Il linguaggio non è solo uno strumento per descrivere il mondo; non serve solo per entrare in relazione e organizzare le nostre giornate; il linguaggio non ha una semplice funzione operativa per consentire la cooperazione sociale. Il linguaggio è qualcosa di molto ma molto più potente. Il linguaggio crea e trasforma la realtà. Il linguaggio influisce sul nostro pensiero, e noi possiamo pensare sostanzialmente solo ciò che possiamo dire; un linguaggio povero implica un pensiero povero, un linguaggio violento precede un comportamento violento, un linguaggio sofisticato e articolato si associa a un pensiero complesso e penetrante; lingue diverse implicano quindi valori, culture, priorità e atteggiamenti differenti mentre persone realmente bi- o multi-lingui non hanno semplicemente più nozioni e competenze ma sinapsi migliorate e un pensiero stratificato. Tutte queste pesanti affermazioni godono di sterminata letteratura linguistica, psicologico-cognitiva, antropologica e sociologica che qui non introdurremo, ricordando come il tema, a me molto caro, è già stato trattato molto da questo blog. In fondo a questo testo troverete la Mappa 25 che riepiloga i nostri testi principali sull’argomento. Questa straordinaria potenza del linguaggio è però soggetta a vincoli, limiti e ambiguità che rendono a volte opaco il messaggio, ambigua la comunicazione, incerta la comprensione.
È in questa aporia fra linguaggio costruttore del mondo e linguaggio ambiguo che si consumano alcuni processi sociali divenuti evidenti e pericolosi in questi ultimi tempi, come la post verità, per citarne uno, e il suo uso massiccio da parte dei populismi. In questo articolo propongo una serie di riflessioni non organiche, ma collegate fra loro dall’idea trasformatrice del linguaggio, malgrado la sua ambiguità. Sono testi differenti, che affrontano in maniera eclettica un tema che, sottolineo subito, non è affatto una semplice curiosità linguistica o, peggio, una bizzarria sociologica; approcciare la realtà come una costruzione linguistica ha effetti notevoli in molte attività umane, per esempio in campo scientifico (un ambito che qui sfiorerò solamente).
Questo non è una pipa. Chi non conosce il quadro di Magritte? Opera celeberrima degli anni ’20, poi ripresa in successive opere, in cui appare unicamente una grande pipa, senza appoggi né sfondi particolari che possano darle un senso, quasi come se fosse una pipa in una bacheca. Nel quadro (attenzione: non è il titolo apposto su un cartellino, è parte del quadro) è scritto “Ceci n’est pas une pipe” (Questo non è una pipa).
A cosa allude il messaggio? Questo oggetto non è una vera pipa, è solo l’imitazione di una pipa? Credo sia questa la spiegazione, anche se se ne possono trovare altre, ancora più profonde in una sorta di spirale paradossale dove si può arrivare a “[Tutto questo – il quadro, la sua rappresentazione e questa scritta medesima] non è una pipa”, o anche “[Questa scritta] non è una pipa” e altro. Se vi piacciono questi giochi potete dare una lettura a Michel Foucault, Questo non è una pipa, edizioni SE, Milano 1988, specie al saggio, ivi contenuto, “Il calligramma disfatto”.
“Questo non è una pipa” pone un problema straordinariamente importante, a mio avviso cruciale, che riecheggia il fondamento wittgensteiniano delle Ricerche filosofiche: come facciamo a dire quello che diciamo? Come facciamo a rappresentarci (“-ci”: a noi stessi, e fra di noi) la realtà che ci circonda in maniera utile, chiara, distintiva, in modo tale da trarne reali informazioni in grado di farci cambiare opinioni e atteggiamenti? La comunicazione è questo, è modifica di comportamenti in seguito a una relazione fra soggetti intenzionati a tale modifica, ma se mettiamo in discussione il senso profondo, strutturale, della comunicazione, allora non possiamo prevedere la modifica nei successivi comportamenti. Sarebbe il fallimento della comunicazione. Se seguiamo in maniera radicale Wittgenstein, o anche alcuni semiologi e filosofi del linguaggio, potremmo in effetti provare sconcerto e smarrimento verso la fragilità e inadeguatezza della comunicazione, e Magritte (non solo con quest’opera) ci svela che il Re è nudo, la comunicazione incerta e neppure convenzionale, la significazione arbitraria.
