Le disuguaglianze, la rabbia e le brioches

Improvvisamente, se ne sono accorti tutti. Per alcuni, l’occasione è stato il recente report di Oxfam sulla disuguaglianza globale (Public good or private wealth?), che ha ottenuto anche in Italia i titoli dei giornali, incluso il Sole 24 Ore. Altri hanno seguito percorsi meno ovvi, come lo scrittore Alessandro Baricco, che sul blog The Catcher ha ripubblicato un suo articolo sulla cecità delle élite (e devo ammettere che mi ha fatto un certo effetto leggere le critiche di Baricco alle élite, visto che se dovessi indicare il nome di una persona in Italia che identificherei con qualsiasi élite, economica, culturale, mediatica, forse citerei proprio Baricco). Insomma, se la comunicazione mainstream continua a occuparsi di Salvini, dei migranti, e magari dei misfatti commessi ai danni della lingua italiana tanto dai parlamentari pentastellati che dagli accademici della Crusca, un certo numero di giornalisti e commentatori hanno dedicato la loro attenzione a un problema gravido di effetti molto pericolosi: quello delle disuguaglianze.

Ora, senza offesa per Alessandro Baricco, di cui ho letto con piacere diversi romanzi, credo che ci sia chi, sull’argomento delle disuguaglianze, ha un pedigree di studi e approfondimenti un po’ più sostanzioso, e non sto ovviamente parlando di noi di Hic Rhodus. Chi ci segue sa che si tratta di un tema che non solo ci interessa (il primo post in cui abbiamo discusso un rapporto dell’Oxfam sulla disuguaglianza è di cinque anni fa), ma che abbiamo sempre giudicato di grande impatto non solo etico, ma politico, molto prima che l’ondata demagogica (confesso a bassa voce che populismo è una parola che non mi entusiasma) rompesse gli argini della nostra politica, anche sostenuta dal senso di iniquità che il crescere delle disuguaglianze ha portato con sé, e non solo in Italia. D’altronde,
Una delle più eloquenti rappresentazioni di come negli anni a un miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni più povere sia corrisposta una sostanziale stagnazione di quelle della classe medio-bassa dei paesi del “primo mondo”, e un arricchimento astronomico dei pochi ricchissimi è offerta dalla cosiddetta “curva a elefante” che vedete qui sotto, nella versione pubblicata all’interno del World Inequality Report 2018 pubblicato dal World Inequality Lab.

La chiave di lettura del grafico, come dicevo, è che negli ultimi 30-40 anni a migliorare significativamente la propria condizione sono stati i popoli dei paesi emergenti, con grandi masse uscite da condizioni di povertà estrema, e coloro che, all’altro estremo della curva (nella “proboscide”) sono nell’1% o meglio ancora nella frazione ancor più ristretta dei veri privilegiati che lo sono diventati sempre più nel corso degli anni. Chi invece ha visto restare stazionaria la propria condizione (e forse più precario il proprio posizionamento sociale) sono quelle che una volta avremmo chiamato le classi proletaria e piccolo-borghese dei paesi sviluppati che, non a caso, sono oggi contemporaneamente il target e lo strumento di chi, come Steve Bannon, vuol far trionfare il nazionalismo populista di destra.

Chi, come dicevo prima, studia da anni la questione della disuguaglianza economica sulla base di dati storici relativi a diversi paesi ad economia di mercato si colloca, logicamente, su posizioni politiche tradizionalmente “di sinistra”. Se quindi, da un lato, è opportuno leggere questi lavori facendo la tara alle conclusioni cui arrivano, dall’altro è interessante osservare alcune convergenze nelle loro argomentazioni, e alcuni dei dati che a noi, osservatori “della strada”, inevitabilmente sfuggirebbero. Tra le molte analisi che si potrebbero citare, oltre appunto le pubblicazioni di Oxfam e World Inequality Lab, vorrei ricorrere ad alcuni lavori di Thomas Piketty, l’economista francese reso noto qualche anno fa dal controverso libro Il Capitale nel XXI secolo, attinti dal suo blog sul sito di Le Monde.

Un punto su cui questi soggetti (ripeto: sicuramente collocabili in una prospettiva politica di sinistra) propongono una visione convergente è che la crescita delle disuguaglianze e l‘aumento della ricchezza dei “già ricchi” non dipende solo dai meccanismi di mercato (che pure, come sappiamo, ecc. ecc.) ma da scelte politiche e in particolare dalle politiche fiscali, che negli ultimi decenni hanno beneficato appunto chi era già privilegiato. La figura qui sotto, ripresa dal rapporto Oxfam citato, evidenzia che a livello globale se la pressione fiscale complessiva cresce, quella sui profitti da impresa cala, mentre le tasse sui patrimoni restano stabili.

Anche parlando solo delle tasse sui redditi delle persone, la tendenza generale negli ultimi decenni è stata nella direzione di renderle meno progressive, e quindi meno efficaci nel limitare la disuguaglianza dei redditi. Come scrive il World Inequality Report 2018 (la traduzione dall’inglese è mia),

La progressività fiscale è stata drasticamente ridotta nei paesi ricchi dagli anni Settanta fino alla metà del primo decennio del XXI secolo. In questo periodo, l’aliquota marginale più alta nei paesi ricchi è stata ridotta in media dal 70% al 42% [in Italia, dal 72% al 43%].

