Dunque, la lunga attesa è terminata e, contro gli auspici di quasi tutti i più autorevoli commentatori, da Obama alla Santa Sede, gli elettori del Regno Unito hanno deciso di abbandonare l’Unione Europea.
Mentre scrivo, tutte le piazze finanziarie sono pesantemente colpite da drammatici ribassi, colte di sorpresa dopo le brillanti performance di tutte le Borse europee nelle ultime sedute, e l’unico leader che ha tenuto un (mediocre) discorso è David Cameron, il premier britannico che passerà alla storia per essersi “sparato in un piede” (tanto per usare un’espressione inglese) indicendo un referendum dal quale aveva moltissimo da perdere, insieme a centinaia di milioni di persone, e ben poco da guadagnare.
Ma a parte la preannunciata catastrofe economico-finanziaria, cos’altro possiamo comprendere da questo voto in parte inatteso?
Di Brexit e delle sue conseguenze si è molto scritto in questi giorni, e non pretendiamo qui di sostituirci alle analisi più qualificate di economisti e politologi; d’altronde, sulle conseguenze negative per tutti di Brexit ha scritto parecchio tempo addietro il nostro Bezzicante un post nella sostanza ancora valido. Accanto però alle considerazioni strettamente economiche e giuridiche, la questione “cosa accadrà ora?” non può ignorare alcuni fatti alla base delle ragioni di chi ha votato Leave, né altri che sono avvenuti durante la campagna referendaria, ed è proprio a questi punti che vorremmo dedicare alcune non troppo brevi riflessioni.
Sull’UK
In primo luogo, è utile osservare che, secondo praticamente tutti gli osservatori specializzati, la Brexit comporterà almeno nel breve termine per l’UK danni economici ingenti, mentre gli eventuali benefici a lungo termine sono come minimo un’incognita. Non intendiamo qui entrare nel merito di queste previsioni, anche perché esistono numerose ottime fonti, bensì constatare che neanche la realistica prospettiva di una “self-inflicted recession” è stata sufficiente a dissuadere la maggioranza dell’elettorato britannico a votare Leave.
Peraltro, la minaccia della Brexit aveva indotto la maggioranza delle forze politiche, delle istituzioni, dei mezzi di comunicazione e degli opinion leader britannici a raccomandare di votare Remain, sia pure con diversi gradi di convinzione. Cameron e (tiepidamente) il leader laburista Jeremy Corbyn, giornali diversi (e in modi diversi) come The Times, The Guardian, The Independent, e (comprensibilmente) The Economist e The Financial Times si erano tutti espressi a favore di rimanere nell’UE. Come mai, allora, gli elettori hanno risposto diversamente?
Paradossalmente, uno dei motivi è proprio che la classe dirigente si è in larga prevalenza schierata per il Remain. I politici, gli economisti e finanzieri della City, e in generale l’establishment londinese e di Bruxelles sono stati visti e presentati dalla campagna pro-Leave come una casta che era l’unica a trarre vantaggio dalla permanenza dell’UK nell’UE, mentre il popolo, l’Inghilterra delle Midlands, avrebbero solo da guadagnare da una Brexit. Molti elettori inglesi, specie quelli più anziani e meno istruiti, erano convinti di combattere contro quelli che noi chiameremmo i “poteri forti”, coalizzati in difesa dei propri privilegi. La campagna del Leave ha raggiunto toni esasperati davvero insoliti per i britannici, guidata dal leader dell’UKIP Nigel Farage e da alcuni dissidenti dei due partiti tradizionali. Per mostrare quanto anomala e stridente sia stata la campagna, cito solo due episodi apparentemente insignificanti ma che a mio avviso sono molto eloquenti:
- Uno degli articoli pubblicati dal Financial Times sul referendum s’intitolava “La dubbia attrattiva del prendersela con l’élite”, e dichiarava apertamente che non c’erano motivi razionali per votare Leave. Il britannicissimo e presumibilmente preparato pubblico del FT s’è diviso in due fazioni, e i toni sono degenerati tanto da obbligare il FT a bloccare i commenti perché “il dibattito è benvenuto, ma non commenti che insultino personalmente altri commentatori o gli autori degli articoli”.
- Molti elettori favorevoli al Leave si sono recati alle urne portandosi la penna da casa, non fidandosi delle matite abitualmente distribuite nei seggi. Una considerevole parte dei simpatizzanti dell’UKIP era infatti convinta che il governo, in combutta con i servizi segreti, intendesse alterare i voti.