Allora vediamo un’ulteriore interpretazione di “Questo non è una pipa”, un’interpretazione poco foucaultiana ma con aperture interessanti e propositive: “Questo non è una pipa” perché è molto di più, e anche qualcosa di diverso: è semplicemente una sua interpretazione; non pretendo che fumiate tabacco con questa pipa, non sarebbe possibile, ma attraverso la sua interpretazione ve ne faccio capire altri risvolti, altri aspetti, altre dimensioni, che potrete traslare sulla vera pipa che potrete poi fumare.
L’inganno delle parole. Leggete questo divertente passaggio tratto da “I fiori blu” di Raymond Queneau (quello di “Esercizi di stile” e di “Zazie nel metrò”):
– L’espadrilla?
– Quegli affari che ficcano nel collo della bestia feroce.
– E’ sicuro che una cosa così si chiama così?
– Per il momento, io chiamo così una cosa così quindi la cosa viene chiamata così, e dato che è con me e non con un altro che lei sta parlando in questo momento, le conviene prendere le mie parole nel loro aspetto significante.
E adesso confrontatelo con quello nientedimeno che di Lewis Carrol (da “Al di là dello specchio (e quel che Alice vi trovò)”):
– […] Questo è gloria per te!
– Non capisco cosa intenda per “gloria”, – disse Alice
Tappo Tombo [Humpty Dumpty] sorrise sprezzantemente. – E’ naturale che tu non capisca… finché non te lo spiegherò io. Significa: “Questo è un ragionamento schiacciante per te!”
– Ma “gloria” non significa “ragionamento schiacciante”, – obiettò Alice.
– Quando io adopero una parola, – disse Tappo Tombo, in tono piuttosto sdegnoso, – significa esattamente quel che ho scelto di fargli significare… né più né meno.
– La questione è, – disse Alice, – se lei può fare in modo che le parole significhino le cose più disparate.
– La questione è, – disse Tappo Tombo, – chi è il padrone… ecco tutto.
I due brani sono incredibilmente simili e non è da escludere una sorta di “citazione-omaggio” di Queneau nei riguardi di Carrol.
Entrambe hanno a che fare col rapporto fra significazione (ovvero il senso che si dà alle parole) e potere, tema assai antico che – fuori dal campo di competenze della semiotica – è già indicato nel celebre L’ideologia tedesca di Marx ed Engels”, in un contesto e con significati ovviamente molto differenti.
Il succo è questo: le parole ingannano, e l’inganno va a beneficio di chi lo perpetua e lo orienta. La forza dell’inganno non è quasi mai nella frode, volgare e facilmente smascherabile, ma nella costruzione di un artificio retorico nel quale l’interlocutore si perde, e finisce per non accorgersi di una sola falla, quella che consente di mutare il senso delle cose che si dicono (e che si fanno).
Facciamo alcuni esempi di concetti ambigui, o polisemici, o che hanno acquistato connotazioni differenti in contesti diversi. Uno di questi è “tolleranza”:
- Tolleranza, in campo ingegneristico, esprime la deviazione massima ammissibile di un attributo di un oggetto rispetto ad un valore prefissato. Rispetto al concetto di tolleranza, l’attributo in esame non viene quindi classificato come più o meno preciso, ma piuttosto come in tolleranza (ossia rientrante nei limiti stabiliti) o fuori tolleranza (non rientrante).
- In campo filosofico, politico, etico, religioso, invece, il concetto è relativo alla capacità collettiva ed individuale di vivere pacificamente con coloro che credono ed agiscono in maniera diversa dalla propria.
Ho tratto entrambe le definizioni da Wikipedia, ne potete trovare di migliori, naturalmente.
La definizione “ingegneristica” ha a che fare con importanti concetti metodologici quali quello di “validità”, da intendere come la capacità di una tecnica o strumento di perseguire lo scopo per il quale si utilizzano. In termini più ristretti è il rapporto fra il concetto ed il suo indicatore; un indicatore è valido se la sua parte indicante il concetto è piuttosto ampia, non è valido se la parte indicante è irrisoria o nulla.
