In un panorama politico linguisticamente desolante, oltre ai congiuntivi di Di Maio si fa notare l’eloquio di Paola Taverna, le cui uscite popolar-romanesche fanno sorridere i più. Ultima la sua sortita contro i vaccini, ma ormai lessico e sintassi della vicepresidente del Senato (ci-ve-pre-si-den-te-del-se-na-to) costituiscono un corpus di studio linguistico non indifferente.
Ma non voglio fare facile ironia, rifugio dei perdenti, e mostrare invece nello specifico qualcosa di noto in termini generali, ma raramente spiegato. L’idea che “parlare male significa pensare male” è nota ai più come battuta di Nanni Moretti ma dietro c’è un solido impianto linguistico, antropologico e cognitivista.
Secondo alcune teorie, infatti, noi possiamo pensare il mondo – nel senso di comprenderlo – solo entro i limiti del linguaggio che possediamo; una importante conseguenza riguarda le differenze culturali e sociali fra popolazioni: il mondo pensato, capito, compreso dagli italiani non è lo stesso di quello pensato, capito e compreso dai tedeschi; figuratevi dai russi; figuratevi dai cinesi! In questo senso le traduzioni non sono mai letterarie ma – almeno parzialmente – arbitrarie, e si parla di traduzione come tradimento. Percorrendo questa strada è lecito pensare che ci siano differenze (nel modo di comprendere il mondo) fra persone della stessa comunità linguistica (italiani, per esempio) ma appartenenti a culture professionali differenti; vale a dire: forse i medici “vedono le cose” in maniera differente dai sociologi; i periti agrari in modo diverso dai bibliotecari… Soffermiamoci un momento su questo punto. E’ chiaro che il medico è sovrano quando parla di medicina e l’avvocato quando parla di giurisprudenza; ma se entrambi, in una cena amichevole, parlano del più e del meno, di viaggi, di politica o di letteratura, è probabile che – ad un’analisi attenta – si riscontrino delle differenze strutturali nell’interpretazione e nella descrizione che ciascuno dà dei diversi argomenti: il medico, probabilmente, sarà più funzionalista (in Occidente la medicina è ancorata a paradigmi organicisti, il corpo come macchina e così via) mentre il sociologo potrebbe essere più strutturalista, aderire a un pensiero sintetico che lo porta a vedere un quadro generale. In questo, le parole spese da ciascuno saranno differenti, frutto dei loro studi e interessi. Ma parole differenti significano concetti differenti, e inevitabilmente nel loro dialogare, il medico e il sociologo non si capiranno fino in fondo..
Le parole esprimono concetti. Esiste un concetto di |blog|, una parola ‘blog’ e un “oggetto” blog. La parola, in sé, non definisce l’oggetto se non legandolo al suo concetto. Se a un anziano non tecnologico dico ‘blog’, lui non capirà; e se gli mostro Hic Rhodus e gli dico “Questo è un grog”, per lui ‘grog’ sarà ciò che io chiamo, invece, ‘blog’. Non sono le parole a definire gli oggetti, ma i concetti loro sottesi che, però, possiamo esprimere solo con delle parole. Riassumendo: Hic Rhodus è un ‘blog’ anche se non conoscete questa parola; vale a dire che è uno spazio web che contiene testi periodicamente aggiornati dai curatori; se dico ‘blog’ a chi conosce questa parola, lui immagina questo spazio web, che è il concetto di |blog|. La relazione che esiste fra parola, referenti (gli oggetti) e il pensiero, è molto complicata e non ancora del tutto chiara. Anziché elencarvi teorie in merito vi faccio qualche esempio: come tradurre in inglese “voglio bene ai miei amici”? E “Amo mia moglie”? Probabilmente in entrambi i casi userete il verbo to love, perché in inglese non si distingue fra affetto, amore e – a volte – passione. L’uomo inglese love la moglie, i figli, il cane, il suo lavoro e andare a pesca. Difficile tradurre ‘magari’, ‘struggimento’, ‘trasecolare’ e molte altre. E ci sono molte parole straniere difficilmente traducibili in italiano (qui un elenco). Non c’è la parola? Non c’è quel concetto; semmai ce n’è uno molto simile, ma non quello.
Andando avanti arriviamo, inevitabilmente, alle parole possedute a livelli scolastici differenti. Insomma, persone di maggiore cultura (non in senso antropologico ma sapienziale) posseggono più parole perché possiedono più concetti. Sui 2.000.000 di vocabili italiani, noi usiamo generalmente i 2.000 basilari imparati fin da piccoli, e un italiano medio, di media cultura, può attingere a un vocabolario di base di 6.500 parole. Questo diceva molti anni fa Tullio De Mauro (fonte); è noto che la situazione è di molto peggiorata negli ultimi anni e che non solo i ragazzi parlano e scrivono male, ma che il cosiddetto analfabetismo funzionale è una piaga particolarmente grave in Italia.
Quindi, riassumendo:
studi poco, leggi poco ⇒
possiedi poche parole ⇒
possiedi pochi concetti ⇒
hai una visione ristretta del mondo ⇒
non sei in grado di capire problemi complessi
È un’ingiustizia? Certamente. È un orribile conseguenza del sistema capitalistico che penalizza i poveracci? Lo sottoscrivo. È un dovere promuovere l’educazione al fine di migliorare la nostra cittadinanza attiva? È fuori di dubbio. La Taverna si esprime male probabilmente perché capisce poco? Direi che è assolutamente chiaro.
Il problema quindi si deve spostare, dall’ironia sui congiuntivi di Di Maio e sulle fantasie lessicali di Taverna, alla loro capacità di vedere, comprendere la complessità dell’agire politico e istituzionale, di sapere spaziare fra materie comunque a loro aliene (insomma, la Taverna è perito aziendale e ha fatto la segretaria in un poliambulatorio, con tutto il rispetto…). Il discorso è classista? Sì. In questo modo si intende impedire a chi non è colto e laureato di fare politica? No, non diciamo assurdità. Conosco – l’ho già testimoniato qui su HR – contadini, operai, impiegati, con e senza laurea, intelligenti e curiosi, e professori universitari ignoranti e grezzi. Non è il solo curriculum scolastico a fare la differenza ma un mix di qualità personali, istruzione formale e informale (leggere, viaggiare…). Ma la lingua, le parole, le espressioni, i comportamenti, sono rivelatori di questa fiamma interiore, di genuina intelligenza e apertura mentale; oppure del contrario. Avere, in ruoli istituzionali rilevanti, persone che urlano la loro incomprensione del mondo, che agitano le folle in nome di una ipersemplificazione delle realtà, che varano leggi all’insegna dell’approssimazione, è il problema che abbiamo oggi in Italia. Il problema non è che sono grillini, o leghisti. Il problema è che non capiscono, e col loro ristretto orizzonte ci governano.
Risorsa:
Su Hic Rhodus, Ambiguità del linguaggio, forza del linguaggio, con la “Mappa 25 – Potenza del linguaggio”.
In copertina: Denis Riva, “Portato via”, 2013.