Ma che bella l’intervista a Sabino Cassese sul Riformista del 17 settembre. Andatevela a godere per intero (farete presto, purtroppo è molto corta e l’intervistatore ha solo toccato pochi elementi fondamentali) oppure sbirciate questa mia sintesi, che poi commenterò. Dice Cassese:
Crisi della democrazia (chiede il giornalista): vi sono tre problemi tra di loro connessi. Il primo è la liquefazione dei partiti, che sono stati in passato lo strumento per veicolare la domanda popolare nelle istituzioni e per formare la classe politica. Il secondo è l’abbassamento del livello di quest’ultima, conseguente al primo fenomeno. Il terzo è la permanenza di una formula elettorale che non promuove la convergenza delle opinioni e delle scelte. I partiti Sono giuridicamente associazioni, ma hanno perduto le caratteristiche associative. Sono divenuti organizzazione (episodica) del seguito elettorale di un leader o di un gruppo oligarchico. Di questa trasformazione sono causa molti fenomeni: il ripudio della partitocrazia, dopo il 1992 – 1994; la fine delle ideologie e l’incapacità dei leaders di prospettare programmi e un futuro; lo sfarinamento dell’elettorato, incapace di aggregarsi intorno a un programma. Quindi, i fattori riguardano sia l’offerta politica, sia la domanda politica. Mancano i leader o manca una visione politica (chiede il giornalista)? Le due cose vanno insieme, gli uomini e i progetti (preferisco questo termine a “visione”, perché ricordo la frase del cancelliere tedesco Helmut Schmidt: «chi ha grandi visioni dovrebbe andare dal dottore»). Mancano gli uni e gli altri. I progetti fanno un leader. Ma un leader elabora i progetti.
Cassese accenna anche all’irrealtà della democrazia diretta vagheggiata dal M5S e all’ipertrofia del potere giudiziario, temi che non discuterò ora.
I temi riassunti sono stati molto al centro delle nostre riflessioni in questi anni.
Cassese ci indica il dissolvimento di alcuni principi essenziali della democrazia occidentale: i meccanismi sociali di trasferimento e trasformazione delle istanze popolari (bisogni certamente, ma anche desideri, nuovi livelli di consapevolezza dovuti a trasformazioni sociali…) in programmi e progetti di intervento messi in atto dalla politica. Quei meccanismi sono stati i partiti, sono stati le classi politiche (che è cosa diversa) e i loro leader, sono certamente state anche le ideologie che non sono state sostituite da visioni (le strade da compiere per arrivare da qualche parte, dove ci dirigiamo coralmente costruendo un futuro migliore per il nostro Paese).
Cassese non spiega come e perché questi meccanismi si siano inceppati, mentre Galli della Loggia, in un suo corsivo dello stesso giorno sul Corriere, prova a spiegarne almeno una causa:
Perché questa sostanziale indifferenza che assomiglia spesso a un vero e proprio ottundimento etico-politico? Perché questa costante sottovalutazione della portata di quanto accade, della sua minaccia per i nostri interessi e i nostri valori? Le ragioni sono molte, ma quella che tutte le riassume, la principale, consiste in una forma di clamorosa miopia storica che produce un altrettanto clamoroso autoinganno. I popoli dell’Occidente si credono ancora il centro del mondo. A dispetto delle idee internazionalistico-democratiche che essi perlopiù professano, in realtà nel loro intimo sembrano credere di essere ancora i padroni indiscussi del processo storico, i soli capaci di pensarne i parametri in modo adeguato, e che nulla e nessuno potrà mai scalzarli da questo ruolo. Faticano a rendersi conto dei drammatici cambiamenti intervenuti nei rapporti di potere planetari, delle nuove dipendenze economiche che sempre più li condizionano. Non sono capaci d’intendere le conseguenze potenzialmente drammatiche che comporta la crisi profonda di alcune dimensioni che furono viceversa fondamentali per la loro affermazione storico-mondiale: per dire solo le prime che vengono alla mente, la fede religiosa fondata sul lascito giudaico-cristiano, l’istituto della famiglia, un sistema d’istruzione orientata all’umanesimo nutrito dalla tradizione classica.
Galli della Loggia, nel suo testo, si era posto una domanda precisa:
I barbari odierni si chiamano Putin, Lukaschenko, Erdogan, Xi Jinping, Assad , Khamenei, Kim Jong-un, Al-Sisi. Governano Stati quasi sempre grandi e potenti, e i loro tratti principali sono il cinismo e la spregiudicatezza con cui si muovono sulla scena internazionale all’unico scopo di allargare il proprio potere o di conservarlo a qualsiasi prezzo.
Come mai l’Occidente subisce passivamente queste prepotenze? La sua risposta, come avete visto, riguarda una cecità etnocentrica, che ci porta a pensare il mondo, leggerne gli eventi, giudicarli, coi nostri vecchi arnesi concettuali che non vanno in realtà più bene neppure per noi (come diceva Cassese), figuratevi per capire l’islamista Erdogan, per il fascista Al-Sisi, per il totalitarista Xi e per gli altri citati, e quindi per sapersi rapportare a loro.