Anche Thomas Piketty sottolinea questa tendenza, che in Francia è stata ulteriormente accentuata sotto l’attuale presidente Macron, che ha drasticamente ridimensionato e trasformato la preesistente tassa sui patrimoni, ridotta a una tassa sui soli beni immobili. Piketty in un suo articolo lega esplicitamente la politica “pro-ricchi” di Macron alla crescente rabbia della classe media francese e al movimento dei gilets jaunes.

Andamento del gettito della tassa patrimoniale in Francia – Fonte: http://piketty.blog.lemonde.fr

Ora, per essere chiari: mentre mi considero molto favorevole a una tassazione sul reddito fortemente progressiva, sono contrario, come ho scritto tempo fa, a una (ulteriore) tassa patrimoniale; ma conviene innanzitutto distinguere i fatti dalle opinioni politiche, e i fatti dicono che i ricchi, in USA ed Europa, non solo guadagnano sempre di più, ma pagano sempre meno tasse. La mia opinione, invece, è che questa tendenza vada invertita, e che nella tassazione dei redditi più alti si debbano trovare le risorse per delle politiche di welfare a sostegno dei più svantaggiati, esattamente il contrario insomma di quello che sta facendo questo governo, che taglia le tasse ai ricchi e finanzia il welfare col debito pubblico, che è una tassa indiretta a carico dei poveri. Ma indipendentemente da quello che penso io, è evidente che la situazione è che negli ultimi decenni le classi medio-basse in Europa e USA, pur non avendo perso potere d’acquisto, sono state tagliate fuori dalla “spartizione della torta”, e come aggravante sono state rese vulnerabili dalla concorrenza globale di classi produttive dei paesi in via di sviluppo. Si può discutere su se questo sia un problema e su quali possano esserne le soluzioni, ma non si può disconoscere il fenomeno.

Sempre secondo Piketty, uno dei motivi della debolezza politica delle classi popolari in Occidente è che hanno perso la loro rappresentanza politica. Su questo ha scritto un articolo troppo lungo e complicato perché io tenti di riassumerlo qui, ma di cui vorrei riportare una delle tesi centrali: in Occidente, negli ultimi cinquant’anni, in parallelo col processo di globalizzazione, si è passati da un sistema politico in cui i più ricchi e istruiti votavano (e trovavano la rappresentanza dei propri interessi) a destra e i più poveri e meno istruiti a sinistra, ad un sistema politico in cui l’élite economica continua a votare “a destra”, e l’élite intellettuale ha spostato il proprio voto “a sinistra”. Questo avrebbe lasciato le classi svantaggiate senza una rappresentanza politica, provocando sia la crescita dei privilegi delle élite, sia la nascita e l’affermazione di movimenti politici demagogici che, pur non offrendo soluzioni valide ai problemi delle classi medio-basse, almeno dichiarano di fare di quei problemi la loro priorità.

Conclusioni? Come scrivevo prima, distinguerei tra i fatti e le opinioni, mie e altrui. I fatti, incontestabili nella sostanza, sono che (probabilmente a causa della globalizzazione) i meccanismi che avevano favorito la ridistribuzione del benessere all’interno di ogni paese avanzato si sono inceppati, e che, pur non diventando più poveri in termini assoluti, i cittadini meno abbienti dei paesi occidentali hanno visto allargarsi il divario con le sempre più elitarie classi privilegiate, e al contempo hanno visto avvicinarsi al loro status le classi produttive dei paesi in via di sviluppo. Questo fenomeno, e anche su questo è difficile avere dubbi, alimenta la disaffezione, e anche la rabbia, di queste categorie che si sentono sconfitte e non riconoscono nel sistema politico tradizionale nessuno che rappresenti i loro interessi.
Quanto alle opinioni, dal punto di vista delle politiche economiche i commentatori che ho citato ritengono, sia pure con diverse sfumature di approccio, che la disuguaglianza sia un problema grave e che per affrontarlo occorra un profondo intervento sul sistema fiscale (facendo pagare di più ricchi e imprese) e finanziare servizi pubblici gratuiti e investimenti in infrastrutture, che sono mezzi più efficaci dei sussidi per migliorare le condizioni dei più svantaggiati.
La mia opinione, infine, è che chi non si riconosce nelle forze che strumentalizzano demagogicamente questo problema debba porlo, seriamente, al centro delle proprie priorità, e capire che solo dando ad esso una risposta credibile potrà competere con il nazionalismo populista. Una “sinistra” che si incaponisca a porre al centro della propria azione il problema dei migranti, la difesa degli interessi degli ultracinquantenni, o le ultime malefatte di Salvini, è sconfitta in partenza, perché su questi temi i suoi avversari sono più credibili e più coerenti. Come scrivevo qualche giorno fa su Facebook, io sono convinto che la “sinistra”, nelle sue diverse anime, debba tornare a occuparsi, e a discutere, di crescita e di equità economica, e ignorare in toto questioni secondarie e iperstrumentalizzate come le migrazioni o la statura morale di Matteo Salvini. Senza proposte positive e credibili sull’economia, migranti e Salvini sono argomenti di cui non ha nessun senso occuparsi. Altrimenti, rivolgersi all’elettorato popolare sarà un’impresa ardua come voler vendere brioches ai sanculotti sotto la Bastiglia.