L’impudente atteggiamento di Erdogan nella crisi dello scacchiere siriano (col recente attacco al caccia russo) ma ancor più la risposta europea al terrorismo, mostra la crisi profonda che attraversa la NATO in questi ultimi anni. Gli europei, in maniera discutibile, con accelerazioni non concordate (quelle di Hollande), con tentativi di fragili alleanze fra alcuni Paesi, e probabilmente con moltissimi occhi sui propri elettorati (Hollande deve fare vedere ai francesi che reagisce; Renzi e Merkel pure ma senza esagerare e senza stare in prima linea…), agiscono indipendentemente dalla NATO anche nei riguardi di Putin che, piaccia o non piaccia a Obama e a ciascuno dei nostri lettori, è diventato imprescindibile rispetto a qualunque possibile soluzione della crisi siriana e di contrasto al terrorismo. Mentre quindi la NATO (e ovviamente la Casa Bianca) hanno prontamente sostenuta la tesi di Erdogan dello sconfinamento del jet russo e avvallato, nella sostanza, il suo abbattimento, Hollande (e parte degli europei) si mostrano molto più cauti e disponibili al dialogo con lo zar russo.
Che la NATO sia molto cambiata negli anni, e in particolare nell’ultimo decennio, è evidente a tutti. Da strumento di difesa dell’Europa “democratica” contro i tank rossi, a partire dal crollo dell’impero sovietico e, specialmente, alla luce delle nuove minacce e delle nuove tecnologie (possibili attacchi cibernetici, per esempio…), il ruolo dell’alleanza è profondamente cambiato. Come sottolinea Andrea Manciulli, in un ottimo articolo dell’Atlante geopolitico 2015 dell’Enciclopedia Treccani
Dalla prima metà degli anni Novanta, la Nato ha così iniziato a uscire dal suo perimetro geografico definito dagli articoli V e VI del Trattato, avviando operazioni cosiddette ‘fuori area’ in Bosnia-Erzegovina ed evolvendosi in un più ampio sistema di sicurezza collettiva. Da Dayton (1995) in poi, operando al di fuori del riferimento regionale, le parti si sarebbero impegnate a risolvere controversie e contribuire alla stabilizzazione di quelle aree al di fuori del partenariato e ove gli interessi dei membri Nato risultassero minacciati. Nel Concetto strategico (manifesto programmatico decennale in cui si enunciano i compiti, i principi fondamentali, il contesto di sicurezza in evoluzione e gli obiettivi strategici dell’Alleanza) del 1999, insieme all’originario obiettivo della ‘difesa collettiva’, venne inserito l’impegno Nato alla ‘gestione delle crisi’, inclusa anche la loro prevenzione e la stabilizzazione degli stati che si trovano in una situazione post-conflitto. Nel Concetto strategico di Lisbona 2010 sarebbe stata ufficializzata anche la cosiddetta ‘sicurezza cooperativa’: la politica della porta aperta verso le democrazie europee che vogliono diventare membri dell’Alleanza e rispettano i requisiti per l’ingresso (corsivi miei).
Ciò significa un’evoluzione da sistema cooperativo di difesa dei membri dell’alleanza a organizzazione per l’allargamento e il consolidamento di aree di influenza al di fuori dei territori originali. Ciò ha incluso, fra l’altro: Afghanistan e Kosovo, operazione anti pirateria Ocean Shield, interventi a protezione dei sistemi comunicativi e d’informazione, il polar rush per il controllo delle fonti energetiche artiche, il disastro libico del 2011 e ora il confronto con l’ISIS. Nel mezzo, in questa evoluzione, l’allargamento dell’Unione Europea ad Est, un’operazione europea, certo, e solo dopo della NATO, ma che moltissimo ha a che fare con le medesime logiche.
L’allargamento ad Est dell’Unione è stato repentino e privo delle formalità e dei percorsi usualmente richiesti ad altri paesi. Come segnala Lea Ypi in un testo del 2009:
Se si indagano le origini del processo che a maggio del 2004 e a gennaio del 2007 ha portato all’inclusione formale nell’UE di un numero di Paesi situati a est della vecchia cortina di ferro, è curioso notare come il quinto allargamento sia stato avviato senza una chiara idea dei limiti delle possibili candidature e senza un accordo precedente per specifiche riforme interne nei Paesi interessati. Un tale insolito modo di procedere stava a indicare simbolicamente, all’indomani della guerra fredda, la ferma volontà dell’Unione Europea di impegnarsi in un progetto d’integrazione volto a promuovere la stabilità politica e lo sviluppo economico del continente. Esso esprimeva anche la fiducia che i Paesi candidati si sarebbero conformati comunque a determinate esigenze politiche e istituzionali, prima fra tutte la richiesta di adottare l’acquis communautaire, cioè l’esistente corpo legislativo comunitario, e di soddisfare tutti gli obblighi di partecipazione all’Unione Europea.
Ma leggete tutto il testo per capire come questi paesi abbiano ricevuto un trattamento particolarmente privilegiato.