Sapete chi, in Occidente, ha capito tutto? Trump. Anche Bolsonaro, potrei dire. Despoti moderni nati, cresciuti ed eletti in paesi democratici, che supponiamo essere parte dell’Occidente, semmai allargato al Giappone, a buona parte del Sud America, a qualche isola qua e là nel mondo (Israele? Sud Africa?).
In forme storicamente differenti, la democrazia doveva (voleva?) trasmutare in una sua nuova essenza necessaria, ma – questo io credo – non ha trovato terreno adatto a tale trasmutazione. La democrazia del Terzo Millennio doveva essere più libertà per tutti (e non controlli sempre più invasivi), più cultura, istruzione e competenze per tutti (e non l’intercambiabilità di pareri come opinioni e viceversa, non riuscendo più a compiere le necessarie distinzioni) e soprattutto più informazione per tutti, base per la formazione di un’opinione pubblica (e non cacofonia distopica dove diventa impossibile cogliere qualunque brandello, ragionevolmente certo, di realtà – e non ho scritto “verità”).
Ciò che chiamiamo “democrazia” – questo dico da tempo, e questo traggo da Cassese e Galli della Loggia – è in realtà un’altra cosa, il cui nome non conosco. Chiamiamo ‘democrazia’ cosa, esattamente? Di tutte le promesse della democrazia (uguaglianza, fratellanza, libertà) cosa stringiamo fra le dita? Simulacri di libertà, promesse ciniche di fratellanza, palese disuguaglianza. Fra le libertà che crediamo di avere, quella politica sarebbe la più rappresentativa, sotto il profilo che stiamo discutendo. E credendo di possederla, distinguiamo fra noi che andiamo a votare i nostri rappresentanti, e loro che non possono farlo. Ma poi il pensiero va alla Russia, alla Turchia, al Brasile… elezioni popolari che hanno democraticamente eletto despoti terribili (per tacere di Trump; della democratica Brexit; del democratico voto per tagliare – castigare – i parlamentari italiani…). Cerchiamo un nuovo indicatore: la libertà di esprimersi criticamente contro il governo che, sappiamo, non si può fare in Cina e si fa a rischio di galera in Turchia e a rischio della vita in Russia. Ma si può fare benissimo in Brasile, in USA e in Italia, dove vediamo mascalzoni che hanno governato, che governano. E poi, ragioniamo un pochino su questa presunta libertà di critica e utilizziamo, per il nostro ragionamento, le piccinerie italiane: in cosa, il popolo democratico, intende esprimersi? In “ammazziamo i politici ladroni”? In “sotto casa mia NO alta velocità, no impianti, no niente”? In “le risorse boldriniane aiutiamole al massimo a casa loro”? Direte: stai prendendo delle posizioni estreme che non esprimono la varietà dei pensieri presenti in Italia. Sbagliato: questi sono i pensieri presenti nella maggioranza degli italiani, come sappiamo dai risultati delle ultime politiche, da tutti i sondaggi, dalla lettura dei social. La parola magica è “maggioranza”. Che da condizione di democrazia è diventata vincolo pesante di antiscientismo, ignoranza e prepotenza, negazionismo, trivialità, ipersemplificazione dei problemi, egoismo di massa.
Se della democrazia (vagheggiata, chissà se è mai esistita e casomai non ce ne siamo accorti?) dell’Otto e Novecento c’è rimasto solo il simulacro, oggi noi in quale tipo di Stato/Governo/Regime viviamo, e quali potrebbero essere i suoi sviluppi? Anche se ne ho già parlato approfonditamente da poco, lasciatemi almeno dire una cosa per me chiara: noi non viviamo in una democrazia come descritta – per citare i più noti – da Rousseau, Montesquieu o Lincoln o chi vi pare. Quella democrazia, mai esistita nella Grecia classica, della quale non abbiamo reali esempi storici da portare a modello ma solo tentativi parziali nella seconda metà del Novecento, se anche è esistita, da qualche parte, per un qualche periodo di tempo, oggi non esiste più in alcuna parte del mondo, né si può pensare di vederla in futuro perché la situazione, sotto il profilo democratico, peggiora: peggiora l’istruzione, peggiora l’informazione, peggiorano uguaglianza e difesa dei diritti, tutti quei pilastri basilari per potere immaginare una forma di “democrazia”. Viviamo sulla spinta, sull’abbrivio, sullo slancio della sconfitta dei barbari a metà del secolo scorso (adopero “barbari” sull’onda del testo di Galli della Loggia), e delle speranze, degli slanci “democratici” che certo ci furono, e che negli anni ’80 erano già sconfitti.
Se di queste cose ho già parlato più volte, qui su HR, bisognerà pure fare un passo avanti nell’argomentazione. Ecco il mio passo avanti, sotto forma di domanda provocatoria: se la democrazia idealizzata non esiste più, se le tirannie prepotenti aumentano le minacce al mondo, se non riusciamo a veicolare i bisogni autentici del popolo a una saggia classe politica, che trovi le necessarie risposte, se e se e se… non sarebbe meglio guardare in faccia la realtà, mettere in agenda la necessità di reinventarsi la politica, smetterla di fare i “democratici” senza significato e senza futuro?