza su un quadro non sposta di una sola virgola i problemi ambientali e non modifica di un grammo l’opinione pubblica in materia di ambiente (oddio, certo, forse le sopravvaluto e sono genuinamente cretine…). Il gesto eclatante attira ovviamente i media, ti porta sulle pagine dei giornali di mezzo mondo per la bellezza di un paio d’ore, e il video dell’imbrattamento avrà fatto cinque volte il giro del pianeta su Facebook, Instagram, Tik Tok o dove cavolo l’hanno fatto girare, ma i risultati sono solo e soltanto questi:
- il 95% delle persone pensa che sono delle cretine che devono rispondere delle loro azioni;
- il 5% delle persone (generalmente molto o abbastanza cretine) pensa che sia stata una figata pazzesca e vorrebbero emularle (e la punta di diamante di costoro lo farà, probabilmente, e la pena umana per questi emulatori, che non solo sono cretini ma non hanno neppure il dono dell’originalità, è veramente enorme in me).
Adesso farò alcuni accostamenti che vi prego di avere la pazienza di leggere per seguire un ragionamento complicato, volendo rispondere alla domanda: “Perché fare queste sciocchezze, se non servono a un accidente?”. Il primo accostamento è con gli invasati che, qualche anno fa, buttavano giù le statue per protestare contro una cosa brutta e cattiva del mondo di oggi, che tale non era al tempo in cui i soggetti immortalati vivevano, come per la statua di Edward Colston. Vi ricordate? È successo un anno e mezzo fa, sulla scia dell’indignazione per la morte di George Floyd e la spinta del movimento Black Lives Matter. Questo Colston era effettivamente uno schiavista di quattrocento anni fa, in un’epoca in cui l’impero britannico gettava le basi per sua tremenda potenza e si discuteva sul fatto se i neri avessero o no un’anima. La statua a Colston non è stata eretta per il suo commercio, ma perché in vita fu un grande benefattore. Lui commerciava (avorio, oro ed esseri umani) assolutamente in pace con la coscienza per come questa era costituita nel suo tempo, e si prodigava per il prossimo nella sua città. Il grande errore della cancel culture è di non capire che ogni epoca ha i propri valori, e possiamo giudicare i contemporanei per i valori sociali che esprimiamo oggi (e anche qui con molto relativismo) e non per quelli di quattro secoli fa. Ma il punto è un altro. Gli esponenti della cancel culture, mentre buttavano giù statue e bruciavano libri, si sentivano degli angeli vendicatori, dei giusti. Poiché io – questo il pensiero – ho dei valori giusti, che sono giusti in modo autoevidente, ho il diritto di violentare il mio tempo, la società in cui vivo, la sua memoria. E questo diritto viene adeguatamente immortalato sui social nel momento stesso in cui è posto in essere. Non è più Colston (o chiunque altro) a essere giudicato, né l’ingiusta società che ha ucciso George Floyd. No, il problema è capovolto nel protagonismo degli invasati demolitori di statue (arrostatori di libri, oggi più sottilmente: censori di testi letterari), che trovano un senso nell’atto vandalico, nella censura, nella condanna (sorta di omicidio simbolico).
Tenete a mente l’ultima frase e procediamo con un altro accostamento, questo certamente più ripugnante: i jihadisti assassini. Durante gli anni del terrorismo islamista in Europa e altrove ci fu, fra gli altri, un attentato omicida a Dacca; i terroristi si fecero le fotografie subito prima, e in quelle foto sorridevano beatamente, prima della strage e della loro morte. Io mi chiesi perché mai costoro, invasati pazzi assassini, in procinto di uccidere ed essere uccisi, sentissero il bisogno di sorridere, di farsi fotografare sorridenti. Permettetemi di citarmi, che faccio prima:
la risata degli assassini [di Dacca] è la sottolineatura finale del nihilismo totale. […] La loro vita, consapevolmente inutile e vuota e irrimediabilmente persa non ha alcun senso se non quello di un unico atto distruttivo contro il mondo, il destino, contro dio stesso per il quale fingono di battersi solo come vago legame ideologico. Non importa chi siano le vittime, purché siano degli illusi che credono in qualcosa, che ritengono importante avere una famiglia, che consumano ore in un lavoro, che compiono inutili routine come criceti nella gabbia. Loro non vogliono essere criceti in una gabbia, sanno che fuori non c’è nulla, e allora corrono come lemming verso il baratro risolutore.
Il loro sorriso è di liberazione. La gioia di un momento di senso nella loro vita maledetta.
Il punto, quindi, è il passaggio epocale, sotto il profilo antropologico, in cui stiamo vivendo. L’incertezza della vita, la scomparsa del futuro dal nostro orizzonte di senso, l’inutilità di qualunque speranza in un mondo schiacciato da potenze oscure, l’ineluttabilità della fine di tutte le cose, che non avverrà alla fine dei tempi, fra miliardi di anni, ma domani, al massimo dopodomani, come tutti i segni sembrano rendere evidente (i ghiacciai si sciolgono, i virus ci invadono, Elon Musk è uno stronzo e io non arrivo alla fine del mese).
In questa temperie, dove il domani non esiste, ci si aggrappa a un continuo presente fatto di gesti comunicativi che vivono lo spazio di pochi istanti. Il Tweet, il video su Tik Tok, che vogliamo che tutti vedano, e premino con tanti like e cuoricini, perché solo così si sa di essere vivi. Non c’è ormai delitto, lite, gente fuori di testa, che non sia adeguatamente ripresa da un video fatto all’istante da uno smartphone e subito messo in rete. Se avete la fortuna di assistere a un bell’incidente stradale, e filmate il disgraziato che sta morendo dissanguato, immaginate quante condivisioni guadagnerete! Il poveraccio che sta morendo è nessuno, non siamo più capaci di empatia quindi sono, sostanzialmente, affari suoi. Ma il nostro video… cavoli che fortuna essere lì proprio in quel momento!
So che i miei cari lettori non farebbero mai una cosa simile. Avranno pure una certa età, mediamente… Sono boomer, come ha detto di me un mio giovane nipote, gente vecchia, con idee superate. Noi avevamo un futuro, un posto nel fluire della storia, delle relazioni, dei pensieri, dei valori, dei progetti. Tutta roba ormai andata a male. I giovani non hanno un futuro (sentono di non averlo), non trovano un posto nel fluire storico, le relazioni sono deboli, i valori cangianti e fragili, i progetti inutili. Entra qui anche tutta la miserabile confusione sull’identità di genere, per cui è bene non esagerarsi nelle rappresentazioni femminili e maschili, essere vaghi, essere fluidi, che bellezza, poter essere tutto e scoprire, poi, di non essere nulla (questa ulteriore indicazione consideratela come terzo fattore del mio elenco, ma ne avrei anche altre).
Si esiste perché ci si fa una foto su Instagram, un video su Tik Tok. I cretini che hanno imbrattato Van Gogh sono giovani senza vita, senza pensiero, senza futuro, che hanno trovato un senso, al loro personale vuoto interiore, con una bravata giustificata da valori ideologici massimalisti. Domani il loro video sarà sostituito da qualche altra cazzata, dovranno solo riparare i cocci della vita disperata che vivono, cercando rifugio nel ricordo, che sbiadirà in fretta, di quanto sono stati in gamba, quella volta che gettarono la zuppa su Van Qualcosa.