Insomma il succo è questo: noi osserviamo il mondo e cerchiamo di afferrarlo concettualmente, semmai addirittura misurandolo (cosa difficilissima) ma ci siamo accorti da tempo che questa nostra pulsione incontra dei limiti nella capacità tecnica di approssimarsi alla misura perfetta. Sono i nostri strumenti che impediscono una misurazione assolutamente perfetta, e come accade per gli ingegneri accade per i sociologi, gli economisti e i valutatori.
La tolleranza nell’altro senso è invece un nobilissimo concetto, di cui molti abusano, che secondo alcuni è addirittura un fondamento della democrazia (Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi 2007). La tolleranza ha a che fare col pluralismo, naturalmente, e col dialogo, e specialmente – questo è centrale – coi ponti che cerchiamo di gettare fra posizioni differenti. Della tolleranza in questo senso ciò che importa è il lavoro di connessione fra assunti, idee e credenze diverse, più ancora del risultato che tale lavoro consegue, perché in quel lavoro c’è costruzione di senso, pattuizione di procedure e significati e relazioni reciproche.
Il termine è lo stesso, ma polisemico. La tolleranza è in entrambi i casi uno scostamento da una verità, o da un benchmark, ma nel caso ingegneristico è regolata con precisione, laddove in campo filosofico dipende dalla predisposizione di ciascuno. Qualcosa di simile accade con termini tecnici come ‘qualità’ e ‘misurazione’.
Misurazione, qualità e valutazione. C’è un continuo errare (bellissima parola con due significati entrambi pertinenti: ‘girare a vuoto’ e ‘sbagliare’) fra questi termini: da un lato si confonde qualità e valutazione. D’altro lato c’è una confusione più sottile fra misurazione e qualità, che qualcuno addirittura ritiene sinonimi (p.es. Giuseppe Cogliandro, “Misurazione o valutazione? Divagazioni semantiche ed epistemologiche”, Rivista trimestrale di Scienza dell’Amministrazione, n. 2, 2000).
Provo a mettere appena un po’ d’ordine.
In super sintesi mi sentirei di dire che i tre termini (e relativi concetti) appartengono a tre ambiti concettuali diversi, e pertanto non comparabili (non si può fare un confronto fra di loro), non c’è fundamentum divisionis; è un po’ come chiedere se si preferisce la Primavera di Botticelli o quella di Vivaldi. Comunque:
- misurazione è un concetto relativo a definizioni operative riferibili alla rilevazione dello stato di una proprietà di un ‘oggetto’ (caso) di indagine; a seconda di come viene concepita la proprietà (p.es. continua o discreta) si ritiene di poterla misurare, contare, ordinare o classificare. Le proprietà misurabili, negli interessi delle discipline umane e sociali, sono pochissime. Il concetto di ‘misurazione’ è ambiguo perché:
- solitamente utilizzato ben oltre il suo significato ristretto, come sinonimo generale di conoscenza e indagine;
- solitamente utilizzato ignorando il carattere convenzionale di tutte le operazioni di riflessione e indagine, ivi comprese quelle relative alla natura della ‘realtà’;
- qualità è un concetto polisemico dall’uso ambiguo: di per sé ‘qualità’ dovrebbe essere un termine neutro simile a quello di ‘proprietà’ o simili ; qualità quindi, senza connotazioni, non significa nulla. Nell’uso recente introdotto per scopiazzatura di ideologie manageriali (TQM) trasposte nei lessici delle professioni e discipline sociali avrebbe invece – anziché neutro – un significato positivo di ‘presenza di determinate proprietà giudicate efficaci o efficienti rispetto all’obiettivo’ (vedi p.es. la definizione ISO), il che non significa assolutamente nulla senza il contesto, l’esplicitazione dell’obiettivo, i criteri di giudizio, e così via;
- valutazione è un concetto riferito a un insieme di pratiche di conoscenza con obiettivi comuni (operativi, legati alla decisione e alla soluzione di suoi problemi, concernenti un giudizio) che taluni dicono essere una disciplina in sé, o una transdisciplina (Scriven), o un contesto semplicemente multiprofessionale e multidisciplinare.

