Digital Citizenship: una rivoluzione possibile

Abbiamo recentemente commentato la notizia del progetto di Facebook per creare una nuova “moneta”, che dovrebbe essere lanciata nella prima parte del 2020, e abbiamo scritto che si tratta di una novità potenzialmente rivoluzionaria. Ma perché? E quale tipo di rivoluzione potrebbe annunciare?

Gli amici che ci seguono dal 2014 hanno già letto diversi post in cui abbiamo parlato di Digital Citizenship (o Cittadinanza Digitale), intendendo con quest’espressione non (come dice ad esempio Wikipedia) la facoltà di esercitare le nostre prerogative di cittadini (ad esempio) italiani tramite strumenti digitali, ma una vera e propria forma di nuova cittadinanza di Internet, in cui tutti, italiani, tedeschi, cinesi o statunitensi, siamo Netizens, abbiamo delle identità digitali, frequentiamo corsi, visitiamo musei, assistiamo a spettacoli, leggiamo libri, comunichiamo con amici e conoscenti, aderiamo a campagne civili, commettiamo illeciti, o se vogliamo “reati digitali” non nel senso di reati ordinari compiuti sfruttando tecnologie digitali, ma violazioni di norme che non sono leggi di nessuno Stato tradizionale ma che si applicano solo alle nostre azioni online e hanno senso solo in Rete.

Questa Digital Citizenship non è ovviamente qualcosa che prenda forma da un giorno all’altro, né è così nettamente distinta dalla nostra identità “fisica” come avverrebbe all’interno di una piattaforma di vita virtuale di cui Second Life è stata forse l’esempio sinora più rappresentativo. Si tratta in fondo del progressivo crescere, nella nostra vita, del tempo e del valore di attività che non sono quelle ordinarie realizzate tramite un canale digitale (ad esempio l’eCommerce), ma sono rese possibili e accessibili da Internet (l’esempio tipico sono i Social, che sono incomparabili al “bar sotto casa” per velocità, estensione, ecc.), ad esempio grazie all’effetto-Rete. Questo valore, e la sua progressiva concentrazione in alcune piattaforme globali, come Facebook, è, proprio per l’effetto-Rete di cui parlavo, fortemente relazionale, e quindi rende sempre più preziosa, per noi, la nostra identità digitale, reale o fittizia che sia (ma per forza di cose sempre più reale, anche quando sia fittizia). Questa identità, le sue relazioni con le piattaforme “istituzionali” di Internet (e non intendo ovviamente i siti degli Stati nazionali, ma le piattaforme che regolano l’accesso ai servizi “di cittadinanza” di cui parlavo), i “diritti di accesso” che ci consente, costituiscono la nostra Digital Citizenship. Presto, essere “cittadini” di Facebook significherà anche, come abbiamo visto, poter utilizzare una nuova moneta, il che ha anche un forte valore simbolico, visto che battere moneta è da sempre il privilegio del “signore”, o, in tempi moderni, di uno Stato autonomo.

Questa cittadinanza però nasce, e non dobbiamo mai dimenticarlo, all’interno di un mondo digitale intrinsecamente privato. Filippo Ottonieri, su Internet, ha (o forse è?) un account Gmail, un account Facebook, un account WordPress, eccetera, e tutti questi account sono collegati tra loro. La sua possibilità di libera espressione del pensiero non è garantita da una Costituzione, ma è una concessione di queste grandi piattaforme private, che possono ritirarla in qualunque momento. Un nostro amico nelle ultime settimane è stato bloccato su Facebook, probabilmente perché pubblicava cose sgradite a un gruppo organizzato di persone che lo hanno ripetutamente “denunciato” a FB. Ovviamente FB non fa un processo, non ci sono garanzie di difesa, il “colpevole” riceve semplicemente l’avviso di una sanzione la cui scadenza può, sempre discrezionalmente, essere estesa nel tempo ad libitum. Facebook agisce di fatto con il potere assoluto di un monarca d’altri tempi: in fondo è un’azienda privata e non deve rispondere a nessuno. Davvero?

In realtà, secondo me è inevitabile che alla fine non sia più così. Lo stesso potere di Facebook & C., e il crescente valore della Digital Citizenship faranno sì che prima o poi sia necessario stipulare una sorta di Magna Charta digitale, che stabilisca garanzie di trasparenza e correttezza vincolanti anche per i grandi “feudatari” di Internet. Queste regole di garanzia potrebbero (e a mio avviso dovrebbero) sposarsi con una capacità reale di sanzionare comportamenti devianti di cui ho parlato nel post Perché abbiamo bisogno della pena di morte digitale, sanzioni che dovrebbero appunto essere a carico del Filippo Ottonieri digitale, e che pertanto non avrebbero bisogno di un tribunale “vero”, ma di un giudice “digitale”, equo ma rapido. Proviamo quindi, foss’anche solo per esercizio intellettuale, a immaginare come potrebbe essere organizzato un sistema di cittadinanza digitale.

