Vivere in schiavitù

Enrico Varga ha recentemente scritto un breve pamphlet sulla reintroduzione della schiavitù. Tra il serio e il faceto descrive i lavoratori moderni come sovente sfruttati e controllati dall’azienda attraverso diversi marchingegni (trasformare i lavoratori in partite Iva, esternalizzare il lavoro e i costi, “legare” a sé i dipendenti con benefit vincolanti…) che configurerebbero questi rapporti lavorativi come una sorta di schiavitù senza catene e frustate, non così dissimile da quella vigente nell’antica Roma. L’intento critico di Varga è evidente e apprezzabile e vorrei fare mie alcune sue osservazioni. Occorre però fare chiarezza sul concetto di fondo utilizzato da Varga per scopi retorici (qui ‘schiavitù’ è un’iperbole utile per riflettere) in un momento storico in cui la schiavitù reale, quella delle catene e delle torture, è ancora assolutamente viva e drammaticamente presente.

Permettetemi dunque una breve digressione sulla vera schiavitù. Secondo il Global Slavery Index 2016 ci sono attualmente al mondo circa 46 milioni di schiavi in 167 diversi paesi. Il 58% di questi vivono in soli cinque paesi: India, Cina, Pakistan, Bangladesh e Uzbekistan. Fra la dozzina di paesi con minor numero di schiavi non c’è l’Italia, che non figura neanche nella decina di paesi più attivi contro la schiavitù. Come vedete dalla figura (interattiva nell’originale) l’Italia è l’unico paese dell’Europa occidentale a presentare un certo tasso di schiavitù.

Schermata 2018-02-01 alle 09.55.57Vediamo meglio:

Secondo questo Rapporto l’Italia è 44/167 come ranking sulla schiavitù con la presenza di 129.600 schiavi. La forma più comune di schiavitù in Europa (1.243.400 schiavi in totale) è lo sfruttamento sessuale di donne africane e dell’Est Europa. Al secondo posto lo sfruttamento lavorativo (coinvolge anche cinesi) e poi il matrimonio forzato di minori (Turchia). In questi casi la parola schiavitù è assolutamente appropriata: totale privazione della libertà personale, maltrattamenti e stupri, nessun salario o salari da mera sussistenza, condizioni di vita spesso non igieniche e così via. Gli schiavi ci sono, sono attorno a noi e confezionano a volte i nostri vestiti o soddisfano i nostri desideri sessuali. Inclusi numerosi bambini che arrivano come rifugiati e scompaiono nel nulla (5.000 solo in Italia, la metà di tutti gli scomparsi in Europa).

Il lavoratore schiavizzato di Varga è tutto sommato più fortunato: ha i suoi documenti e la libertà (formale); ha i suoi amici e parenti, può muoversi sul territorio, è sostanzialmente libero di fare ciò che vuole ma, avendo bisogno di lavorare per vivere, è tenuto in condizioni di grave sfruttamento con procedure più o meno legali, tanto che riesce spesso solo a sopravvivere e non ha alcuna possibilità di godersi la libertà formale che pure avrebbe perché non ha soldi per viaggiare, andare al ristorante e fare quello che vuole. Varga introduce però altri aspetti interessanti; per esempio:

In vero, a ben guardare, le catene sono già oggi disponibili e largamente diffuse. Il cellulare che le aziende generosamente donano ai propri dipendenti sono di fatto catene virtuali. Autorizzano (formalmente o informalmente) l’azienda ad avere accesso al dipendente in qualunque momento, sia con mail messaggi o telefonate. Le catene quindi esistono, e sono sempre presenti nella vita quotidiana.

Approfondiamo lungo questa linea di pensiero, andando oltre ciò che Varga intendeva mostrare (lo sfruttamento nel lavoro).