In questo modo si sono incluse nell’Unione non solo economie debolissime ma anche tradizioni culturali e politiche molto diverse e – questo è il punto che intendo sottolineare – una visione geopolitica assolutamente anti-russa. L’Europa appare, in questa operazione, come una cornice giustificativa necessaria e preliminare per l’ingresso di questi paesi nella NATO con una funzione sostanzialmente anti russa e in contrasto con accordi che la NATO aveva sottoscritto in merito al non insediamento di basi e armamenti in paesi confinanti con la Russia. Questo punto è essenziale, credo, per capire l’attuale involuzione delle relazioni con Putin. Il NATO-Russia Founding Act, del 1997 doveva rappresentare un punto di svolta positivo nelle relazioni NATO-Russia, e fu presentato entusiasticamente così da diversi attori occidentali:
Despite the enthusiastic rhetoric in Paris [sede della firma del trattato, il 27 Maggio 1997], some confusion remains over the actual significance of the Act. At the signing ceremony, for example, Yeltsin described the Act as containing “an obligation not to deploy NATO combat forces on a permanent basis near Russia”, and as “a firm and absolute commitment for all signatory states” [corsivo mio]. Administration officials, on the other hand, made it very clear they consider the Act to be only politically, and not legally, binding and therefore not requiring Senate approval. Jeremy Rosner, Special Assistant to the President for NATO Enlargement, said, “the Founding Act itself states explicitly that the Act does not limit NATO’s ability to act independently, and it does not apply – it’s not legally binding – doesn’t apply any limitations on NATO’s military policy from the outside”. (Jack Mendelsohn, The Nato Russian Founding Act, “Arms Control Association”).
Le cose sono andate diversamente; gli Stati Uniti e la NATO hanno presentato questo trattato come un insieme di intenzioni politiche generali, e non come un atto giuridicamente vincolante e hanno riempito i confini con la Russia di armamenti e truppe.
Sia come sia, per la Russia ex imperiale e campione del panslavismo la sindrome da accerchiamento risulta, comprensibilmente, insopportabile e incentiva i suoi atteggiamenti aggressivi (come nel caso dell’Ucraina). Torniamo però al Medio Oriente dove si è trasferito, in termini aggiornati, il vecchio confronto fra blocchi. I russi hanno sempre avuto amicizia in paesi dal passato “socialista” (in salsa araba, come Egitto e Irak) e a maggior ragione oggi hanno potenti interessi economici nell’area, in particolare per la vendita di armamenti, reattori nucleari, energia etc. Il gioco delle alleanze e delle inimicizie nell’area passa attraverso gli interessi dei singoli paesi favorevoli o sfavorevoli a Stati Uniti e Russia; per esempio l’avvicinamento fra Iran e Stati Uniti non piace ad Arabia, Egitto, Siria e altri che potrebbero vedere nella Russia un’alternativa anche in termini di sicurezza. In Siria in particolare si gioca una partita (USA-Russia) importante: la Russia non può perdere la sua ultima base in Medio Oriente affacciata sul Mediterraneo (Tartus) e consentire al jihadismo caucasico di galvanizzarsi (fonte; altra fonte).
Anche se la Russia non è in Siria per difendere l’Occidente contro il jihadismo del Daesh è piuttosto evidente che per capacità, mezzi, alleanze locali, capacità di interlocuzione con Assad e così via è una protagonista imprescindibile. E il fatto di non essere una democrazia compiuta ma un impero oligarchico diretto da Putin – scusate il cinismo – aiuta la velocità di esecuzione. Non si può dire la stessa cosa di alcuni presunti alleati dell’area; dello scandaloso coinvolgimento della Turchia, membro NATO, abbiamo parlato, e il coinvolgimento dell’Alleanza in un confronto fra Turchia e Russia è esattamente ciò che non serve a noi europei. A noi europei serve la sconfitta del Daesh; serve la pacificazione della Libia; serve la stabilità in Medio Oriente semmai in un ridisegno dell’area rispettosa dei popoli locali. Se questo non è l’interesse americano il problema deve essere degli americani. A noi serve una Russia amichevole, che non si senta minacciata ad Ovest dalla NATO e a Sud dalla Turchia, che accetti l’indipendenza delle nazioni al suo confine e che tolga il piede dall’acceleratore di un’escalation che ci coinvolgerebbe tutti; una Russia anche militarmente alleata per sconfiggere il terrorismo jihadista (che è un interesse comune).
Postilla finale: l’autore di questo articolo simpatizza apertamente per l’America e ritiene che la Russia sia un luogo illiberale e pericoloso; ammira Obama e non ha alcuna simpatia per Putin. Ma crede che una cosa siano le simpatie e altra cosa siano gli interessi dei popoli. In moltissimi frangenti l’Europa condivide interessi economici, sociali e culturali con gli Stati Uniti, in altri no. La nostra libertà di europei dipende da quanta coscienza abbiamo anche del nostro specifico ruolo storico, dalla nostra capacità di prendere decisioni il meno possibile dannose per il nostro storico alleato d’oltre oceano, ma certamente assolutamente non dannose per noi. Io credo che gli Stati Uniti abbiano forzato abbastanza la mano, via NATO e non solo, per seguire linee di politica estera e commerciali delle quali i maggiori beneficiari sono loro (un esempio sul piano commerciale è il nefasto TTIP). È ora che gli europei pensino a una strada europea.