Realtà, verità ed oggettività sono tre ingombranti, malevoli e perniciosi compagni di ogni nostra attività scientifica e professionale, che prosperano ancora molto vivi e vegeti in valutazione, laddove in altre discipline e branche del sapere sono da tempo guardati con qualche sospetto (in alcune altre discipline, non certo in tutte). A me pare che si possano distinguere e intendere i tre concetti in questo modo:
- realtà: è il nome che diamo a una rappresentazione che non è sempre necessariamente “vera”; p.es. i sogni sono “reali”, come ci insegna la psicoanalisi; i romanzi sono reali, e anche le allucinazioni. Viviamo in una realtà che include anche il falso (o almeno: ciò che potrebbe essere definito tale). Sono reali le nostre fantasie, i nostri progetti, le nostre speranze, anche se immateriali, anche se col tempo si modificano e scompaiono. Salvo relegare la realtà alla sola meccanica delle cose fisiche, non possiamo non considerare tutta la sfera psichica come parte della nostra realtà; ma anche il linguaggio – che è reale – si piega a noti paradossi che includono la falsificazione e il cosiddetto “doppio legame”, che probabilmente non è né vero né falso ma appartenente a un altro regno;
- verità: un concetto spinoso e delicato, quasi religioso; e comunque non può essere “oggettivo” per una ragione logica: la verità appartiene a ciò che può venire asserito, diversamente dalla realtà – che potremmo immaginare come esistente al di là dell’asserto (sarebbe comunque da discutere) – e diversamente dall’oggettività che è un giudizio sull’asserto, come vedremo, e quindi ha un’altra natura. La verità ha a che fare con l’assetto dei valori ai quali mi riferisco; essi sono un prodotto storico-sociale, come è – a mio avviso – auto-evidente per il fatto che al mondo ci sono milioni di verità diverse, discese dall’arena delle idee per confrontarsi anche sul terreno delle armi;
- oggettività: come detto è una connotazione che si dà a un asserto per dichiararlo vero (valido); è un’astrazione ideale, non reale, perché sempre soggetta a dichiarazioni preliminari sul metodo (p.es. sulla validità); in questo senso l’oggettività non possiede un’ontologia, ma è il riflesso di un’ideologia. Scientifica quanto si vuole, se si ama il termine “scientifico”.
Quindi: entro un certo modo di intendere il mondo, e il modo in cui possiamo conoscerlo, c’è una realtà che possiamo conoscere oggettivamente esprimendo delle verità (non so chi lo possa dire, ma certamente qualcuno che pensa così esiste da qualche parte). Entro un’altra visione del mondo, non c’è una realtà (il vecchio e sottovalutato Watzlawick ha scritto un’operetta intitolata La realtà della realtà in cui parla di questo; altri riferimenti: Schütz, Berger e Luckmann, un sacco d’altri), ma semmai ce ne sono di più, o di diverse, o di incomunicabili e imperscrutabili, che possiamo conoscere solo soggettivamente e non certamente per esprimere delle verità ma, al massimo, dei punti di vista che rientrano nel gioco ermeneutico (appunti sull’ingannevole concetto di ‘verità’ QUI).
Entrambe queste posizioni estreme sono sterili.
Per indicare una posizione mediana più proficua dobbiamo ora per forza ragionare sulla natura dei numeri, che ingombrano la via.
I numeri ci raccontano la verità? Non affrettatevi a dire di sì. Certo – voi direte – se affermo che sul tavolo ci sono 3 mele, intendo TRE mele, non due, non quattro, e quindi mi esprimo con una esattezza totale – il che implica una verità – inaccessibile al linguaggio ordinario (dicendo, per esempio, “un po’ di mele”, “alcune mele”…). Difficile negarlo. E non mi appellerò ai numerosi argomenti che viziano esattezza e verità dei numeri per ragioni esterne alla loro natura (possibile errore umano; errore e tolleranza degli strumenti di misurazione – non tanto nel caso delle tre mele, ovvio – e quindi di necessarie regole di approssimazione; errori di calcolo; troncatura di numeri infiniti… un riepilogo divulgativo e divertente QUI) per fare un discorso assai diverso, che sia interno alla natura dei numeri.
