Se non riusciamo neppure ad accorpare i piccoli Comuni…

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Fra le diverse misure di snellimento dell’apparato pubblico, capace di fornire servizi con più efficacia e minori costi, c’è indubbiamente anche l’accorpamento dei piccoli comuni, che va ad aggiungersi all’abolizione delle Province, a un ridisegno complessivo delle Regioni e ad altre iniziative di cui abbiamo più volte parlato su queste pagine. Dell’accorpamento dei piccoli Comuni si parla da diversi anni (in Italia tutto è oggetto di attenzione da diversi anni) e finalmente è arrivata la Legge 56 del 27 Aprile 2014 che all’art. 1 recita:

Le unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o più comuni per l’esercizio associato di funzioni o servizi di loro competenza.

La legge quindi non tratta della cancellazione dei Comuni, ma di loro unioni “per l’esercizio associati di funzioni o servizi” (che è ciò che ci interessa di più, anche se ulteriori risparmi di tipo politico potrebbero essere dovuti all’abolizione dei consigli comunali di piccolissimi centri) oppure associazioni (una forma più lasca che può consentire sperimentazioni flessibili).

Quali sono le funzioni da condividere fra queste unioni (fonte)?

  1. servizi interni (personale; servizio finanziario; economato/acquisti; gestione entrate; controlli interni; informatica; appalti; si ritiene, anche i lavori pubblici)
  2. organizzazione dei servizi pubblici locali
  3. catasto
  4. urbanistica e edilizia
  5. protezione civile
  6. raccolta dei rifiuti urbani
  7. servizi sociali
  8. servizi scolastici
  9. polizia municipale
  10. statistica.

Si tratta di servizi costosi da ottimizzare per pochi individui (pensiamo ai servizi sociali e scolastici) che possono diventare efficaci (più utili ai cittadini) ed efficienti (meno costosi per tutti) solo a scale più elevate. Una cosa facilmente comprensibile, no?

Niente affatto. Tutti i segnali visibili indicano che non c’è la reale volontà di procedere in questa direzione; anche sorvolando sulle continue reiterazioni delle norme (la Legge 56 prende il posto del precedente decreto-legge 95 del 6 Luglio 2012 che all’art. 19 prevedeva le unioni comunali e al 20 le fusioni; questo decreto-legge si richiamava al precedente 78 del 31 Maggio 2010) e sulle proroghe della scadenza (la Legge doveva essere in vigore dal primo dell’anno, prorogata al 31 Dicembre) che non sono segnali di entusiasmo, l’analisi delle attività dei piccoli comuni volte a costituirsi in unione era, alla fine del 2014, a dir poco sconfortante, con solo il 17% dei Comuni adempienti (fonte con dati analitici: Forumpa). Nicola Melideo, sempre su ForumPa, ci spiega perché le cose non stanno funzionando:

Molte sono le ragioni che trattengono i “piccoli Comuni” dal dare piena attuazione alla norma. Ne elenchiamo alcune:

  1. L’esaurimento (non momentaneo) dei finanziamenti incentivanti;
  2. Il fatto che il Governo continui a considerare l’associazionismo come una modalità per tagliare la spesa improduttiva, mentre chi ha sperimentato le gestioni associate di norma è del parere che la forma “Unione” genera, almeno inizialmente, costi più elevati senza garantire risparmi a regime, almeno sino a che esse non diventino “altra cosa” rispetto al modello organizzativo-gestionale degli Enti locali;
  3. Unioni che siano “altra cosa” dai Comuni significa innanzitutto che esse debbano:
  • avere dimensioni demografiche di almeno 20.000-30.000 abitanti (molto al di sopra delle soglie minime stabilite);
  • saper praticare, nelle gestioni associate, la distinzione tra decisioni strategiche, che richiedono un elevato livello di partecipazione politica, e decisioni gestionali, che non possono essere “assembleari”, ma vanno prese in sedi tecniche, “manageriali”;
  • accentrare e semplificare radicalmente le funzioni di Amministrazione generale e la gestione delle risorse umane;
  • prevedere, dunque, un ruolo centrale per la figura del Direttore generale con adeguati poteri ed un chiaro e condiviso piano di obiettivi da perseguire;
  1. L’evidenza che nelle UdC funzionanti i Comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti svolgono un ruolo insostituibile. Il fatto che nelle gestioni associate, che nei fatti coinvolgono Comuni sino a 30.000 abitanti, si trovino a condividere la stessa esperienza associativa Comuni obbligati ad associarsi e Comuni del tutto liberi di farlo o non farlo (e, dunque, con un legame meno “impegnativo” con la forma associativa), mina in partenza ogni vincolo solidaristico necessario per qualsivoglia gestione associata;