Il Regno “Unito” si è letteralmente spaccato in due, e il clamoroso dilettantismo di Cameron ha creato un enorme spazio di manovra per Farage, che improvvisamente si è ritrovato leader di metà paese, con tutta la politica “istituzionale” schierata dall’altra parte, tolti alcuni antieuropeisti, in particolare Conservatori, tra cui spicca l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, che però difficilmente potranno con altrettanta facilità cavalcare la tigre “antisistema”. In questo caso, anche in un paese tradizionalmente pragmatico e anti-ideologico come l’UK, abbiamo visto ripetersi uno schema ormai comune in tutta Europa (e non solo), con una forza populista di destra che ha condotto una campagna spregiudicata e aggressiva, spostando l’obiettivo dai dati di fatto (gli effetti reali delle politiche europee in UK) a un cocktail di argomenti che univa il crescente risentimento dei segmenti “non privilegiati” della popolazione con vecchie spinte nazionalistiche e nuove preoccupazioni sull’ipotetica invasione di migranti e rifugiati che minaccerebbero il welfare britannico. Insomma, i Brexiters hanno fatto appello a piene mani a un irrazionalismo che alcuni osservatori britannici hanno addirittura descritto come un’ “eclisse della ragione” e che come minimo segna una rinuncia a prendere una decisione in base a costi e benefici prevedibili in modo razionale.
A opporsi a questa strategia sono rimaste le forze politiche “istituzionali” e “responsabili”, incapaci di esercitare un’analoga presa sulle passioni dell’elettorato, e che hanno fatto essenzialmente ricorso ad argomenti di convenienza economica che non hanno convinto chi si sente escluso appunto dalla classe dei privilegiati. Da questo punto di vista, è interessante capire dove passa la spaccatura di cui parlavamo: da un lato, è una spaccatura geografica: Londra, Scozia e Irlanda del Nord hanno votato Remain; il Galles e tutta l’Inghilterra fuori Londra hanno votato Leave. La spaccatura però divide anche generazioni e classi sociali, come si vede in questo grafico basato sui sondaggi preelettorali (che prevedevano una lieve prevalenza del Remain):

Come si vede, i filoeuropei erano innanzitutto i più giovani, poi i più istruiti e gli appartenenti alle classi sociali più elevate. Secondo il Guardian, che pubblica una bella analisi territoriale del voto, “Il miglior modo per prevedere il risultato del voto in una data zona era guardare la percentuale di abitanti con una laurea”. Nuff’ said.
Sull’UE
Naturalmente, non è che mentre in UK si conduceva questa campagna di autolesionismo collettivo l’UE sia stata a guardare: anzi, alcuni personaggi chiave come Juncker e Schäuble hanno fatto il possibile per rafforzare l’immagine burocratica e ricattatoria dell’Europa propagandata da Farage & Co.
Ora, però, l’impressione è che di fronte alla forse inattesa batosta e all'”exit” di Cameron, i vertici UE dicano che bisogna fare subito qualcosa, senza avere un’idea chiara di cosa.
Una cosa è certa: nei paesi dell’UE non mancano i Farage, e spesso fanno a meno della cravatta. Subito gente come la Le Pen e il nostro Salvini si sono lanciati sull’osso e hanno urlato “tocca a noi!”. Aspettiamoci un fuoco di fila di aspiranti “leavers” dappertutto in Europa, perché il fenomeno di cui parlavo relativamente a Farage si è già verificato in Francia, Italia, USA, Austria: la classe media europea, quella dei Britons lontani dalla City, si sente minacciata dalle migrazioni e marginalizzata dalle disuguaglianze crescenti che arricchiscono una ristretta cerchia di privilegiati (ne abbiamo parlato anche recentemente su Hic Rhodus).
I populisti raccolgono consensi crescenti con posizioni “antisistema” e antielitarie, e quindi lanciano proclami ancora più estremi; dall’altra parte, le forze politiche “tradizionali” reagiscono riavvicinandosi e diventando un bersaglio ancora più facile, e così via, finché il partito populista si trova tutti gli altri contro, e, che vinca (come in UK oggi) o che perda (come in Francia o in Austria) la singola battaglia , vince certamente la guerra, perché può addossare le colpe del disagio in cui viviamo a tutti gli altri, uniti nella difesa del “sistema”. Prima o poi, il populismo non può che vincere.