Per avviarmi lungo questo discorso piuttosto complicato – che cercherò di rendere più discorsivamente possibile – dobbiamo interrogarci preliminarmente su tale natura. Insomma: cos’è un numero? Se ci rivolgiamo alla Wiki
In matematica, un numero è un modo di esprimere una quantità, oppure la posizione in un elenco di elementi, oppure il rapporto tra grandezze dello stesso tipo
otteniamo una definizione sostanzialmente tautologica; mentre con la Treccani
Ciascuno degli enti astratti che rappresentano insiemi di unità, ordinati in una successione infinita (serie naturale dei n.) nella quale ogni elemento conta un’unità in più rispetto al precedente; […]
finiamo affogati nell’approccio filosofico astratto che ha bisogno di definire ente il numero (seguitando con una contorta descrizione, vedete il testo completo originale).
Quindi, cosa sono i numeri? Per capirlo dobbiamo essere disponibili a uscire da una logica meccanica o addirittura “cosista”. Già alla fine dell’800 il matematico Richard Dedekind scriveva:
Nel concepire l’aritmetica (algebra, analisi) soltanto come una parte della logica io intendo già di considerare il concetto di numero come del tutto indipendente dalle rappresentazioni o idee dello spazio e del tempo e di riconoscere piuttosto in questo concetto una emanazione diretta delle pure leggi del pensiero. Alla domanda espressa dal titolo di questo scritto io rispondo: i numeri sono libere creazioni dello spirito umano, essi servono come mezzo per distinguere più facilmente e più nettamente le cose. (fonte).
Più o meno in quel periodo succedevano cose importanti: il Circolo di Vienna concepisce il positivismo logico per dare alla conoscenza scientifica lo stesso rigore dell’analisi linguistica; Wittgenstein, che frequenta e influenza diversi membri del Circolo, dibatte e polemizza con Frege sulla natura dei numeri e il loro apporto alla logica. Cosa sostengono Frege e Wittgenstein? Che i numeri sono concetti. C’è poi un’importante differenza fra i due logici ma non voglio infierire sui lettori, che rimando a letture quali Visione e determinazione concettuale di Filippo Accursio. Diciamo comunque che in quanto concetti hanno necessariamente una natura linguistica, anche se certamente di tipo particolare. Questo significa che sotto un profilo logico implicano una sorta di “verità” (verità in senso logico, non ontologico) ma non di oggettività. In particolare Wittgenstein non considera separabili (data la particolarità concettuale dei numeri) i motivi che spingono a calcolare, con i fatti cui applichiamo i calcoli ma – si badi bene – ciò non significa che i calcoli ricevano valore o conferma dai fatti o dalle applicazioni perché questo vorrebbe dire considerare la matematica una scienza empirica (Accursio, cit., pag. 82); ma non lo è. La matematica non è una scienza, ma un linguaggio. E non è “vera” ma, semplicemente, usata (Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica).
Per comprendere a colpo d’occhio la natura linguistica della matematica vi propongo questa tabella comparativa:
lettere (a, b, c, … z) | parole o frasi nucleari | frasi complesse o periodi | argomentazione (attori e contesto) |
cifre (1, 2, 3, …0) | numeri (p. es. naturali) | operazioni e relazioni; indicatori | uso pratico |
segni (specificat.: simboli) | concetti | concetti complessi o asserti | uso pratico |
sintassi | semantica | pragmatica |
La tabella dice queste poche cose (relativamente ai numeri): le cifre non hanno alcun senso in loro stesse, trattandosi semplicemente di segni, come le lettere dell’alfabeto. I numeri invece, e i calcoli, e gli indicatori, e tutto ciò che ha a che fare col linguaggio matematico ha un senso, e profondo, solo come uso. Torniamo alle tre mele dell’esempio iniziale. Se dico a voi – che leggete questa nota – “3 mele!”, avete tutto il diritto di guardarmi in modo interrogativo. Ho indubbiamente utilizzato parole e concetti che non hanno alcun senso se non in una relazione col contesto. Potrebbe essere la risposta all’interrogazione della maestra (“Una mela più due mele uguale a…?”); oppure potrei indicare il tavolo che contiene le mele; oppure sono dal fruttivendolo e gli elenco i tipi di frutta che mi deve servire, e la loro quantità. Tutto questo ha a che fare con l’indicalità del linguaggio, che ha un senso in relazione al contesto e alle ragioni della comunicazione.