  2. La questione della distanza dei piccoli Comuni dai centri urbani: sono 2151 i Comuni “cintura” (secondo la definizione del DPS – Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione economica, facente capo alla Presidenza del Consiglio). In essi, prossimi ai centri urbani, vivono quasi 5 milioni di abitanti (la metà di tutti i piccoli Comuni) caratterizzati da uno stile di vita “urbano”: volerli assimilare agli altri 3551 Comuni (intermedi, periferici e ultra-periferici, a seconda della loro distanza da un centro urbano) appare operazione priva di senso;

  3. Le patologie (eccessivi costi unitari per alcuni servizi) attribuite ai piccoli Comuni: queste, a ben vedere, si concentrano nei Comuni fino a 2.000 abitanti soprattutto nel Sud e Isole. In generale l’analisi dei bilanci 2012 dei Comuni pubblicati dal Ministero dell’Interno (finanzalocale.interno.it), dimostra che i piccoli Comuni sono gestiti molto meglio dei grandi Comuni, almeno per quanto riguarda le Entrate: ne è indice autorevole il fatto che essi vantano il più basso tasso medio di residui attivi (14,7%-16%) tra tutti i cluster di Comuni presi in esame (gli altri valori sono: il 18,8% nei Comuni tra 5.000 e 10.000 abitanti; 22%, nei comuni con ab. tra 10.000 e 20.000; 30,8% nei Comuni di dimensioni superiori ai 20.000 ab.);

  4. La fierezza di molti amministratori, il loro sentirsi sia sul piano etico che su quello della dedizione alle proprie comunità “più a posto”, più affidabili della media dei politici di rango superiore. E, soprattutto, non si reputano in alcun modo corresponsabili dello stato precario della finanza pubblica, per cui rifiutano ogni pretesa tutoria nei confronti dei Comuni da essi amministrati;

  5. Il divario inevitabile nel grado di “buon governo” tra Comuni contigui: gli amministratori che ritengono di gestire in modo rigoroso i loro Enti temono che la scelta associativa possa comportare la diffusione del virus della malagestione ad opera di Enti meno virtuosi;

  6. L’incapacità di molte Regioni di proporre valide iniziative di supporto alle gestioni associate per renderle “sostenibili” e l’inesistenza di una regia nazionale;

  7. Il fatto che ogni Unione, infine, faccia storia a sé: tra di esse non intercorrono rapporti, relazioni, scambi di esperienze. A volte non sanno l’una dell’esistenza dell’altra. Le poche Unioni che hanno avuto successo si offrono come modelli senza cogliere, spesso, le differenze strutturali che le connotano rispetto alla grande maggioranza delle UdC esistenti.

Lace2Abbiamo riprodotta per intera la lunga citazione perché, pur mescolando questioni assai diverse e di peso diverso, ne contiene alcune chiaramente fondamentali fra le quali io vorrei segnalare quelle del punto 3 che, in contesti particolari, ho potuto sperimentare dal punto di vista professionale: comuni molto piccoli e isolati non hanno mai avuto un reale ricambio politico e amministrativo, e tutto funziona entro la ristretta rete parentale e amicale di piccolo paese rurale o di borgo di montagna; la progettualità socio-assistenziale per esempio, di cui mi sono occupato in passato, è sostanzialmente lasciata al buon senso (con tutti i suoi limiti) di personale generalmente non preparato, mentre la necessità di associarsi per programmare servizi in comune è immediata arena di conflitti e gelosie. Se ciascun Comune non mostra di avere nel proprio territorio servizi, sportelli e operatori al pubblico, si sperimenta un senso di diminuzione e frustrazione già vista con la chiusura dei piccoli ospedali, una frustrazione che si trasforma naturalmente in una diminuzione di consenso politico. Ho avuto modo più volte di condurre gruppi focus in cui testimoni di comunità locali rappresentavano chiaramente l’identità paesana identificata nella piccola scuola, nell’ufficio postale, in quei servizi che danno il senso di essere un paese in qualche modo ancora vivo; avere servizi in comune spesso significa decentrarne alcuni nel centro più grande, con funzioni di capofila dell’unione, e anche se si tratta di pochi chilometri di distanza questo decentramento viene visto come privazione.

