Non volevo scrivere nulla sull’attentato di Dacca. Qui su Hic Rhodus abbiamo scritte molte pagine, dopo gli attentati che si susseguono da mesi; analisi sul jihadismo, il Daesh e i suoi sfacciati amici e correi, tutti assolutamente noti e in generale nostri “alleati”; le conseguenze geopolitiche ed economiche; la crisi del Medio Oriente, sue origini e conseguenze. Abbiamo anche provato a tracciare un profilo psicopatologico del jihadista, il profilo di un maledetto fallito che solo nella gloriosa bella morte pirotecnica può affermare un significato ultimo, e unico, alla sua miserabile vita. Non c’è altro da aggiungere. Ma le foto diffuse da Isis degli assassini felici e sorridenti che stanno per andare a far strage a Dacca mi impongono di proseguire uscendo dall’aspetto personologico del precedente post per affacciarmi su un abisso di tragedia e miseria che non ha solo a che fare con la perversione individuale e il suo deserto di valori ma assume, o potrebbe assumere, una valenza generale, una sottile malattia universale che in questi tempi, e in questi modi, ci va trasformando in lemming alla ricerca del baratro dal quale gettarsi.
Perché ridere alla vigilia di una strage con probabile propria morte? È Dio che ti dà allegria perché stai per adempiere alla sua vile volontà? Sono troppo abituato alle immagini di mistici cristiani (ma anche alla severità di santi di altre religioni) per pensare che “va’ e uccidi in mio nome” metta questa allegria da barzelletta da caserma. Il miraggio del Paradiso pieno di vergini da stuprare potrebbe solleticare qualche idiota seguito da servizio psichiatrico, non questi giovani definiti “colti, appartenenti alla classe media bengalese” (fonte). E le torture sulle vittime? Le messe in scena cinematografiche che sono una tipicità del Daesh? Perché fanno ridere questi assassini?
Io credo che occorra temere un volgimento tragico nell’antropologia umana, in un passaggio complicato fra il mondo antico, passato, tradizionale, più o meno immobile ma anche conosciuto e per ciò stesso comprensibile, e il mondo prossimo, imminente, travolgente, incerto, sconosciuto e per ciò stesso senza prospettive.
La conoscenza storica ci permette ovviamente di considerare come il mondo sia cambiato pian piano, poi sempre più in fretta, nel corso di secoli; non c’è stata la società medioevale contadina fino a ieri seguita da quella ipertecnologica di doman l’altro. Ma la consapevolezza storica non è geneticamente impressa nel DNA delle persone che vivono e interpretano il mondo a partire dal ristrettissimo angolo visuale della propria infanzia familiare, del villaggio, borgo o quartiere in cui si è cresciuti. Se nasci e cresci a Manhattan hai forse un’idea di mondo più simile alla realtà rispetto a un tuo coetaneo cresciuto in uno slum di Dacca (dove si concentra il 40% della popolazione di quella città alla periferia del mondo). Da Manhattan, bene o male, se sei fortunato, se appartieni almeno alla middle class, se riesci a studiare un po’, se non sei stupido, puoi avere un’idea della prospettiva internazionale, del mutare dei tempi, del possibile ruolo che potresti avere come individuo; ma i milioni di abitanti in slum Dacca-style dove vive la maggioranza dei cittadini del pianeta, all’ombra di ingiustizie secolari alimentate da califfi despoti e capi banditi, questa dimensione storico-sociale non esiste. Esiste solo la repentina intrusione di una società ipertecnologizzata in un mondo di pastori. La disponibilità del potere infinito delle armi automatiche in un mondo dove la continuità culturale appare spezzata e irrecuperabile.
Privi di identità culturale e senza un futuro. La scomparsa del futuro (nel senso qui accennato) è un problema epocale e universale (ne ho parlato QUI con riferimenti a tutti noi, non riguardo lo stragismo jihadista) che viene vissuto con disagio, anomia e marginalità in Occidente e diventa dirompente in società (mediorientali, asiatiche, africane) dove la precedente (apparente) immobilità contrasta in maniera irrecuperabile col baratro di una tecnologia senza valori, come sottolinea Galimberti. Quale vita possibile a Dacca, a Baghdad, a Riad per milioni di esclusi dal Paese dei Balocchi occidentale? Ecco allora che la risata degli assassini è la sottolineatura finale del nihilismo totale. Ridono della nostra paura, della nostra miserabile vita così legata all’ultimo modello di smartphone, alla vacanza all inclusive, al core business, al week end, a Italia-Germania e a tutti i surrogati di senso che noi occidentali costruiamo per nascondere la nostra paura in questo passaggio epocale. I giovani nazisti del Bangladesh non frappongono questi orpelli fra l’orrore del vuoto in cui vivono e l’irrealtà del futuro che non li attende. La loro vita, consapevolmente inutile e vuota e irrimediabilmente persa non ha alcun senso se non quello di un unico atto distruttivo contro il mondo, il destino, contro dio stesso per il quale fingono di battersi solo come vago legame ideologico. Non importa chi siano le vittime, purché siano degli illusi che credono in qualcosa, che ritengono importante avere una famiglia, che consumano ore in un lavoro, che compiono inutili routine come criceti nella gabbia. Loro non vogliono essere criceti in una gabbia, sanno che fuori non c’è nulla, e allora corrono come lemming verso il baratro risolutore.
Il loro sorriso è di liberazione. La gioia di un momento di senso nella loro vita maledetta.
Non deve quindi stupire che al volgere di una grave crisi militare del Califfato, che sta perdendo vistosamente terreno, questi lemming continuino a crescere e moltiplicarsi. Sorgerà un altro califfo, predicherà un altro profeta, perché il futuro esiste per una sempre più esigua minoranza di umanità e per chi resta indietro esiste solo un baratro, in cui buttarsi disperati col sorriso di chi toglie ai più l’illusione di essere protetti nella ruota.
Il mondo, in sostanza, sta conoscendo una nuova divisione, dopo quelle fra Occidente e Sud del mondo, ricchi e poveri, comunisti e popoli “liberi”. Una divisione fra chi riuscirà a costruire un futuro reale, non surrogato, e chi ne sarà escluso. La divisione fra pochi privilegiati (specialmente in Occidente e nei paesi più ricchi) che sapranno leggere il mondo, utilizzare le tecnologie, costruire prospettive, avere una visione, e masse di esclusi (con sacche anche in Occidente) che dall’immagine del mondo in trasformazione riceveranno solo angoscia, saranno utilizzati dalle tecnologie, non avranno valori né prospettive.
E ricordiamoci che loro saranno milioni, e rideranno.