Se invece avessi detto: “la dietista mi ha consigliato di mangiare tre mele al giorno” ecco che le 3 mele diventano un elemento chiarificatore, un predicato, la specificazione di cosa mi ha consigliato la dietista. Andiamo oltre: l’ipotetica frase “gli italiani mangiano in media 3 mele alla settimana” assomiglia all’esito di un calcolo, anzi potrebbe esserlo:
Nel formato qui presentato si chiama “indicatore” ed è moltissimo usato in economia, sociologia, programmazione pubblica, valutazione eccetera. Certo, ne convengo: dire che in media gli italiani mangiano tre mele alla settimana è assai più preciso rispetto ad asserire il consumo di “alcune mele”, ma questa precisione, che è una proprietà del concetto numerico (seguendo Wittgenstein) non solo non cambia in nulla la natura linguistica di quel “3” ma, attenzione, ne sottolinea, come per tutto ciò che riguarda il linguaggio, la natura stipulativa. Nel nostro piccolo esempio tale natura stipulativa si inferisce proprio dal contesto – che qui non conosciamo – che ha portato a questo calcolo; stiamo programmando il reparto ortofrutticolo di un grande magazzino? Dobbiamo lanciare sul mercato un nuovo tipo di mela? Stiamo conducendo una valutazione epidemiologica? Se vi fermate a riflettere, in ciascuno di questi casi le 3 mele non sono lo stesse mele, perché danno un senso diverso all’indicatore. Ogni indicatore economico, sociale, educativo… ha senso (quindi ha a che fare con la semantica e la pragmatica, non con la mera sintassi) per l’uso che se ne intende fare e, ancor prima, per il senso che vi è stato attribuito dagli attori originari (mangiatori e non mangiatori di mele; venditori di mele…) e dallo stesso ricercatore, che deve avere applicato numerose regole convenzionali di calcolo e arrotondamento. Parlare di indicatori chiarisce molto della natura linguistica e sommamente fallace dei numeri, e mi permetterete di evitarlo rinviando al volume Costruire e usare indicatori nella ricerca sociale e nella valutazione.
Dove ci porta questa discussione? Verso alcune direzioni molto precise che qui accennerò solamente:
- da un punto di vista sociale, ordinario, dovremmo maggiormente riflettere sulle parole, loro significato e, specialmente, loro uso. Come già detto le bufale, le post verità, le seduzioni populiste nascono e si affermano grazie all’uso distorto e pilotate delle parole; occorre grande, grandissima attenzione a questo perché le parole si impongono indipendentemente dalla realtà dei fatti;
- da un punto di vista tecnico e scientifico questo discorso apre una strada molto interessante al metodo, ai modi coi quali facciamo ricerca specie in campo umano e sociale. Tutto ciò che indaghiamo è, alla fine, un mondo di parole; ma anche i metodi e le tecniche che usiamo sono fatti di parole (o numeri da interpretare con parole); ciò crea un evidente corto circuito ermeneutico.
Ed ora, ecco la nostra Mappa 25.
Questi i link ai post citati:
La teoria:
- Le parole e il potere;
- Le parole sono pietre. Ma non è detto che siano chiare;
- Il linguaggio poetico non può mentire.
Fallacie logiche:
- Maiali che volano e altre verità. Sulle fallacie logiche 2.0;
- Il filosofo dolente e la ragnatela delle fallacie.
Deriva del linguaggio:
- Pornografia della parola e nuovo fascismo;
- Ciò che dite è ciò che siete;
- Mappa 22 – Popolo e populismo.
Internet e la post verità:
- Internet e il linguaggio: metafore a catinelle;
- La democrazia della bufala;
- Dalla post verità alla post democrazia;
- Mappa 19 – Mass media e social network.
Alcuni casi esemplari:
- Le donne come corpo e la difficile parità di genere del linguaggio;
- La banalità del Bene;
- La civiltà del “Mi piace” urla “Vergogna!”;
- Siamo in un frullatore. E ci gira la testa.
L’immagine di copertina è Nanni Balestrini, Complotto, 1965.