In primo luogo, occorrerebbe un’autorità (naturalmente qualcuno potrebbe pensare a un modello anarchico di cittadinanza, ma personalmente considero più realistico lo scenario che sto per descrivere). Immaginiamo quindi che nasca un consorzio (anzi, un Consorzio) tra le grandi aziende che dominano Internet, ad esempio Google, Facebook, Amazon, Twitter, Microsoft, Apple e magari IBM. Non è così irrealistico: come abbiamo anche visto su queste pagine, un consorzio simile è stato creato per promuovere l’Intelligenza Artificiale. E immaginiamo che questo Consorzio decida di utilizzare un sistema di identità digitale unico, che impieghi tecniche di strong authentication per associare a ogni persona fisica un’identità digitale unica, basata su un’identificazione certa. Con quest’identità ciascuno di noi potrebbe accedere a tutte le piattaforme gestite dalle aziende del consorzio, un po’ come accade con lo SPID per i diversi siti della nostra P.A.. Quest’identità dovrebbe essere inalienabile, così come nessuno oggi può toglierci la cittadinanza italiana, e quindi le aziende del consorzio non dovrebbero poterla revocare mai.

In secondo luogo, bisognerebbe individuare un insieme di “servizi di cittadinanza digitale” ai quali tutti coloro che detengono un’identità digitale possano accedere senza altri requisiti. Per esempio, la posta elettronica, la possibilità di leggere su Facebook (ma non necessariamente di scrivere), la possibilità di interagire con pagine speciali “di servizio” (ad esempio quelle dove le aziende erogano il servizio clienti) e ovviamente l’accesso, anche all’interno di piattaforme come Facebook e Twitter, ai servizi ivi offerti dalla Pubblica Amministrazione “fisica”. Questi servizi dovrebbero essere inalienabili proprio come la “cittadinanza”, ed essere erogati gratuitamente. Non sarebbero pochi, a ben vedere: oltre a cose “ovvie” come i servizi online di Google, YouTube, Facebook, Whatsapp, Twitter, iCloud eccetera, ci sarebbero servizi come Google Arts and Culture, dove si possono visitare musei di tutto il mondo, come i molti ebook scaricabili gratis o per pochi centesimi da Amazon e da altre fonti, o i molti servizi di formazione online gratuita che questi giganti del web (ma anche istituzioni pubbliche che gestiscono canali su YouTube) offrono anche, ovviamente, per rendere popolari i loro prodotti.

Poi verrebbero i servizi commerciali, e quelli che dovrebbero essere soggetti, oltre che a un eventuale pagamento, al rispetto di regole di comportamento fissate e che dovrebbero essere simili per servizi simili. A fronte di violazioni, l’accesso a questi servizi potrebbe essere limitato o bloccato, perché questi non sarebbero servizi di cittadinanza inalienabili. E, per rendere questo tipo di sanzioni davvero efficace e non una semplice formalità, queste dovrebbero essere applicate da tutte le aziende del consorzio alla persona la cui identità digitale è responsabile dell’infrazione. Chi commettesse un “reato” di fake news o hate speech su Facebook, dovrebbe essere bloccato (poniamo, per una settimana) dal pubblicare post e commenti su Facebook, ma anche tweet su Twitter, foto su Instagram, video e commenti su YouTube. E questo sarebbe reso possibile dall’unicità dell’identità digitale. Ulteriori controlli legati all’identità saranno certamente necessari se il progetto di valuta digitale di Facebook andrà in porto, anche per contrastare possibili truffe, riciclaggio, eccetera.

Tutto questo, però, come scrivevo prima, dovrebbe accompagnarsi a una democratizzazione di questo “Regno Unito di Internet” (fuori di esso ci sarebbe ancora la Rete “tradizionale”, senza obblighi e senza garanzie). Essere cittadini non può non significare avere voce in capitolo, diritti di partecipazione, di accesso alle informazioni, insomma una forma di democrazia digitale che limiti lo strapotere del Consorzio.

Questa che ho delineato al momento è certamente un’utopia, o forse per molti una distopia (vi invito a rileggere un articolo di un nostro amico che la pensa in modo molto diverso da me), e può sembrare una trama di fantascienza. Eppure, le rivoluzioni spesso prima di verificarsi possono sembrare fantascienza: chi avrebbe immaginato vent’anni fa che un miliardo e mezzo di persone ogni giorno si sarebbero collegate a una stessa piattaforma informatica, posseduta da una sola azienda? Aziende come Facebook sono già potenti come uno Stato; l’evoluzione che ho prospettato in questo articolo a me pare auspicabile, anche perché creerebbe le basi per stabilire dei contrappesi “democratici” al potere assoluto e “monarchico” di Facebook, Google & C. La transizione da utenti di Internet a cittadini è la via possibile per attribuire a ognuno di noi diritti, doveri e responsabilità.