L’unica via, peraltro stretta, è far avanzare l’Europa per migliorare le condizioni di sistema anziché chiudersi a riccio e aspettare il prossimo disastro. Diciamo la verità, oggi il problema per l’UE non è perdere il contributo britannico all’integrazione: l’UK non è mai stato a favore dell’integrazione europea. La sua adesione, tardiva e reciprocamente sospettosa, è stata più un modo per rallentare la coesione che per facilitarla; anche l’estensione a Est dell’UE è stata una scelta probabilmente errata, fortemente sostenuta proprio dall’UK (non secondariamente appunto per “diluire” l’Unione e ridurre il “rischio” di una convergenza politica) e anche dagli USA, per ridurre la sfera d’influenza russa e porre le basi per un’espansione della NATO. Dei rischi strategici che questa linea comporta ha scritto qui recentemente Bezzicante, ma anche dal punto di vista del buon funzionamento dell’Europa l’allargamento a 28 è stato controproducente. L’Europa deve progredire non quantitativamente ma qualitativamente, e l’uscita dell’UK è un trauma che richiede una risposta decisa e generosa, non pesata col bilancino di una convenienza di bottega che poi si rivela una perdita. Il segnale più negativo della Brexit è proprio nella profonda sfiducia che tanti inglesi hanno dichiarato verso la capacità dell’Europa di dare una risposta alla convinzione di tanti suoi cittadini che le istituzioni di Bruxelles siano lontane anni luce dai veri problemi di chi non fa parte “dell’1 per cento”.
Per molti, questa risposta passa per il consolidamento di un nucleo ristretto dell’attuale Unione. L’idea non è recente, e uno dei suoi originali ideatori (con un articolo del 1994, ripreso poi in uno del 2014) è proprio quel Wolfgang Schäuble che oggi è uno dei “falchi” della politica economica europea; eppure è difficile pensare che l’UE possa sopravvivere a lungo senza una qualche forma di coesione politica. Il punto è che “coesione” non può essere un eufemismo per “germanizzazione”, e che quando si parla di nucleo per l’Europa si deve tener conto delle stesse considerazioni che a suo tempo portarono alla costituzione dell’Europa a Sei, e che non erano solo economiche. Non tutti, anche in Italia, vogliono questa maggior coesione, che ha anzi certamente fieri oppositori; ma se si critica l’UE per essere un covo di tecnocrati che si occupano della forma delle banane, allora non si può essere contrari all’idea di delegare a un governo politico europeo decisioni su questioni ben più importanti, come una politica estera, energetica, industriale e soprattutto sociale comune che abbia al centro “il 99%”. È possibile? Io credo di sì: i primi ad aver da perdere da un’Europa in frantumi sono proprio i tedeschi (e poi tutti gli altri).
Qual è l’alternativa? Molti anche in Italia pensano che staremmo meglio fuori da un’Europa dominata dalla Germania. Io vorrei sottolineare che i rapporti di forza tra diversi paesi non cesserebbero di essere tali solo spezzando i legami dell’UE o dell’Euro, e che la maggiore o minore competitività e autorevolezza di un paese non si controbilancia strappando dei trattati. Non è che se i tedeschi sono “cattivi” nell’UE diventerebbero “buoni” se noi o loro ne fossimo fuori, o che la Germania rinuncerebbe a usare tutto il suo peso senza nemmeno i vincoli imposti dalle istituzioni europee; a paesi come l’Italia, ulteriormente marginalizzati rispetto ai grandi centri economici, resterebbero le “armi” della svalutazione competitiva, non molto efficaci in un contesto globale in cui di manodopera a basso costo non c’è davvero penuria. Non nascondiamocelo: nessun paese europeo, tolta la Germania, ha la forza economica e politica dell’UK e per tutti una exit strategy sarebbe ancora più costosa e arrischiata. Nessun paese isolato è in grado di negoziare da pari a pari con le grandi potenze come l’UE può fare, nessuna banca centrale che non fosse la BCE potrebbe dissuadere la speculazione con un semplice “whatever it takes”. La strada della riduzione dell’Europa a piccoli stati nazionali ci condurrebbe prima all’irrilevanza e poi a un rapido declino, per mano delle stesse forze globali che oggi creano il malessere sociale che alimenta le “soluzioni” populiste, e che non cesserebbero di operare solo perché gli Europei decidessero, ancora una volta, di affrontare la Storia in ordine sparso.