I telefonini, come visto. E i social? Non siamo forse, in gran massa, schiavi di social media che – notoriamente – condizionano i nostri stili di vita e modi di pensare? E quale schiavitù è più potente e tremenda di quella che ci condiziona nel pensiero? E la massiccia e sempre più estesa videosorveglianza, che assieme alla tracciabilità del telefono mobile rende impossibile essere liberi di andare dove ci pare senza essere controllati (ne abbiamo trattato QUI)? E l’uso dei big data? E la televisione? Ho da poco comperato uno smartwatch: sono costantemente geotaggato, monitorato in quanto a cuore e respiro, se sto seduto troppo mi dice di alzarmi… A quando i fantomatici microchip sotto pelle? Ah! già esistono

In pratica sta accadendo questo: da un punto di vista culturale cresce l’omologazione degli individui a livello globale; dal punto di vista sociale cresce il controllo e la massificazione; dal punto di vista economico quello che scrive Varga. La conclusione è evidente: se sei parte dell’élite non hai problemi economici, non perdi tempo a guardare Masterchef, fai più o meno quello che vuoi. Se non ne fai parte sei già caduto, o sei a rischio di cadere, nella rete dell’omologazione forzata: scarso reddito → scarsa possibilità di scelta nella tua vita privata → forte controllo su di te → comportamenti stereotipati (mangi quel cibo, vedi quel programma TV, ti vesti in quel modo…). Difficile sfuggire a questa costrizione perché non solo è difficile accorgersene (noi crediamo sempre di scegliere) ma il gruppo ci consola e dà forza; tutti la pensano come me su Facebook? Evviva! (in realtà siamo noi a pensare come tutti). Tutti vedono quel programma TV? Bene, così posso twittare mentre lo vedo e poi domani ne parlo in ufficio. Tutti i giovani maschi portano i capelli da deficienti? Ma certo, è il simbolo della nostra cultura giovanile e di rivolta, che ne capite voi vecchi?

L’omologazione culturale e il controllo sociale sono la forma della schiavitù diffusa nell’epoca della globalizzazione; con l’aggiunta della crescente diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, testimoniata dall’ultimo rapporto Oxfam dove il vero dato che dovrebbe colpire non è che 8 persone possiedono la stessa ricchezza di metà della popolazione mondiale, ma la disparità di trattamento economico dove, a titolo d’esempio,

L’amministratore delegato di una delle cento aziende più grandi quotate in borsa a Londra guadagna in un anno quanto diecimila lavoratori di una fabbrica tessile del Bangladesh (fonte);

il che ci rimanda a Varga. Senza andare in Bangladesh, i precari, giovani, sottopagati, con contratti volatili, non hanno alcun futuro. Impossibile per loro pianificare il classico impiegofisso-matrimonio-mutuo-figli-pensione che fu dei loro padri. La precarietà, la fragilità e ricattabilità, sono il motore economico dell’omologazione culturale e del controllo sociale.

Ecco: ancora nulla a che vedere coi cinesi schiavizzati nei sotterranei di qualche industria tessile, o con le nigeriane costrette a prostituirsi o i minori intrappolati in chissà quale inferno. Ogni paragone sarebbe ingeneroso. Ma se non vogliamo chiamare schiavi noi stessi cerchiamo pure un termine più corretto: servi inconsapevoli; robot umani (d’altronde la parola ‘robot’ significa semplicemente lavoratore in ceco); schiavi sociali. Per non tornare al classico ‘sfruttati’…

C’è un “però”: ai trattamenti economici iniqui si possono opporre leggi democratiche e politiche sociali decenti senza perdere competitività come sistema; e alla massificazione culturale si può opporre consapevolezza critica – come da anni scriviamo qui su HR. Resta il tema, fondamentale, del controllo sociale realizzabile grazie alle moderne tecnologie. Qui, semplicemente, attenzione quando chiediamo “più sicurezza”, a quale sicurezza facciamo riferimento e a quale prezzo siamo disposti a ottenerla (come ha scritto recentemente Ottonieri); e per quanto riguarda telefoni mobili e smartwatch… impariamone un uso appropriato e limitato.