E comunque, oltre alla resistenza opposta finora, assistiamo da qualche giorno al classico ricorso al Tar contro la circolare del Ministero dell’Interno che di fatto prevede il commissariamento per i Comuni inadempienti. Come spiega Il Mattino.it il ricorso cerca in realtà di portare un attacco profondo al cuore stesso della legge invocandone l’incostituzionalità.

Intanto in attesa di una posizione ufficiale del governo diventa concreto il rischio di una pioggia di ricorsi amministrativi nelle varie sedi regionali del Tar. Al fianco dei primi cinque comuni campani guidati da Asmel sono già arrivate, infatti, oltre al sostegno dell’ANPCI, l’Associazione nazionale dei piccoli comuni, le adesioni di centinaia di comuni dislocati in tutto il Paese: dal comune piemontese di Calliano al comune siciliano di Alessandria della Rocca, dalla Lombardia (con i comuni di Candia Lomellina, Cavernago e Villimpenta) alla Sardegna (con i comuni di Gairo, San Giusta e Siamaggiore) solo per citarne alcuni, che per altro già si costituiranno ad adiuvandum nel ricorso dinnanzi al Tar Campania (Il Mattino.it).

Riassunto per chi si è un po’ perso e fatica a capire dove stiano le ragioni:

  1. dal 2010 (governo Berlusconi) si cerca di pervenire a uno snellimento del frammentato tessuto comunale accorpando anche solo la gestione dei servizi, senza quindi perdere il proprio gonfalone; con la legge 2014 si è cercata una parola definitiva (no, scusate, quasi definitiva, vista che c’è stata la proroga);
  2. come accade spesso in Italia, a una buona ragione viene data una legge difficilmente applicabile nei fatti; le leggi non si applicano da sole, non sono bacchette magiche e abbiamo visto sopra che ci sono effettivamente dei problemi, direi problemi di governance, di capacità gestionale, di accompagnamento dei processi;
  3. anziché invocare percorsi condivisi di costruzione di governance (dei quali, in effetti, occorre prima di tutto avere consapevolezza), i piccoli comuni storcono il naso, oppongono una resistenza frizionale fino a invocare la fatidica incostituzionalità che farebbe ridere i polli se non fossimo in Italia, dove la sedicente Costituzione più bella del mondo rischia di funzionare, nel terzo millennio, come la sabbia sotto il costume.

In un Paese dove tutti hanno secolari diritti, e se non sono secolari sono comunque “acquisiti” e quindi sacri, e qualora non fossero neppure acquisiti sono comunque garantiti in Costituzione, a parere di qualche azzeccagarbugli nostrano, è chiaro che si fatica non poco ad andare da qualunque parte. Vediamo quel che succede in questi mesi con le riforme del Titolo V, della legge elettorale e via discorrendo. Non c’è una persona dotata di vago buon senso generico, in Italia, che non sia d’accordo a semplificare, ridurre spese e uffici, snellire pratiche e procedure, ridurre i centri amministrativi e di potere, ridurre la burocrazia, liberalizzare. Tutti son d’accordo; a patto che si semplifichi a casa d’altri, che si liberalizzi il commercio altrui, che si accorpino quell’altri che noi al momento c’abbiamo i diritti di star bene così come stiamo. E questa cultura del NIMBY, che in Italia è al massimo “non nel mio orticello, non nel mio sottoscala, non ovunque io sia perché è incostituzionale”, è un potentissimo freno che non si risolve con leggi e con circolari intimidatorie. Anche con quelle, sì, ma finché i cittadini non capiscono che ci guadagnano, che pagheranno meno per servizi migliori in sanità, nella scuola e nella giustizia, per esempio, le leggi non basteranno. E finché i cittadini non comprendono come nessuno venga diminuito o perda una storica identità di moncenisiano (36 abitanti), di pedesiniano (sempre 36 abitanti), di morteroniano (38 abitanti) o di qualunque microscopico comune con una condivisa aggregazione di comuni (ma per questi, veramente, è auspicabile una vera fusione coi centri maggiori limitrofi), se insomma non c’è anche una spinta dal basso, è difficile che anche questa riforma abbia un reale successo.